"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Lo sguardo delle classi dirigenti. Appunti sul festival dell'economia

Cambiamenti climatici

(31 maggio 2014) Ha preso il via il Festival dell'economia. Il tema della nona edizione è di quelli cruciali: “Classi dirigenti, crescita e bene comune”. Un tema stimolante e di grande attualità, per una manifestazione che non smette di stupire per quante attese e attrazione di pubblico riesce a generare. E per una comunità che, a dispetto degli anni, continua a vivere il festival come un tratto di sé, della sua natura aperta, curiosa, coesa, che va ben oltre il “tutto esaurito” della ricettività alberghiera che ovviamente male non fa.

Viva il festival dell'economia, dunque. Eppure c'è qualcosa che non va. In questi nove anni le risposte che il festival ha dato sui grandi temi del nostro tempo sono sembrate piuttosto scontate, difficilmente hanno saputo scuotere il pensiero dominante, leggere con anticipo quel che sarebbe accaduto, indicare strade originali... come si dovrebbe richiedere ad un luogo di incontro e di pensiero.

Così il festival è diventato più una passerella prestigiosa di premi nobel, di protagonisti del pensiero economico, di personaggi che portano sulle loro spalle responsabilità politiche o di governo, di giornalisti... che un luogo di intuizione o di elaborazione.

Lo si evince anche dalla domanda, implicita nel titolo, che costringe la riflessione lungo uno scenario a mio avviso fuorviante: sono all'altezza le nostre classi dirigenti di rimettere in moto la crescita economica? Non è che per caso le nostre classi dirigenti (tanto della politica quanto della pubblica amministrazione) hanno costruito il loro sapere attorno a paradigmi che non reggono più?

Di fronte alla conclamata insostenibilità di un pianeta la cui impronta ecologica fa sì che le risorse annualmente prodotte dagli ecosistemi siano già consumate ogni anno ad una data sempre più sciaguratamente lontana dal 31 dicembre, è davvero strano che il tema del limite non s'imponga come il nodo cruciale da cui ripartire per l'elaborazione di un pensiero della sostenibilità. Al contrario, si continua a far finta di niente.

Allo stesso modo talvolta si riconosce che la natura della crisi è strutturale ma poi, come se questo non volesse dire nulla, si continua a ragionare come se la crisi fosse congiunturale, immaginando cioè che prima o poi la ripresa ci sarà. Ma se la crisi è strutturale vuol dire che i fondamentali sono saltati, che siamo in un tempo nuovo e che il rilancio dei consumi più che essere la soluzione ci avvicina ancora di più al baratro. A meno che non si teorizzi, e qualcuno lo fa, che i diritti delle persone non sono universali, che al contrario è il diritto naturale (la selezione del più forte) il principio ispiratore del nuovo millennio. Il che non è poi molto distante dall'idea che sia il mercato lo strumento di regolazione delle relazioni umane.

La cultura neoliberista, che ha segnato nel recente passato il pensiero dominante, è tutt'altro che archiviata. E l'approccio keynesiano, anch'esso fondato sull'illimitatezza delle risorse, non è la risposta.

Allora forse il tema delle classi dirigenti andrebbe collocato qui, in quel cambio di paradigma che la realtà impone e sul quale invece il pensiero appare ancorato ad un contesto che non esiste più. Questo, ovviamente, non significa che non vi sia un problema di una classe dirigente i cui meccanismi di selezione sono spesso condizionati dai criteri di fedeltà anziché dalle capacità, di apparati il cui potere cresce in maniera inversamente proporzionale alla qualità della politica, di burocrazie che – dopo tangentopoli – tendono a non assumersi la responsabilità di nulla, facendo diventare le procedure asfissianti e così via. E' però la luna che dobbiamo guardare, non il dito.

 

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