"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Bosnia Erzegovina, un paese stremato

Bottega artigiana nelle vie di Sarajevo

"Ritorno nei Balcani", la seconda puntata

(Agosto 2014) Amo prendere il caffè al Morića Han, nella Baščaršija, il cuore ottomano di Sarajevo. Venne realizzato nel 1531 da Gazi Husrev-beg come parte integrante del progetto che, insieme alla moschea, alla madrasa (la scuola coranica) e alla mensa per la gente povera, costituì una sorta di atto fondativo della città di Sarajevo. In origine era un caravanserraglio, luogo di accoglienza per i viaggiatori ai quali non si negava mai il pane, l'acqua ed un giaciglio. Antiche civiltà, quando l'ospite era sacro e lo straniero il benvenuto.

Ora nessuno sembra accorgersi delle persone che chiedono l'elemosina nelle strade, men che meno di quelle che per dignità o vergogna si arrabattano con quel poco che hanno. Nemmeno negli anni immediatamente successivi alla guerra era così. Mi colpisce la diffusione della povertà delle persone anziane che spesso si trovano a dover fare i conti con una pensione di centocinquanta marchi convertibili (pressapoco settantacinque euro) o anche meno, sempre che lo Stato di cui sono cittadini riconosca loro qualcosa (visto che quello nel quale hanno versato i contributi non esiste più...).

Con un po' di pudore osservo una persona anziana guardare la frutta in una bancarella ed il suo commentare sconsolato di prezzi che se immaginati in un mercato di casa nostra sarebbero stracciati e che invece, rapportati al reddito di qui, possono risultare inaccessibili. L'abito mi racconta di un passato diverso e dignitoso, che la duplice tragedia della guerra e della dissoluzione del paese di cui era parte (e sul quale aveva investito certamente una parte della sua esistenza) ha cancellato.

Mi viene in mente quando, era il 1996 e l'assedio della città finito da pochi mesi, con Emilio Molinari venimmo ospitati in uno dei condomini non lontano dallo stadio olimpico di Sarajevo. In quell'abitazione viveva un anziano inquilino che colpì la nostra attenzione per la sua signorilità. Con vestito e camicia bianca, se ne stava per tutto il tempo seduto in poltrona, davanti a lui qualche sigaretta contata e delle confezioni di medicinali, a guardare ossessivamente l'orologio che teneva al polso. Ci sembrò una sorta di rituale, come se la sua storia volgesse al termine, anzi fosse già conclusa dopo gli anni di assedio che avevano messo fine a ciò in cui aveva creduto, come ben si poteva comprendere dalla raccolta di riconoscimenti di quell'altra vita ormai infranta appesi alle pareti. E' un immagine che ricorre spesso nella mia memoria, come se avesse a che fare con l'interrogarsi sull'agire umano e in qualche modo mi riguardasse.

Così in pochi anni si è passati dall'economia dell'autogestione (quando il lavoro significava anche abitazione, spaccio aziendale, servizi e spazio ricreativo...) al turbocapitalismo, lacerando il paese fra chi si è trovato con un pugno di vaucher1, qualche medaglia nel cassetto e null'altro in mano e chi invece si è subito adattato, forse perché già pratico nel farsi gli affari propri, alla logica del business, al malaffare o al “si salvi chi può”.

Basta fermarsi un attimo ad osservare le automobili che sfrecciano lungo la “Maršala Tita”, la via principale all'ingresso della Sarajevo austroungarica, per rendersi conto delle profonde diversità sociali che segnano il presente bosniaco. Diseguaglianze che sono state all'origine un anno fa delle più importanti proteste sociali che questo paese abbia conosciuto dopo la fine della guerra. E che, nelle maggiori città, hanno portato alla nascita dei Forum civici2, spazi inediti di partecipazione con il coinvolgimento di migliaia di cittadini, per la prima volta dopo gli anni '90 a prescindere dalla loro appartenenza nazionale o religiosa. Una fiammata, come spesso accade in questo tempo orfano di ideologie ma ancora privo di nuovi pensieri.

E' come se in Bosnia Erzegovina (ma non si tratta di un fenomeno locale) avessimo a che fare con due economie parallele, quella dei nuovi ricchi che hanno saputo approfittare della deregolazione (e della guerra) per arricchirsi grazie alle privatizzazioni delle proprietà statali, con i denari della ricostruzione, attraverso il controllo dell'import – export, con la corruzione politica o le forme diffuse di criminalità organizzata, e quella di chi a questo nuovo contesto non ha saputo o potuto adeguarsi, non avendo né gli strumenti, né l'energia per reagire. Una divisione sociale ma anche culturale e, vorrei aggiungere, generazionale.

