"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Quei cinquecento metri.

Sarajevo, un\'immagine dell\'interno della Vijesnica

Ritorno nei Balcani. Terza puntata

(Agosto 2014) «Il secolo appena finito è iniziato a Sarajevo e nello stesso luogo si conclude, ma le diverse prospettive (politica, sociale, ideologica, antropologica, storica) in cui ci si è posti per osservare e analizzare gli eventi balcanici si sono spesso rivelate parziali e insufficienti, e pochi si sono accorti del fatto che nelle opere di Ivo Andrić, premio Nobel per la letteratura 1961, si possono trovare chiavi di lettura estremamente acute e puntuali. Nessun altro autore, infatti, ha percepito, e mostrato, con tanta forza il “brulichio” delle genti balcaniche, le loro interferenze etniche e religiose, i meticciati che forse solo in questa parte d'Europa hanno raggiunto una tale intensità. Nessun altro ha percepito, e mostrato, con tanta precisione le sofferenze di questi popoli, nessuno ha saputo osservare con tanta attenzione e raffinatezza questi luoghi, i Balcani, che – per usare le parole di Churchill – “producono più storia di quanta ne possono consumare”, e appaiono a un tempo come “la polveriera d'Europa” e come “la culla della cultura europea”»1.

Le parole dell'amico Predrag Matvejević, scritte per la nota introduttiva all'edizione dei “Romanzi e racconti” di Ivo Andrić, ci aiutano a comprendere non solo il valore di un autore dimenticato ma anche la superficialità con cui l'Europa ha guardato a quanto accadeva nel suo cuore balcanico lungo lo scorrere del Novecento fino alla tragedia degli anni '90.

A Sarajevo, il Ponte latino e la Vjesnica (l'edificio austroungarico che nel 1992 ospitava la biblioteca nazionale) distano fra loro non più di cinquecento metri. Percorrendoli a piedi, meno di dieci minuti, dovremmo avere consapevolezza di quanto essi siano stati cruciali nel XX secolo, ma non sempre è così.

A due passi dal Ponte latino, il 28 giugno 1914, un giovane di nome Gavrilo Prinzip assassinava a colpi di pistola l'arciduca ed erede al trono Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, quasi ad anticipare di qualche anno la fine dell'impero (in realtà, degli imperi). Eroe o terrorista? Negli anni a seguire la storiografia abbraccerà l'una e l'altra tesi, tanto è vero che la via dove avvenne l'eccidio fino agli anni '90 era dedicata a Gavrilo Prinzip ed ora ai “Berretti verdi”, unità dell'Armija bosniaca. “Ci hanno fatti dividere anche su questo” ha dichiarato Zlatko Dizdarević in una recente intervista ad Osservatorio Balcani e Caucaso, come se prima vi fosse una narrazione condivisa. Purtroppo non era così, come non lo è del resto su quel che è accaduto sul finire del secolo.

Di certo c'è che, almeno sul piano simbolico, quell'assassinio diede il là alla prima guerra mondiale con un effetto a cascata che sconvolse l'intera Europa per quattro anni e tre mesi con conseguenze che spesso, nella retorica nazionalista e militarista, vengono dimenticate: fra i soldati si contarono 9.722.000 morti e oltre 21 milioni di feriti, molti dei quali rimasero gravemente segnati o menomati a vita. Fra le popolazioni civili quasi 1 milione di persone morirono direttamente a causa delle operazioni militari e circa sei milioni furono le vittime per effetto di carestie e carenze di generi alimentari, malattie ed epidemie, nonché per le persecuzioni razziali scatenatesi durante la guerra.

Era giunto “il tempo degli assassini”, così come aveva previsto in una delle sue folgoranti Illuminazioni Arthur Rimbaud2 immaginando quel che avrebbe potuto accadere nell'applicazione della rivoluzione industriale alla tecnica della guerra. Qualche anticipazione – per la verità – c'era stata nella pulizia etnica del continente nordamericano, con l'avvento della mitragliatrice nello sterminio delle popolazioni native di quel continente, ma fu solo con la prima guerra mondiale che si aprì un capitolo del tutto nuovo nell'uso delle armi automatiche, dei bombardamenti e delle armi chimiche. Sarebbe bene che se ne parlasse, nelle celebrazioni del centenario, di questo secolo in cui sono morti in guerra un numero di persone tre volte superiore a quelli periti nei diciannove secoli precedenti3

Oggi abbiamo oltrepassato il Novecento, ma non possiamo certo dire di averlo elaborato se da quella lezione – come sembra – non abbiamo imparato granché. Così come del resto ben poco si è elaborato di quanto è accaduto nei Balcani negli anni '90.

Percorro quei cinquecento metri lungo la Miljacka nei quali possiamo racchiudere simbolicamente tutto un secolo e arrivo alla Viječnica, di nuovo riportata al suo antico splendore dopo una ricostruzione durata diciotto anni.

