"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Genocidio armeno, la necessità di fare i conti con la storia

genocidio armeno

di Michele Nardelli

(14 aprile 2015) Decine di conferenze, incontri, interventi scritti: ho ripetuto fin quasi alla noia che le celebrazioni per il centenario dell'inizio della prima guerra mondiale avrebbero potuto diventare l'occasione per elaborare le tragedie del secolo breve, affinché l'elaborazione di ciò che è accaduto nel Novecento ci mettesse al riparo dal ripetersi di quegli orrori.

Così non è stato e probabilmente non sarà. Non ci predisponiamo ad imparare, questo è il problema. Il nostro sguardo distratto sorvola, preferisce non fare i conti con il dolore della storia, nemmeno quella a noi più vicina. Oppure dar credito ai luoghi comuni, al sentito dire, alle fanfare che ci raccontano quel che vogliamo sentirci dire. In realtà non siamo mai stati così ignoranti.

Scrivo questi appunti dopo l'uscita di Papa Francesco sulla tragedia armena. Non sono credente ma trovo grande assonanza con quel che dice Jorge Bergoglio quando associa alle tragedie della shoah e del gulag il genocidio armeno del 1915 che ancora la Turchia non riconosce.

Fare i conti con la propria storia non è facile, perché questo ha a che fare non solo con il riconoscimento delle responsabilità di chi quei crimini li perpetuò (la “colpa criminale”), ma con la “colpa politica” (come scrive Karl Jaspers «ciascuno porta una parte di responsabilità riguardo al modo come viene governato»1), la “colpa morale” («in nessun caso – scrive ancora Jaspers – vale la scusa che “gli ordini sono ordini”») e la “colpa metafisica” («quando uno non fa tutto il possibile per impedirli, diventa anche lui colpevole»).

Tanto da arrivare a negare la realtà (è quel che avvenuto almeno inizialmente in tutte le tragedie del Novecento) o ad affermare di non averne saputo nulla (la falsa coscienza). Nell'uno e nell'altro caso, inoltre, la costruzione di una propria verità corrisponde ad una narrazione di parte che spesso diviene coscienza nazionale.

E' quel che accade in assenza di un percorso, faticoso e doloroso, di autocoscienza collettiva che va sotto il nome di elaborazione del conflitto, passaggio ineludibile per evitare che il passato incomba sul presente. Ma l'elaborazione del conflitto comporta un'indagine frequentemente ritenuta “sconveniente” e così si preferisce ricorrere ai Tribunali che necessariamente non possono che indagare i fatti criminosi (come se ogni guerra o dittatura non lo fosse), o far fuori il colpevole (rapidamente, affinché non parli...) e lavarsi altrettanto rapidamente la coscienza.

Abbiamo davvero elaborato la shoah? L'insorgere del razzismo ci dice il contrario... Forse l'arcipelago gulag? In quanti hanno letto Aleksandr Solženicyn o Varlam Šalamov? E la pulizia etnica della Palestina? Che dell'ipocrisia europea è il prodotto... Che cosa abbiamo compreso della guerra dei dieci anni che ha devastato la Jugoslavia? Se ancora parliamo di guerra etnica... Dobbiamo riconoscere come la straordinaria esperienza sudafricana della “Commissione per la verità e la riconciliazione”, nonostante abbia evitato una molto probabile guerra di vendetta dopo la tragedia dell'apartheid, sia rimasta un fatto sostanzialmente isolato.

E così il Novecento è ancora lì, come una discarica del tempo che ancora emette i sui fumi velenosi. Di cui si è elaborato ben poco e ancora meno è rimasto nella coscienza collettiva.

Ricordo come nel 2013, prima ancora che entrassimo nel tempo delle celebrazioni, come Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani avviammo uno dei percorsi annuali attraverso i quali abbiamo provato a declinare in maniera diversa la cultura della pace. Aveva come titolo “1914-2014. Inchiesta sulla pace nel secolo degli assassini”. Non era una bizzarria, anche se il cosiddetto popolo della pace rimase in larga parte indifferente.

Il primo appuntamento lo dedicammo proprio alla tragedia armena attraverso uno spettacolo teatrale dal titolo “A che serve un poeta. La storia vera di Danièl Varujan”. L'omaggio ad un poetaassassinato nel corso della deportazione del 1915, la cui poesia è diventata memoria e simbolo per l'intera comunità armena sparsa nel mondo. Scrivemmo allora «... perché puoi tentare di eliminare un intero popolo ma basta che resti qualcuno, qualcosa, una parola bene-detta, che da questa può rinascere tutto».

Ho sempre sostenuto la necessità dell'integrazione della Turchia nell'Unione Europea e continuo a pensarlo ancora oggi con più convinzione. Perché ciò poteva aiutare questo paese tanto nel suo processo democratico quanto nell'affrontare le pagine buie del proprio passato, come la questione armena.

Le reazioni del governo Erdogan alle parole di Papa Francesco ci raccontano di uno dei tanti fili scoperti di un Novecento che ha prodotto un numero di morti in guerra tre volte più grande di quanti ce ne sono stati nei diciannove secoli precedenti.

«Voici le temps des Assassins»2 ebbe a scrivere il poeta maledetto. Aveva ben compreso quel che sarebbe accaduto con la rivoluzione industriale applicata alla pratica della guerra. Il dramma è che ancora oggi con quella “Illuminazione” noi non riusciamo a fare i conti.

1Karl Jaspers, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania. Cortina Editore, 1996

2Arthur Rimbaud., Matinée d'ivresse (Mattinata d'ebbrezza). In Opere, Mondadori, 1975

 

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