"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Fra nazionalismo ereditario e fondamentalismo

Beirut, la statua dedicata a Samir Kassir

Considerazioni a margine dei tragici avvenimenti che dilaniano il vicino Oriente 

di Michele Nardelli

(16 agosto 2013) Penso che non userò più il termine "primavera", se non per raccontare di una stagione come un'altra. Per l'insidia che si cela dietro a questo termine declinato sul piano politico, capace di suscitare grandi aspettative e produrre cocenti delusioni.

Samir Kassir che della "primavera di Beirut" fu animatore e protagonista, e per questo assassinato il 2 giugno 2005, pure ci parlava dell'ambiguità di questa parola in assenza di una nuova cultura alla quale potesse corrispondere una classe dirigente capace di uscire da una dialettica schiacciata fra regimi non democratici sostenuti dall'Occidente e islamismo radicale.

Eppure a quest'ultima "primavera araba" ci avevamo creduto, per tutto ciò che la parola dignità evocava, per il protagonismo delle donne velate o meno che fossero, per il suo carattere nonviolento, per quella dimensione araba che andava oltre i confini artificiosi che il post colonialismo aveva disegnato sulla sabbia scambiati per progresso...

E invece, proprio l'assenza di una nuova soggettività politico culturale in grado di costituire quella terza via che aveva in mente Samir Kassir nel suo manifesto del dissenso arabo (L'infelicità araba, Einaudi), ha fatto sì che il "nazionalismo ereditario" e l'islamismo radicale ritornassero padroni della situazione, in Siria come in Libano, in Egitto come in Tunisia.

Quante volte ne abbiamo parlato in questi mesi con gli amici Adel Jabbar e Ali Rashid, nel cercare questa strada diversa, anche dando credito all'islam politico come possibile interprete di un nuovo corso che sapesse coniugare modernità e tradizione, in un rinascimento che aiutasse quei popoli ad uscire dal vittimismo dell'infelicità araba, riappropriandosi finalmente del proprio destino.

E quanta delusione e frustrazione nel veder sostanzialmente inesplorata questa strada, come se il Novecento fosse passato invano. Come in una straordinaria occasione mancata...

Già durante le grandi manifestazioni che hanno scosso recentemente la Turchia, vedevo rispuntare l'insidia di una vecchia dialettica fra progresso e conservazione. Ricordo a questo proposito l'incontro al Café de la Paix, che di questa insidia era purtroppo la fotografia, con una sinistra prigioniera dei propri paradigmi novecenteschi. Era accaduto lo stesso qualche mese prima quando avevo parlato ai giovani egiziani e tunisini che partecipavano al percorso formativo de "La rondine" sulla necessità di andare oltre il concetto di stato-nazione, laddove la parola
autodeterminazione era diventata una prigione ideologica. O, ancora, nella difficoltà di parlarne con gli amici palestinesi, come se la colpa dell'altro ne oscurasse il pensiero.

Per questa ragione avevamo pensato ad una piattaforma web di confronto fra le diverse sponde del Mediterraneo, che ancora non siamo stati in grado di realizzare. Per fluidificare i pensieri, aiutare le visioni, costruire nuovi abbecedari del linguaggio politico. Che ciò malgrado continua ad essere presente nella mia agenda.

Come in ogni passaggio difficile della storia occorrono bussole nuove, facendo tesoro dell'eredità del passato. Avendolo elaborato, il che non è né scontato, né dato. A guardar bene è anche un nostro problema.

In queste ore, alle persone che di questo passato che non passa sono le vittime, va tutta la mia vicinanza e l'impegno per disegnare un pensiero nuovo di cui avvertiamo tutta la drammatica urgenza.

 

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