"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

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Sulle tracce di Al Andalus e del Don Chisciotte
Alhambra, Granada

Viaggio nella solitudine della politica.

Tredicesimo itinerario.

 

Sulle tracce di Al Andalus e del Don Chisciotte

22 aprile 2022 – 2 maggio 2022



«Il palcoscenico costruito da Cervantes era affollato da versioni diverse della domanda

se le cose possano mai essere quelle che sembrano, che affermano di essere, 

che vogliamo che siano, che ad altri occorre che siano»

Maria Rosa Menocal, Principi, poeti e visir



Mi sono interrogato più volte se fosse il caso di proporre - malgrado tutto quel che accade intorno a noi - un ennesimo viaggio. Pandemia, crisi climatica, guerre ci potrebbero indurre ad attendere tempi migliori. Il fatto è che il tempo migliore viene considerato quello della normalità, ovvero il contesto nel quale l'intreccio delle crisi che stiamo attraversando ha trovato il proprio retroterra materiale, culturale e politico. Ovviamente valuteremo nelle prossime settimane quali saranno gli sviluppi degli avvenimenti, ma anche questo nostro immergerci nella storia europea e mediterranea lo vorrei considerare come una risposta a chi ci ripropone - in queste ore di guerra - lo scontro di civiltà. E poi non vorrei cedere ad un'emergenza che diviene infinita, perché non sappiamo leggere in altro modo il presente. 

Ecco perché - salvo ostacoli insormontabili - vorremmo di nuovo metterci in viaggio. Uso il plurale, perché questi viaggi sono stati un agire collettivo, una forma di "presenza al proprio tempo" e anche occasioni di formazione, che hanno a loro volta prodotto pensiero e relazioni, diari e libri ed altro ancora.

Abbiamo imparato che ogni terra è un caleidoscopio sul proprio tempo. Lo è andando a rileggere il passato che, quando non elaborato, incombe sul presente. Lo è per quanto ha saputo condensare nella modernità. Lo è infine nella capacità di far vivere il futuro nel presente.

Se ci pensiamo, tutti i precedenti itinerari di questo nostro “Viaggio” hanno cercato di interpretare altrettanti limes, come a far scorrere avanti e indietro la macchina del tempo alla ricerca dei nodi gordiani di un secolo con il quale non abbiamo saputo fare i conti, ancora ingombro dei pensieri e dei paradigmi di una storia finita.

Ancora ci mancavano alcuni passaggi cruciali. Lungo le rotte mediterranee fra l'Europa, l'Africa e il vicino Oriente, alla ricerca di ciò che rimane delle “primavere arabe”. Lungo il cuore di tenebra del progresso, fra la regione del carbone e del ferro contesa nella prima guerra mondiale, il mito della razza che portò ai campi della morte e il delirio dell'homo faber che ha nell'“Arbeit mach frei” e nel controllo dell'atomo i suoi tragici simboli. E infine il passaggio che ci racconta di quando Europa volse il proprio sguardo verso occidente, come a voler rompere il cordone ombelicale che la tratteneva alla Mezzaluna fertile del Mediterraneo.

E’ quest'ultimo un itinerario concettuale prima ancora che fisico, che ci porterà ad aprile in Andalusia, per toccare tre aspetti che meglio di altri crediamo possano trasmetterci qualcosa dalla storia e dal presente di questa terra.

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Sul sentiero della pace non c'è la spesa militare
Hiroshima. Ombre.

C’è una «fraternità del dolore» di cui dovremmo fare tesoro: la sentiamo come un codice genetico, come una pulsazione naturale, dentro i nostri cuori.

di Nichi Vendola *

Kiev siamo noi. Ogni singolo fotogramma catturato sui fronti di guerra ferisce il nostro sguardo e il nostro sentimento di umanità. Ogni dolente cronaca della devastazione comandata da Putin ci spinge dentro la voragine di un regresso da cui pensavamo di essere risaliti faticosamente. Kiev, Mariupol, Odessa, Kharkiv siamo noi. Le città squartate, incenerite e fumanti del martirio ucraino sono lo specchio rovesciato delle nostre città vibranti di incontri, di suoni, di socialità. Siamo anche noi le famiglie strappate al tepore domestico, alla serenità degli affetti, alla normalità della vita quotidiana. E noi siamo loro: la stessa razza umana, lo stesso diritto alla dignità, la stessa ambizione di camminare eretti guardando il cielo, le stesse lacrime quando si strappa la trama preziosa della vita.