Venne bombardata il 26 agosto 1992 e non fu un effetto collaterale della guerra. Era al contrario la volontà di distruggere uno dei simboli di quella città, la sua storia contenuta negli oltre due milioni di volumi che bruciarono per tre giorni e due notti, la sua identità cosmopolita. Non serve aggiungere nulla a quello che ha magistralmente scritto su quel tragico avvenimento Azra Nuhefendić4. Se non, come ho scritto altrove, che in quei giorni non bruciava solo la Viječnica, andava in fumo anche un'idea di Europa come incontro fra Oriente e Occidente. E mentre bruciava l'Europa noi volgevamo lo sguardo altrove...

E' la seconda volta che entro in questo luogo. La prima fu negli anni del dopoguerra: fra le macerie, nelle quali era stato ricavato uno spazio espositivo, non si poteva che piangere nel rendersi conto di dove poteva arrivare l'umana cattiveria. Oggi provo una forte emozione, per la grande raffinatezza della ricostruzione e per il valore di rinascita di questo luogo, a prescindere dalle polemiche che ne hanno accompagnato la sua inaugurazione, il 9 maggio scorso. Perché la Vijesnica non sarà più biblioteca nazionale, bensì ufficio di rappresentanza della Municipalità di Sarajevo, com'era in origine. L'amico Luca Rastello ne ha scritto sul quotidiano “la Repubblica” in un articolo che riporto come allegato, riprendendo le polemiche che sono sorte per una decisione che suona così: “la Vijesnica non riaprirà mai”.

Ha riaperto invece il 15 gennaio scorso l'antica biblioteca islamica Gazi-Husrev-Bey5, in un moderno ed elegante edificio a due passi dalla scuola coranica. Mi ostino a non leggervi alcuna contrapposizione, ma non posso far finta di non vedere l'onda lunga della guerra in un processo di radicalizzazione dell'identità nazionale dei luoghi, a Sarajevo con un numero sempre maggiore di donne interamente ricoperte di nero (cosa anche solo cinque anni fa piuttosto rara e che vent'anni fa non esisteva proprio), a Visegrad (la città del ponte sulla Drina) con l'ostentazione dei simboli ortodossi e dei caratteri cirillici, come a segnare un'identità contrapposta, celebrata quest'anno con la nascita di “Andrićgrad”, come la definisce Luca nel suo pezzo “la nuova Disneyland neo-tradizional-nazionalista di Emir Kusturica”.

Aveva proprio ragione James Hillman quando scriveva che, in assenza di elaborazione del conflitto, “la guerra non finisce mai”6.

Del resto, chi la guerra l'ha vinta è al potere, da una parte e dall'altra, e si guarda bene, complice una prospettiva europea ancora lontana, di uscire dall'imbroglio etnico che è all'origine del pubblico massacro e delle private fortune.

Imbroglio che ancora continua anche perché offre una risposta semplice ad una situazione complessa, un nemico con cui prendersela per le cose che non vanno, un rancore da covare per tenere alto il tasso di adrenalina. E che andrebbe svelato.

In Bosnia Erzegovina non mancano gli intellettuali. Oltre che sorridere (a ragione) delle schiere di fotoreporter inviati a Sarajevo per il 28 giugno e perennemente a caccia di immagini forti, dovrebbero anche rammentare lo snobismo che ostentavano ventidue anni fa di fronte a personaggi come Radovan Karadzić che inneggiavano allo scontro di civiltà. Li consideravano fenomeni da baraccone e si disinteressavano ampiamente del rancore che covava nella “krčma” (la locanda) e del “balkansko blato” (il fango balcanico della “palanka”, il villaggio) per poi trovarsi con gli uni, capi politici e militari, e con il fango nelle città. A pensarci bene abbiamo fatto la stessa cosa con Umberto Bossi e Mario Borghezio in Italia, non capendo nulla di un fenomeno che avrebbe contagiato di lì a qualche anno l'Europa intera. A noi è andata meglio.

Ora più che mai dovrebbero far sentire la loro voce, sempre che abbiano qualcosa da dire. E noi, da questa parte del mare, avremmo dovuto dar loro voce piuttosto che perdere tempo a reiterare il buonismo degli aiuti umanitari. Perché il problema, lo ripeto per l'ennesima volta, è quello della qualità delle classi dirigenti e della capacità della politica di produrre visioni che sappiano far tesoro dell'esperienza e del secolo che ci siamo messi alle spalle.

Lo scontro di civiltà, tanto evocato prima in occidente e poi anche in oriente, non era (e non è) una bischerata folkloristica, ma qualcosa di maledettamente serio che sottendeva (e sottende) la logica dell'esclusione, in altre parole la fine dell'umanesimo per giustificare la “non negoziabilità” del proprio stile di vita. Ovvero la guerra. Il prologo lo abbiamo avuto, sul finire del Novecento, qui e nel vicino oriente.

Penso fra me che quei cinquecento metri andrebbero percorsi senza fretta, magari riflettendo sul vano scorrere dell'acqua sotto i ponti della Miljacka. E non solo. (continua)

1 Ivo Andrić, Romanzi e racconti. Mondadori, 2001

2 Arthur Rimbaud, Mattinata d'ebbrezza. In “Opere”, 1971

3 Marco Revelli, Oltre il Novecento. Einaudi, 2001

6 James Hillman, Un terribile amore per la guerra. Adelphi, 2004

L'articolo di Luca Rastello

 

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