"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

L'elezione che creò due Catalogne

Dov'è finita l'Europa?

di Steven Forti

(22 dicembre 2017) Il voto regionale non risolve la crisi tra Barcellona e Madrid, non favorisce la creazione di un governo stabile ed evidenzia una frattura geografica e politica inedita tra indipendentisti e costituzionalisti.

Le elezioni regionali del 21 dicembre in Catalogna ci offrono una fotografia molto nitida, ma allo stesso tempo estremamente difficile da decifrare. Rispetto all’ultimo biennio non cambia nulla – e cambia tutto.

Le formazioni indipendentiste (Junts per Catalunya, Esquerra Republicana de Catalunya e la Cup) vincono le elezioni, mantenendo la maggioranza nel parlamento regionale, per quanto risicata (70 deputati su 135). Senza però superare la soglia magica del 50% dei voti (si fermano al 47,5%), favorite da una legge elettorale che premia le circoscrizioni dell’interno della regione. Un déjà-vu, insomma, di quello che è successo nella precedente tornata elettorale del settembre 2015. Ma ci sono anche delle novità importanti che segneranno il futuro della politica catalana e spagnola.

Un partito non catalanista, Ciudadanos, è per la prima volta il più votato in Catalogna. Il Partido Popular del premier Mariano Rajoy subisce invece una batosta terribile, andando sotto il 5%. Infine: la società è spaccata a metà. La frattura è evidente e potrebbero volerci anni per ricostruire un consenso minimo che superi la divisione tra i due blocchi.

La forte polarizzazione tra chi è a favore e chi è contro l’indipendenza è stata amplificata dall’altissima partecipazione (81,9%, un record). Un dato che dimostra che difficilmente nel futuro prossimo ci sarà uno spostamento rilevante di voti. Chi ha votato per l’indipendenza dopo l’accelerazione dei mesi scorsi e il commissariamento della regione da parte del governo centrale non cambierà idea. Chi ha votato contro l’indipendenza – tra cui molti astensionisti, che per la prima volta sono andati a votare – non salirà sul carro dell’indipendentismo. La situazione è in stallo.

Gli indipendentisti: la vittoria morale di Puigdemont

Il primo partito nel fronte indipendentista è Junts per Catalunya (JxCat), la lista voluta fortemente da Carles Puigdemont, il presidente deposto e fuggito in Belgio. Supera di una manciata di voti (21,6%, 34 deputati) il centro-sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), che, fermandosi al 21,4% (32 deputati) deve ancora attendere per realizzare l’agognato sorpasso dei suoi eterni avversari. È questo un dato importante: innanzitutto perché dimostra che la lotta per l’egemonia nel fronte indipendentista – che spiega l’accelerazione del governo catalano dell’ultimo biennio – la vince Puigdemont, ossia la vecchia Convergència Democràtica de Catalunya (Cdc), formazione che ha governato la regione per quasi trent’anni, prima con Jordi Pujol poi con Artur Mas.

Mantenendosi al potere (vedremo come), l’ex Convergència può portare a compimento una rifondazione che era riuscita solo a metà lo scorso anno con la creazione del Partit Demòcrata Europeu Catalá (PDeCat).

Il successo di JxCat è una vittoria morale di Puigdemont nei confronti di Mariano Rajoy e della decisione di commissariare la regione, presa lo scorso 27 ottobre. Puigdemont si rafforza e per quanto abbia offerto un dialogo al premier spagnolo – una riunione a Bruxelles o in qualunque altra città all’estero – si mantiene fermo nel voler “restaurare il legittimo governo della Catalogna” e nel voler “attivare la Repubblica catalana”, senza specificare che cosa significherebbe effettivamente.

È infine da segnalare il forte arretramento degli anticapitalisti della Candidatura d’Unitat Popular (Cup), che raccolgono appena il 4,4%, passando da 10 a 4 deputati. Potrebbero giocare ancora un ruolo chiave in parlamento – nella scorsa legislatura sono stati l’ago della bilancia e hanno condizionato fortemente il governo catalano portandolo sulla via unilaterale – perché senza i loro voti gli indipendentisti non hanno la maggioranza assoluta.

