"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Ritrovare il tempo e la comunità smarrita

Antica bussola

Pensieri sparsi alla vigilia del viaggio a Bruxelles, promosso Usr Cisl Toscana e Istel, nell’ambito del percorso formativo: “I venerdì di Via Dei”, 18-20 aprile 2018

di Francesco Lauria *

  1. Chi deve interpretare il tempo che resta per ritrovare una bussola nella comunità smarrita?

Alla vigilia di un viaggio “sindacale” nel cuore dell’Europa, mentre in televisione o dagli schermi dei nostri smartphone osserviamo i missili occidentali delineare una possibile nuova “guerra umanitaria”, è questa la domanda notturna che risuona, analizzando quella che Aldo Bonomi ha definito, riecheggiando Baumann, “liquefazione spaziale”.

Questa perdita della solidità e relazione si ritrova anche a cospetto della rilevante perdita di capacità culturali, organizzative e normative, di trasformare il lavoro, nelle sue varie e non sempre catalogabili forme ipermoderne, in soggettività collettiva attiva e solidale1.

Lo sguardo, in particolare se si rivolge all’Europa strappata di questo tempo, rimane sospeso nelle “vicissitudini dell’io”, ripetuto nazione per nazione, incapace di rielaborare, uscendo da sé, un noi inclusivo, in cui riconoscersi, essere riconosciuto e, infine, riconoscere.

Ci perdiamo, naufraghiamo come singoli e collettività, nell’incapacità di ritrovarci, pensiamo a costruire nuovi recinti, nuove illusorie e falsamente rassicuranti comunità chiuse, a volte, le trasformiamo, persino in “comunità maledette”2, nonostante il monito che le guerre “fratricide” dei Balcani avrebbero dovuto imperituramente lasciarci.

Nella gassosità delle relazioni liquide, ma anche nel tempo di una globalizzazione supersonica, l’Unione Europea e i suoi popoli sembrano aver perso sia il concetto del tempo che quello dello spazio, continuiamo a intuire quando sia importante “appartenere”, ma siamo orfani della prossimità che si fa sguardo condiviso e d’orizzonte.

Stiamo assistendo in tutta Europa a un nuovo populismo nazionalista in cui i conflitti sono sempre meno "compensati" nelle istituzioni, e sempre più "riportati" nelle "piazze" (reali e, soprattutto, virtuali) dei singoli stati. Le prospettive sono preoccupanti, poiché dal populismo nazionalista stiamo assistendo al rafforzamento di partiti ancor più iper razzisti come registrato nelle recenti elezioni ungheresi dell’aprile di quest’anno, in cui si è rafforzata l’estrema destra rispetto alla destra nazionalista al governo del premier Orban.

L’Europa stretta tra “Troika” e trionfo dei meccanismi intergovernativi, forse timidamente “pentita” delle politiche dell’austerity, grazie al, per ora fragile, percorso del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, appare del tutto inesistente in politica estera (la crisi siriana è l’ennesimo, ultimo plastico esempio) o nella gestione del fenomeno migratorio. L’Europa è, in particolare per i ceti popolari, ancora “matrigna” dal punto di vista economico e sociale, a causa degli echi delle politiche imposte da Bruxelles e Francoforte, nel pieno della crisi.

 

  1. Quale finalità politica? Disgregazione dell’Unione, superstato nazione continentale o costruzione di una nuova “città europea”?

La tragica e sempre più evidente mancanza di una voce comune sembra dare ragione a ciò che aveva anticipato ben quarantotto anni fa Denis de Rougemont, il mai troppo compianto federalista europeo scomparso nel 1985, in una prolusione all'Università di Bonn nel 1970. Il filosofo e scrittore svizzero affermava: «Se attribuiamo come finalità alla città europea di domani la "potenza" [...] allora bisognerà creare un super-stato nazione continentale, uniformizzato, centralizzato ed aggressivo [...] dobbiamo unificare con leggi inflessibili e subordinare la produzione industriale, senza riguardo per le diversità etniche e regionali, al solo imperativo dell'innalzamento del PNL, vera nuova torre di Babele del XXI secolo! Una politica europea di questo genere, semplice trasposizione della formula dello Stato-nazione su scala continentale, sarà capace senza dubbio alcuno di creare un'Europa molto forte, ma molto poco europea3 Come ha scritto recentemente uno studioso del federalismo europeo integrale come Lanfranco Nosi:

