"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Stava. Trent'anni e un giorno.

Stava, prima della tragedia

«La maledizione di vivere in tempi interessanti» (21)

di Michele Nardelli

(20 luglio 2015) Non amo gli anniversari, vi vedo troppa retorica e ipocrisia. Non mi piace l'idea che il ricordo sia richiamato di tanto in tanto anziché diventare insegnamento permanente. Sono stufo di sentire espressioni come “mai più” o “per non dimenticare” che suonano vuote e che io stesso ho usato in passato, perché ogni volta che le ho pronunciate poi ho dovuto prendere atto di quanto fossero rituali e lontane dalla realtà. Perché dalla storia non si impara quasi nulla. Perché la ritualità ha il sopravvento sull'elaborazione. Perché non solo si dimentica ma si rimuove tutto ciò che chiama in causa le nostre stesse responsabilità (falsa coscienza). Perché nella ricerca delle responsabilità si tende ad affrontare solo il tema della colpa criminale, lasciando inesplorata la colpa politica e quella morale.

Si è detto che per il Trentino la tragedia di Stava ha rappresentato una sorta di spartiacque fra il prima e il dopo ed in effetti quel 19 luglio di trent'anni fa lasciò il segno non solo nelle tante storie famigliari straziate dal dolore ma anche in una comunità che da quel momento seppe darsi una diversa legislazione nell'uso del territorio e nel modo di gestire la propria autonomia. Ma se tutto questo non diventa cultura quotidiana, pratica consolidata, approccio nei confronti dei poteri forti... la storia si ripete e anche le leggi rischiano di diventare carta straccia.

Amo questa terra e credo che l'anomalia trentina (sì l'anomalia, che pure non è diventata patrimonio e consapevolezza comune) abbia tratto impulso da quella tragedia. Dalle aree di tutela ambientale alle norme sulla valutazione di impatto ambientale, dalla legge sui parchi naturali al blocco delle seconde case, dalla tutela delle acque alla legge sull'amianto... il Trentino dopo quel tragico giorno di luglio ha segnato una positiva diversità.

Eppure in questi trent'anni il rapporto con il territorio è continuato ad essere contraddittorio. Sotto la spinta della logica del profitto individuale abbiamo visto i centri urbani crescere a dismisura, l'eredità delle aree industriali (spesso compromesse in modo permanente dal delirio di uno sviluppo senza qualità) diventare oggetto di speculazioni edilizie, il proliferare dei centri commerciali sottrarre prezioso territorio all'agricoltura, quest'ultima privilegiare la quantità alla qualità anche a costo di avvelenare l'ambiente e compromettere la salute delle persone, la costruzione di strade inutili fatte passare per mobilità sostenibile, la realizzazione di bacini in quota per l'innevamento artificiale pur di non interrogarsi sui cambiamenti climatici... senza contare che molte altre attività aggressive sono state fermate. Penso, solo per fare un esempio, al progetto di costruire una centrale di “rigenerazione energetica” fra il Monte Baldo e il Lago di Garda il cui impatto sarebbe stato devastante e che sono riuscito a bloccare in Consiglio provinciale durante la scorsa legislatura. O forse pensiamo che l'impronta ecologica del Trentino, ben più grande di quello che potremmo permetterci, sia sostenibile?

Tutto questo per dire che non si è mai al riparo. Se non si fa propria la cultura del limite e se non la si alimenta quotidianamente, l'idea prometeica dell'uomo signore del mondo che ha segnato in particolare il Novecento è sempre in agguato. E nella tragedia di Stava bisogna dire che non solo i principali responsabili (la proprietà, i tecnici, chi autorizzò la realizzazione dei bacini e chi omise il controllo) di quel crimine non hanno sostanzialmente pagato, ma che anche le responsabilità più diffuse non sono state sufficientemente indagate non tanto sul piano giudiziario quando invece su quello politico e morale. Chi sapeva della pericolosità e non disse nulla, chi rilasciò autorizzazioni senza fare troppe domande, chi amministrava il territorio lasciando che invasi che sulla carta avrebbero dovuto essere alti nove metri potessero crescere fino a cinquanta, chi ci lavorò pensando solo ad obbedire. E infine chi non si pose nemmeno il problema, tanto c'è chi ci pensa...

Quando si celebrano gli anniversari di tragedie come questa o quella del Vajont non basta parlare di negligenza, di errore umano, di superficialità e nemmeno è sufficiente affermare che si è posto il profitto sopra ogni altra cosa. E' necessario comprendere come sia potuto accadere e come tutto questo sia ascrivibile ad un atteggiamento irresponsabile verso la comunità umana e un ambiente che ci è dato in prestito da chi verrà dopo di noi. Per imparare dalla storia e farne tesoro individualmente e collettivamente. Ed interrogarsi sul limite.

Scrive Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo: «Quanto più una civiltà è evoluta, quanto più completo è il mondo da essa creato, quanto più familiare gli uomini trovano questo ambiente “artificiale”, tanto più essi si sentono irritati da quel che non hanno prodotto, da tutto quel che è loro misteriosamente dato».

Di questo dovremmo interrogarci, perché continuiamo a credere che tutto sia lecito e che l'agire umano non debba avere limiti. Diventando così vittime e carnefici.

 

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