Voglio dire che c’è una «fraternità del dolore» di cui dovremmo fare tesoro: la sentiamo come un codice genetico, come una pulsazione naturale, dentro i nostri cuori, dentro le nostre pupille che non smettono di guardare. Eccola l’umanità oltraggiata, eccola nella sua corsa al cardiopalma per sfuggire alla mattanza, per mettere in salvo un bimbo, ma anche un gatto o un cane, per stringersi nel rifugio mentre il proprio quartiere rimbomba per le detonazioni, per non lasciarsi seppellire dalle macerie della propria casa che crolla, eccola separarsi dai propri affetti e dai propri luoghi, salutare il proprio universo e salpare verso destinazione ignota: non c’è intelligenza geopolitica che non debba misurarsi innanzitutto con questa sofferenza, con l’orrore dell’aggressione criminale di un autocrate imbalsamato sul suo trono. Non si può separare il discernimento dalla compassione. E in queste settimane di sgomento forse abbiamo persino imparato a comprendere il significato amaro e tristissimo della parola profugo: chi fugge dalla città che brucia, proprio come Enea, non è un turista o uno speculatore imboscato...

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«Il monito della ninfea» a scuola
Foto di Stefano Semenzato

Prende il via mercoledì 2 marzo 2022 a Trento un itinerario formativo attorno al libro “Il monito della ninfea. Vaia, la montagna, il limite”.

 

«... resta pur sempre valido il monito espresso dall’immagine della ninfea

che raddoppia quotidianamente le sue dimensioni,

di modo che, il giorno che precede la copertura dell’intera superficie dello stagno

la metà ne resta ancora scoperta,

per cui quasi nessuno, alla vista di tanto spazio libero,

è portato intimamente a credere all’imminenza della catastrofe.»


Remo Bodei, Limite


Descrizione

Sono trascorsi più di tre anni da quella notte di fine ottobre 2018 quando la furia del vento abbatté 42.500 ettari di bosco e foreste dolomitiche. Si trattò dell'evento di maggior impatto sugli ecosistemi forestali mai avvenuto in Italia, cambiando in questo modo il volto di 494 Comuni, per un territorio complessivo di 2.306.000 ettari spalmati sull'arco alpino orientale. In un contesto nel quale gli avvenimenti si consumano in pochi giorni, a volte in poche ore, il lasso di tempo che ci separa da quel tragico evento può sembrare sufficiente per metterlo in archivio.

Se pensiamo che in questi due anni è accaduto di tutto, non solo il susseguirsi di altri eventi estremi che hanno scosso gli ecosistemi in ogni parte del pianeta ma soprattutto una sindemia che ancora sta devastando la vita di miliardi di persone, il ciclone tropicale Vaia potrebbe oltremodo apparire come un fatto verso il quale non riservare ulteriore attenzione. Questo mettersi le cose alle spalle senza averne colto il monito non va bene.

Allo stesso modo continuiamo a guardare gli avvenimenti come se fossero compartimenti stagni quando invece tutto si tiene. «Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe» scrive Walter Benjamin nel suo Angelus Novus. Un'esortazione che vale anche per questo nostro tempo, che ci dovrebbe aiutare a riconoscere le connessioni fra le cose che accadono e che appaiono solo apparentemente estranee l'una all'altra.

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Il Donbass, tolto il velo dell’ipocrisia
Donbass, foto da www.balcanicaucaso.org

L'aggressione del regime di Putin all'Ucraina ha tolto il velo anche sull'ipocrisia regnata nel Donbass dal 2014 ad oggi. Quello che, secondo le autorità di Mosca, sarebbe il teatro di un genocidio condotto ai danni della popolazione russofona, altro non è che un buco nero mafioso

di Matteo Zola *

(25 febbraio 2022) Lo scorso 21 febbraio la Russia ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. Il giorno seguente l’esercito russo entrava nelle due repubbliche per una missione di peacekeeping che, da un lato, affermava la sovranità russa sui due territori e, dall’altro, preparava l’invasione del resto dell’Ucraina.

Dopo anni di ipocrisie e falsità, è finalmente caduto il velo dal Donbass. Ripercorrere la storia recente di questa regione significa addentrarsi nei meandri di un conflitto definito “a bassa intensità” ma che, dal 2014, non ha smesso di seminare morte associando alla destabilizzazione politica e al controllo militare, pratiche criminali comuni, traffici, regolamenti di conti e violenza. Quello che, secondo le autorità di Mosca, sarebbe il teatro di un genocidio condotto ai danni della popolazione russofona, altro non è che un buco nero mafioso.

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Accettare il senso del limite
Jasenovac

L'editoriale apparso dell'edizione di ieri sul Corriere del Trentino

di Ugo Morelli

(9 marzo 2022) Il grande maestro di scuola Mario Lodi aveva scritto nel 1963 un libro che fece epoca sulle possibilità dell’educazione: «C’è speranza se questo accade al Vho». Il Vho è una piccola località vicino a Piadena, dove Lodi insegnava. In quel luogo l’educazione riusciva a creare anno dopo anno cambiamento ed emancipazione, libertà e civiltà.