«Eccolo, alla fine, il vulnus originale, e che oggi sta per esplodere, come una ferita infetta mal curata: la trasposizione non solo della formula dello Stato-nazione, ma anche degli egoismi che lo Stato-nazione alimenta per la propria potenza nella costruzione europea. Fino a quando l'Europa è stata quindi "benigna" nel produrre i suoi effetti, e quindi mantenere e soddisfare i singoli egoismi, espressi nelle istituzioni dai rappresentanti dei governi e dall'inanità dei vari parlamentari sedicenti "europei", il problema non si è posto. Ma la cosiddetta "crisi economica" - forse epifenomeno di altra crisi ben più profonda - ha fatto sì che l'espressione degli egoismi abbia scelto un ritorno alla dimensione "nazionale", per esprimersi più compiutamente».4

In conseguenza di ciò anche lo storico disegno di un’Europa delle Regioni vede una crisi di prospettiva e di senso, peraltro nel pieno dei negoziati sulla programmazione finanziaria 2021-2027 e del dibattito sul futuro e la ripartizione delle risorse di coesione dell’Unione Europea5.

 

  1. L’alternativa tra nazionalismo e federalismo, tra potenza e libertà.

Sempre Lanfranco Nosi, su “Linkiesta” ha ricordato l'alternativa di fondo che lo stesso De Rougemont poneva: quella tra potenza e libertà.

Si trattava, per lo studioso svizzero, di ripartire da una nuova gerarchia delle finalità politiche e delle finalità dell'Europa, e su queste costruire - senza distruggere tutto quello che comunque di buono è stato fatto - la nuova "città europea".

Scriveva De Rougemont: «Se attribuiamo come finalità alla città europea la libertà, ossia le più ampie possibilità di realizzazione per le persone, di partecipazione dei cittadini e dell'autonomia delle comunità [...] allora bisogna riconoscere che lo Stato-nazione non solo è un modello superato, ma che di fatto oggi è incompatibile con i fini dell'Europa e della libertà.» (5)

La vicenda catalana e l’afasia dell’Europa, anche in un contesto molto complesso come quello del conflitto con lo stato centrale spagnolo, avrebbe dovuto aprire delle contraddizioni che certo non avrebbero legittimato nuovi micronazionalismi regionali, ma avrebbero permesso una messa in discussione dell’illusorio recupero di centralità dello stato nazionale, su qualunque scala esso venga considerato6.

Il populismo di Stato, radicale o fintamente moderato, come quello dello stato centrale spagnolo, si trasmette e trasforma corrosivamente come un cancro nel rancore montante all’interno della società europea.

Cerchiamo illusoriamente, come ha scritto Marco Revelli7, un “Noi certificato”, dove la domanda di sicurezze identitarie si confronta con la pratica delle esperienze plurime e precarie e della disseminazione e scomposizione valoriale, senza comprendere che la libertà, quella stessa libertà citata decenni fa da De Rougemont, non è distanza o dominio, ma relazione.

Risuona fortissima l’immagine della scomposizione in semplice area di libero scambio per le “cose”, le “merci” e non per le persone, della (Comunità), per ora Unione Europea.

Anche in questa deriva si può leggere il successo della campagna della Brexit e delle ridiscussione dei rapporti tra Gran Bretagna e Unione Europea proprio come mero rapporto tra aree commerciali di libero scambio.

La Comunità europea, come testimoniato dal nome originario, era nata, certo, anche su basi economiche, ma è stata costruita anche con altre “finalità”, in primis la pace, da uomini di frontiera, dal tessuto di relazioni di tante piccole comunità, non più in lotta, ma alla ricerca di legami e relazioni nuove.

 

  1. Frontiere dell’Europa, frontiere nell’Europa. Santi e diplomazie “minori”.

Normalmente a questo punto si citano i grandi “ri-costruttori” dell’Europa, provenienti da terre di frontiera: da De Gasperi a Schumann, ad Adenauer, a cui io non posso non aggiungere Alexander Langer, ma, come ci insegna la storia del sindacato, non dobbiamo dimenticare anche i cosiddetti “santi minori”.