I costituzionalisti: il grande successo di Ciudadanos

Quanto al blocco costituzionalista, è indubbio il successo storico di Ciudadanos, che si trasforma nel primo partito sia in seggi (37) che in voti (25,3%). È la prima volta che un partito non catalanista vince le elezioni regionali. La formazione guidata da Albert Rivera – che qui aveva come candidata Inés Arrimadas, giovane avvocatessa nata in Andalusia e leader del partito nella regione – è stata fondata solo una decina d’anni fa: prima dell’exploit del 2015, quando ottenne 25 deputati, non superava il 5-10% dei voti.

La vittoria di Ciudadanos avrà probabilmente conseguenze importanti sia in Catalogna sia in Spagna. In primo luogo, dimostra come il consenso catalanista, storicamente trasversale e vigente fino al 2010, sia definitivamente andato in pezzi. Ciudadanos, formazione di centro-destra liberista, ha raccolto una gran parte dei voti nell’area metropolitana di Barcellona e nei quartieri popolari delle grandi e medie città (è primo partito nel capoluogo catalano, a Tarragona, Lerida e nella maggior parte delle città della regione), soprattutto tra le classi lavoratrici di origine spagnola – storiche elettrici di socialisti o comunisti – immigrate in Catalogna tra gli anni Cinquanta e Settanta. Si tratta di un settore che si è sentito trascurato negli ultimi anni da un governo indipendentista che si rivolgeva solo ai propri elettori e non a tutta la popolazione. Ciudadanos è stato percepito come un voto utile (e “sicuro”) contro l’indipendentismo.

Non è da escludere una ricaduta sul medio o lungo periodo sulla politica spagnola: Rajoy governa in minoranza a Madrid proprio con l’appoggio di Ciudadanos, che nei sondaggi sta crescendo anche nel resto della Spagna. Per quanto il PP abbia una struttura solida sul territorio mentre Ciudadanos è un partito molto più liquido e mediatico, bisognerà vedere se i popolari saranno capaci di mantenere l’egemonia nel centro-destra spagnolo o se il partito di Rivera sfrutterà al massimo la carta dell’opposizione di destra a Rajoy sulla questione territoriale per trasformarsi in un attore chiave nelle dinamiche politiche del paese iberico.

Cosa farà il premier spagnolo è un grande punto interrogativo. È evidente che il commissariamento della regione si è dimostrato una vittoria di Pirro: ha funzionato nel breve periodo, ma l’appoggio dell’indipendentismo non è calato. Sembra ormai chiaro che, succeda quel che succeda – incluse le conseguenze negative sull’economia, come negli ultimi mesi – circa due milioni di catalani continuano a votare partiti indipendentisti. Non aumentano, è vero. Ma nemmeno calano.

Attendista per carattere – alla proposta di una riunione fatta da Puigdemont, ha replicato offrendo dialogo politico solo entro i confini sanciti dalla Costituzione – Rajoy dovrà innanzitutto digerire il pessimo risultato del suo partito, che ottiene solo 3 deputati. E dovrà decidere sul da farsi: parlando con gli indipendentisti, potrebbe perdere voti a destra e favorire l’ascesa di Ciudadanos in tutta la Spagna. Usando ancora di più la mano dura con Barcellona, dovrà mettere in conto che il PP potrebbe diventare extraparlamentare in Catalogna – uno scenario inedito in qualsiasi paese, tenendo conto il peso economico e demografico della regione – e che l’incendio catalano continuerà ancora a lungo.

Le sinistre penalizzate dalla polarizzazione

Le sinistre escono malconce da queste elezioni. I socialisti, che avevano appoggiato il commissariamento della regione ma si presentavano come una forza capace di aprire una nuova tappa politica difendendo una riforma costituzionale in senso federale, migliorano di poco i risultati del 2015 (13,9% dei voti e 17 deputati). Difficilmente potranno giocare un ruolo chiave nella nuova legislatura, a meno che non si apra la commissione parlamentare per la riforma della Magna Carta richiesta da Pedro Sánchez e posticipata sine die da Rajoy.