Poteva andare diversamente, certo. Proprio qui a Sarajevo, nel marzo di dieci anni fa, organizzammo come Osservatorio Balcani una conferenza sullo sviluppo locale nella regione. Era il tentativo di dar vita ad un manifesto3 che divenisse un punto di riferimento alternativo rispetto alle dinamiche dell'economia locale nel dopoguerra. Già allora, infatti, si aveva la percezione che l'economia post comunista (e post bellica) andava assumendo caratteristiche in larga misura estranee ai territori e alla valorizzazione sostenibile delle risorse locali, invece fortemente centralistiche ed eterodirette. Illustrai alla platea dei presenti i punti salienti del manifesto e trovai un'attenzione trasversale, come se a parlare di territorio si potessero ridisegnare i tradizionali schieramenti della politica. Era esattamente così, tanto che vennero da me diversi interlocutori (fra i quali il sindaco Muhidin Hamamdzić e il rappresentante degli artigiani Nasir Jabučar, uno dei maestri del rame della Ulica Kazendžiluk4) per complimentarsi e confrontarsi su come dare continuità ad un approccio per loro del tutto nuovo.

Proponemmo questo sguardo anche a Belgrado, Kraljevo, Kragujevac, Novi Sad, Pec – Peja, Prijedor, Scutari, Spalato, Zavidovici... ma non se ne fece granché, essendo la politica (così come la comunità internazionale) incapace di scrollarsi di dosso le categorie del pensiero novecentesco. L'approccio che proponevamo5 era (e continua ad essere) l'unica strada per abitare la globalizzazione senza subirne gli effetti disastrosi in termini di omologazione e di impoverimento. Occorrevano idee nuove e una nuova classe dirigente, come da noi del resto. Ma l'offerta politica ha continuato ad oscillare fra nazionalismo e neoliberismo. Eppure, fra questi luoghi carichi di storia e cultura, non mancava e manca certo il “genius loci”, tanto che Sarajevo è considerata fra le prime città al mondo cui si mette in conto di fare visita6.

Finito il tempo della ricostruzione e in attesa che i cittadini d'Europa si scoprano europei, manca un'idea di sviluppo economico che non sia quello del rincorrere quel che capita, all'insegna – come si può immaginare – della precarietà e dell'incertezza. Così nell'immaginario dei ragazzi c'è l'idea di andarsene. “Dammi una buona ragione per restare qui” ti dicono e hai voglia nel cercare di dare una risposta razionale, in assenza del fervore e della condivisione di un progetto di comunità.

Precarietà ed incertezza non sono però prerogativa solo dei più giovani. Kanita Fočak mi racconta dei salti mortali cui è costretta nel lavoro di interprete per sopravvivere nei suoi ventiquattro metri quadrati e riuscire ad aiutare i suoi familiari. Anche nel suo caso, laurea in architettura in tasca e più lingue parlate, si vive più o meno alla giornata.

Il paese appare stremato come non l'ho mai visto. Oltretutto piove sul bagnato. Ma del cambiamento climatico parleremo nelle prossime puntate.

 

1 La compensazione che veniva data ai lavoratori per la privatizzazione delle strutture produttive nelle quali lavoravano.

2 Ricordo quando a Prijedor dieci anni fa realizzammo un percorso di cittadinanza attiva e di elaborazione del conflitto che si proponeva fra l'altro di dar vita ad un Forum civico. Rappresentò per alcuni anni l'unica realtà che in quella città – così profondamente segnata dalla pulizia etnica – vedeva la presenza di cittadini di diversa nazionalità. Riprenderò l'argomento nell'ultima puntata di questo racconto.

3 http://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Verso-un-manifesto-per-lo-sviluppo-locale-nei-Balcani-22130. Vedi anche http://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Il-difficile-crinale-dello-sviluppo-locale-25900

4 Una delle vie nella Bašcaršija di Sarajevo interamente dedicata all'artigianato locale. Per saperne di più: http://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bascarsija-la-bella-103191

5 Faccio qui riferimento ad una comunità di pensiero che prese corpo attorno al “Manifesto per lo sviluppo locale” di Aldo Bonomi e Giuseppe De Rita (Bollati Boringhieri editore)

6 “Viaggiare i Balcani” il progetto di turismo responsabile nell'Europa di mezzo, nasce proprio in quel contesto. Per saperne di più www.viaggiareibalcani.net

 

2 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Milka il 21 agosto 2014 23:59
    grazie Michele, verissimo!
  2. inviato da Silvia il 21 agosto 2014 23:58
    molto interessante... condivido. Grazie Michele
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