Si pensi, per esempio, a due grandi figure, indimenticabili eppure, almeno parzialmente, dimenticate, uomini di pace, con cui, in particolare con la seconda, ho avuto occasione di confrontarmi, ascoltare, imparare, ammirare, mutare lo sguardo: Umberto Serafini (1916-2005) e Gianfranco Martini (1925-2012).

Umberto Serafini, padre fondatore del Consiglio dei Comuni (e poi anche delle Regioni) d’Europa, è stato un alfiere fondamentale della costruzione europea, ispiratore e realizzatore del contributo sempre più rilevante portato dagli enti locali e regionali alla costruzione di un’Europa unita e federale. Contribuì, insieme ad Altiero Spinelli ed Alexandre Marc, a guidare quel “fronte democratico europeo”, di cui oggi avvertiamo forte la mancanza, che si batté duramente e con successo nella lotta per l’elezione popolare diretta del Parlamento europeo, avvenuta per la prima volta, dopo lunghe e complesse mobilitazioni, nel 19798.

Gianfranco Martini, uno dei più ironici e piacevoli dirigenti “sociali” che io abbia mai conosciuto, ci ha regalato una vita fatta di impegni internazionali nel segno della costruzione dell'Europa dal basso, popolare, non nazionalista. “Anima” della creazione della rete, durante la tragedia dei Balcani, delle “Ambasciate della democrazia locale”, sorte anche in reazione all’inerzia dell’Unione Europea e degli stati nazionali europei, ha sempre creduto in una visione dell'Europa nello stesso momento alta (riforma delle istituzioni) e bassa (l'Europa delle città, dei cittadini, della società civile)9.

Non è un caso che uno dei suoi grandi crucci (e allo stesso tempo sogni), fosse la questione di Cipro, frontiera anche religiosa e culturale, isola nel pieno del Mediterraneo che ci ricorda come l’Europa non è una monade isolata, ma è inserita in un contesto ben più ampio.

Serafini e Martini hanno creduto, fin dalla fine degli anni quaranta, nella politica del gemellaggio tra comuni e regioni in Europa, che, al di là degli aspetti più folcloristici, è stato uno dei punti di forza di questa visione politica d'insieme. I gemellaggi, sono stati, infatti, anche nel periodo della guerra fredda, uno straordinario mezzo concreto per costruire una rete di solidarietà e di pace, quella pace per cui, anche se forse lo abbiamo dimenticato, l’Unione Europea ha ricevuto il Premio Nobel.

Fu Gianfranco Martini a ispirare il titolo principale della mia tesi di laurea: “la diplomazia dell’Europa minore”. Una tesi scritta sul campo, tra la sabbia e le mine non ancora bonificate, incontrando ferite, spesso, non ancora ricucite. Penso soprattutto a Prijedor, a quello che era stato soprannominato, per gli eccidi nella vecchia miniera di ferro: il buco nero d’Europa, la “comunità maledetta”, nella repubblica serba di Bosnia. Terra in cui anche la “cooperazione di comunità” italiana, soprattutto trentina ha saputo dare il meglio di sè, per molti anni, insieme alla società civile bosniaca che reagiva ai vari rigurgiti neo-nazionalisti, mostrando come la cooperazione internazionale, non sia un percorso finito, ma semplicemente da rigenerare e ripensare.

I gemellaggi e poi, con un’esperienza allargata alla società civile, al sindacato, al terzo settore, le Ambasciate (ora Agenzie) della democrazia locale, hanno rappresentato e, in parte, ancora rappresentano, una vera forma di diplomazia popolare espressa nell’Unione Europea10, un segno originale di speranza e futuro, che si deve, soprattutto, alla grande intuizione di Gianfranco Martini.

 

  1. Quali risposte? Persona e comunità prima dello Stato: tornare a “Maritain”, per una prospettiva sociale costituente

Quali risposte l’uomo, ma anche la politica, il sindacato, possono provare a dare per ritrovare una “comunità europea operante”, ritrovata, la comunità che “viene”?