Vuoi vedere che un’intera epoca dopo e in un mondo totalmente cambiato, forse non in meglio, si apre una speranza, ancora una volta in un luogo? A leggere la lista dei firmatari e sostenitori del documento: «Un Green deal per le foreste dolomitiche. Vaia da sciagura a opportunità», c’è da rimanere positivamente pieni di stupore e speranza per il numero di firmatari e per la loro rappresentatività. Lo stupore è giustificato ancor più dall’importanza, dalla chiarezza e dalla forza del contenuto del documento. Attivato da Michele Nardelli e Walter Nicoletti, il documento assume i luoghi come fondamento per un cambiamento epocale, il cui riferimento non sono solo i luoghi stessi, ma il pianeta su cui viviamo e la nostra vivibilità.

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Oltre il limite. A proposito della ristrutturazione del rifugio Santner
Rifugio Santner

Quando i luoghi dell’anima, dove gli individui entrano in contatto con la propria natura biologica e spirituale, saranno ridotti a merci qualcuno si arricchirà ma tutti saremo più poveri *

di Diego Cason

Esposti a un’insidia, a un pericolo mortale, a una persecuzione, cerchiamo un riparo. Un refugium, dal latino refugere, che non significa riparare ma rifuggire, da cui rifugiato. Il rifugio che conosciamo meglio è quello alpino. Dove ci si rifugia, appunto, per sfuggire alle minacce della montagna. Deriva dagli antichi “xenodochi”, ospizi gratuiti per forestieri e pellegrini. In tutti i monti del mondo c’è qualche tipo di rifugio. Alcuni nacquero sfruttando pareti aggettanti, grotte, antri erosi dai venti. In Svizzera li chiamano capanne: anche in tedesco Hütte si riferisce a una casupola (Hundenhütte è la cuccia del cane), se vogliamo indicare un rifugio bisogna utilizzare il termine Berghütte (capanna di montagna). I rifugi erano, di norma, luoghi semplici che fornivano un giaciglio e cibo d’emergenza.

Con la diffusione dell’alpinismo e la nascita del turismo moderno nell’Ottocento i rifugi si trasformarono in alberghetti. Oggi, con il turismo alpino di massa, sono pressati da una domanda di servizi un tempo sconosciuta. I primi rifugi moderni servivano come punti d’appoggio per raggiungere obiettivi strettamente alpinistici e, di frequente, furono edificati in luoghi posti già in alta quota per agevolare l’arrampicata verso una o più cime. Spesso furono costruiti su valichi e passi sfruttando edifici precedentemente dedicati ad altro scopo, come ricoveri per i pastori o per carbonai che trascorrevano periodi piuttosto lunghi in alta montagna. Oggi questo tipo di funzione è svolta da bivacchi prefabbricati portati direttamente in elicottero sul posto. I rifugi invece hanno seguito un’evoluzione che li ha in gran parte trasformati in alberghi, più o meno grandi, quasi sempre dotati di un servizio di ristorazione, di bagni e camere individuali al posto delle grandi camerate e dei bagni collettivi.

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Fra passato e presente. Quel che l'Europa non ha imparato dalle guerre moderne *
Sarajevo, brucia la Vjesnica

di Michele Nardelli

(15 giugno 2022) Se ne osserviamo i tratti, i proclami come la conduzione, la guerra in Ucraina potrebbe apparire come un residuo della storia. Alla virulenza dell'armamentario nazionalistico (dalla sacralità dei confini agli sbocchi sul mare, dal fondo genetico di sangue e suolo alle rivendicazioni di terre che nella storia hanno conosciuto attraversamenti e bandiere di diverso colore) corrisponde una guerra casa per casa, villaggio per villaggio, con l'assedio delle città e la distruzione delle infrastrutture civili e culturali... che fanno rivivere scenari novecenteschi.

Di certo dolore, distruzione e tutto quel che già sappiamo della guerra, che pure non viene indagata a dovere, malgrado accompagni da sempre la vicenda umana come presenza archetipica. Tanto che ogni volta ci si stupisce di quanto possa essere profondo l'abisso.

Talvolta si ha la sensazione che il tempo si sia fermato, come se si stesse riavvolgendo una pellicola consunta, in luoghi che hanno continuato a versare lacrime e sangue nel cuore orientale dell'Europa, di questa Europa così presuntuosa da pensarsi immune nonostante sia stata l'epicentro delle due guerre mondiali e del suo tragico ritorno nella regione balcanica e nell'area caucasica.

Un residuo della storia, dunque?

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