Perde voti (7,4%) e seggi (8) la formazione Catalunya en Comú-Podem, guidata dalla sindaca di Barcellona Ada Colau e appoggiata da Pablo Iglesias. I Comuns, che nelle elezioni generali spagnole del dicembre 2015 e del giugno 2016 sono stati il primo partito in Catalogna, pagano un discorso percepito come ambiguo – contro il commissariamento della regione, contro la via unilaterale e a favore di un referendum concordato sullo stile scozzese – e sono penalizzati dalla polarizzazione sulla questione nazionale. Non saranno l’ago della bilancia, come pronosticavano molti sondaggi, ma potrebbero comunque avere un ruolo importante nella ricostruzione di ponti di dialogo sia all’interno della Catalogna sia tra la regione e i partiti spagnoli. Vedremo anche se la crisi catalana penalizzerà Podemos nel resto della Spagna, come preannunciato da alcuni sondaggi.

I possibili scenari

La tappa che si apre ora è estremamente incerta. La formazione di un governo indipendentista è possibile, ma ci sono parecchie incognite al riguardo. Innanzitutto, non è chiaro quale sarebbe il programma portato avanti dal nuovo esecutivo: si manterrà la via unilaterale dopo il fallimento dell’autunno o si cambierà strategia, cercando un dialogo politico, lavorando per l’indipendenza sul lungo periodo e rispettando l’ordinamento costituzionale spagnolo? La seconda opzione sarebbe più logica, tenendo conto del fatto che gli indipendentisti non dispongono né di una maggioranza sociale, né degli appoggi internazionali, né di quelli del mondo economico.

L’indipendenza ora come ora è un’utopia irrealizzabile. Ma la lotta per l’egemonia tra l’ex Convergència e Erc (che non si conclude con la vittoria ai punti di Puigdemont), la necessità di contare con un voto a favore o almeno un’astensione degli anticapitalisti della Cup e la tentazione di provocare nuove reazioni dello Stato spagnolo (al fine di aumentare i consensi nella regione e di ottenere una mediazione internazionale) potrebbero impedire un necessario bagno di realismo dell’indipendentismo.

Non è chiaro neanche chi potrebbe essere il presidente del nuovo governo: Puigdemont è latitante in Belgio e se rientra in Spagna, sarebbe arrestato. Potrebbe presentarsi alla sessione di investitura? La magistratura giocherà un ruolo chiave in tutta la questione. Anche perché oltre a Puigdemont sono altri sette gli eletti indipendentisti fuggiti all’estero o incarcerati: se i giudici non concederanno loro la possibilità di partecipare alle sessioni della Camera catalana, l’indipendentismo perderà la maggioranza. Una questione non secondaria che infiammerebbe ancora di più la situazione.

Le elezioni non hanno risolto la crisi. Al contrario. La divisione della società è netta. Una cesura che è anche geografica: la Catalogna dell’interno è a grande maggioranza indipendentista, mentre la costa, e soprattutto Barcellona e la sua area metropolitana, è soprattutto anti-indipendentista.

Due Catalogne, insomma. Si apre una frattura che mai c’era stata grazie al minimo comune denominatore catalanista che tutti i partiti avevano accettato dopo la fine della dittatura franchista. Il discorso identitario polarizza: ci guadagna chi difende chiaramente una bandiera (Ciudadanos, JxCAT, parzialmente Erc), ci perde chi cerca di avviare un dialogo politico per superare la logica dei due blocchi (Psc, Comuns).

Le prossime settimane saranno cruciali per capire se ci sarà la volontà politica di uscire da una crisi che si protrae da oltre un lustro. A fine gennaio si formerà il nuovo parlamento regionale e a inizio febbraio si terrà la prima sessione di investitura: se non si riuscisse a formare un governo, ci sarebbero due mesi di tempo, poi si convocherebbero automaticamente nuove elezioni da tenersi alla fine di maggio. È un’ipotesi più che improbabile ora come ora, ma nulla è da scartare dopo quello che abbiamo visto negli ultimi mesi.

Quel che è certo è che si deve ridare protagonismo alla politica e al dialogo, completamente assenti negli ultimi 5 anni, altrimenti la crisi catalana si cronicizzerà e sarà estremamente difficile riparare la frattura della società.

 

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