Echeggiando Jacques Maritain, pensando proprio a figure come Umberto Serafini e Gianfranco Martini, all’esserci prima di persona e comunità, rispetto ad uno Stato totalizzante, quanto residuale nelle contraddizioni della globalizzazione,11, torna alla mente ciò che aveva affermato, ormai venti anni fa, Danilo Dolci in un dialogo con Aldo Bonomi, ospitato dalla rivista Communitas12e pubblicato a dieci anni dalla sua scomparsa: «per esistere, nell’iper modernità che avanza, nel dislivello temporale che incombe, l’essere con ha bisogno di testimonianza».

Di durata nelle persone che la animano, non dell’istantaneo di una politica priva di visione, prigioniera delle tende fragili dell’eterno presente. Di tempo sedimentato e di vite investite responsabilmente.

Ci dice Dolci, ormai arrivato alla fine della sua lunga, incredibile, bellissima vita, che, in questa scomposizione, dobbiamo diffidare «degli uomini in fuga, delle presenze effimere».

La dimensione comunitaria, oggi più di ieri, ha bisogno dell’incontro reale, dell’ascolto del “tu”, della rinuncia all’autoaffermazione unidirezionale dell’Io. “Fare comunità” vuol dire “fare relazione”: è questa la lezione smarrita del progetto europeo, stretto tra disgregazione interna e costruzione di muri nazionali e continentali verso l’esterno.

«Il migliore produttore di comunità – concludeva Danilo Dolci, coerente con la sua pedagogia rivoluzionante e realmente socratica – è chi domanda, non chi insegna, o dirige».

Occorre quindi ricominciare a domandare, a cercare radici e orizzonte di senso in questa Europa smarrita e lo deve fare anche il sindacato, ad ogni livello: regionale, nazionale, europeo. Le crisi democratica, istituzionale, politica, economica e sociale dell’Europa sono strettamente intrecciate: lo hanno dimostrato gli anni dal 2004 ad oggi, iniziati con il fallimento, prima di tutto democratico e popolare del progetto europeo e del processo di adozione della Costituzione Europea. Dobbiamo riguadagnare, nella terra del presente: tempo, spazio e futuro.

Scrivevo, alcuni anni fa, in un volume collettaneo che aveva lo scopo di riaprire la discussione sull’Europa:13 «il presente non è solo immanente: è fragile e attraversato dalla paura. Non possiamo però rassegnarci a smettere di ricercare, in questa quotidiana incertezza, quell’ostinata speranza che ha permesso, in tempi altrettanto difficili, di promuovere, con l’apporto fondamentale di organismi e associazioni collettive come il sindacato, la costruzione di una società, allo stesso tempo, più libera e più giusta».

Fu anche in reazione alla crisi petrolifera del 1973 che, nel 1984, il Parlamento Europeo approvava a larghissima maggioranza il Progetto di trattato di Unione Europea, noto anche come “Progetto Spinelli”, dal nome del suo relatore e maggiore, ma non solitario artefice.

Spinelli elaborò il suo progetto per rispondere a una grave crisi economica, sociale, politica e istituzionale che investiva l’Europa appunto dopo lo shock petrolifero del 1973, sfruttando la nuova legittimità democratica acquisita dal Parlamento Europeo, eletto per la prima volta a suffragio universale diretto nel 1979. Non è un caso che egli avesse tra i più feroci avversari Margareth Thatcher, alfiere, allo stesso tempo del nazionalismo e del liberismo più spinti, di quella disintermediazione dalla società, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze e che ha indebolito fortemente l’Europa nell’affrontare la crisi globale.

Ricostruire comunità aperte e inclusive, nel villaggio globale, l’Europa che viene. E’ questa la sfida che accomuna presente e futuro.

Le crisi, anche quelle di sistema, possono rappresentare elementi propulsivi per decisioni e mobilitazioni non ordinarie. Anche il sindacato, divenendo cerniera delle necessarie alleanze, deve fare la propria parte per rilanciare l’impossibile: una prospettiva sociale costituente della società e dell’Unione europea.

La Cisl, infine, non può non ricordare, come bene ha fatto in occasione dell’anniversario dei Trattati di Roma14, i propri valori costitutivi che non sono solo europeisti, ma federalisti europei. E lo deve fare in un tempo, in cui anche la contrattazione, insieme alla sindacalizzazione, non può che ricercare strumenti e pratiche per superare le frontiere nazionali e costruire nuovi equilibri e nuovi rapporti di forza. I lavoratori transfrontalieri, così come quelli distaccati a livello transnazionale e i lavoratori delle multinazionali (catene di fornitura comprese) sono le “persone” concrete, le figure-ponte su cui, per primi, il sindacato può e deve sperimentare il decisivo superamento della dimensione nazionale.

Il sindacato regionale, nazionale, europeo, mondiale può e deve costruire alleanze, anche con la società civile e i consumatori, per costruire e rafforzare comunità inclusive del lavoro europee e globali. Tutto ciò pur nel complesso quadro di una globalizzazione e di un’economia competitive e non cooperative, dove la guerra fra “poveri” e la competizione al ribasso sui diritti e la libertà associativa rischiano di ampliare, invece che superare, l’economia dello scarto neoliberista, alimentando un illusorio e rancoroso nazionalismo di ritorno anche sui luoghi del lavoro. Risvegliamo le nostra coscienze, mettiamo in campo la concretezza dell’agire sindacale.

Ci esorta ad impegnarci in questo senso Papa Francesco nella prefazione a libro “Potere e Denaro”, di Michele Zanzucchi, usando proprio il verbo “coscientizzare”, così caro a Paulo Freire.15 Anche nel rilancio della costruzione sociale ed istituzionale europea, occorre, sottolinea il Papa, sviluppare un metodo che, pur proveniente dall’America Latina, è adatto anche al continente delle “passioni tristi”: “vedere, giudicare e agire”. Prima dell’Apocalisse.

* Centro studi ricerca e formazione della Cisl

 

1 Si veda, a mero titolo di esempio, la controversa sentenza del Tribunale di Torino dell’11 aprile 2018 sul caso dei fattori di Foodora e le reazioni suscitate nel mondo accademico, politico e sindacale.

2 A. Bonomi, La comunità maledetta. Viaggio nella coscienza di luogo. Edizioni di Comunità, 2002.

3 D. De Rougemont, La città europea, in id., L'uno e il diverso, Edizioni Lavoro, 1995

4 Si veda: http://www.linkiesta.it/it/blog-post/2013/05/25/il-polemista-del-federalismo-integrale/16639/

5 Si questo tema si veda l’interessante serie di pubblicazione nate dalla collaborazione tra Centro Studi sul Federalismo e Istituto Affari Internazionali, ed, in particolare, il recente quaderno di ricerca a cura di Fabrizio Barca: “Politica di coesione, tre messe”, Aprile 2018 scaricabile all’indirizzo: http://www.csfederalismo.it/images/CSF-IAI_QFP/CSF-IAI_RP_FBarca_PoliticadiCoesioneQFP_Aprile2018.pdf

6 Si legga con attenzione l’illuminante contributo di Michele Nardelli e Federico Zampini, apparso sul Corriere del Trentino: Autonomia, quel cambio di sguardo che serve all’Europa. http://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=4011

7 M. Revelli, Poveri, noi. Einaudi, 2010.

8 Su Serafini, tra i molti scritti si legga il profilo biografico contenuto in: http://ildomaniditalia.eu/article/umberto-serafini-fine-intellettuale-appassionato-federalista-europeo-indimenticabile

9 Si veda F. Lauria, La diplomazia dell’Europa minore. Il caso delle Agenzie della Democrazia Locale in Bosnia-Erzegovina, Università di Trieste, 2004.

10 Le “Agenzie della Democrazia Locale” confluite nell’ALDA (Associazione per la democrazia locale) sono tuttora attive, si veda il sito internet: http://www.alda-europe.eu/newSite/

11 Torniamo a leggere, non solo a citare Jacques Maritain, si veda per esempio: J. Maritain, La persona e il bene comune, Morcelliana, 2009.

12 Communitas, N°20, Dialoghi sulla comunità.

13 F. Lauria, L’Europa e la scomparsa di futuro. Ritrovare il tempo nella crisi della rappresentanza sociale e della democrazia, in A. Cortesi (a cura di) Europa in discussione, Nerbini, 2015.

14 Si legga integralmente il manifesto in dieci punti: https://www.cisl.it/primo-piano/5267-trattati-di-roma-il-manifesto-cisl-in-dieci-punti-per-costruire-un-europa-economica-e-sociale.html

15 M. Zanzucchi, Potere e denaro. La giustizia sociale secondo Bergoglio, Città Nuova, 2018.

 

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