"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Tempi interessanti da abitare con coraggio

vetro appannato

di Federico Zappini

(27 maggio 2019) Nelle settimane scorse mi è mancato il tempo, e la lucidità, per mettere insieme un ragionamento pre-voto. In realtà una traccia l'avevo abbozzata, sulla base di un percorso - non solo mio - lungo qualche anno che trova nel risultato elettorale odierno, tanto europeo quanto locale, una sedimentazione, una certa conferma.

La mia riflessione iniziava da Andrea Zanzotto e dal suo "progresso scorsoio, nel quale non so più se sono ingoiato o se ingoio". Aforisma perfetto per descrivere il vicolo cieco - economico e antropologico - nel quale si è infilato l'intero Occidente, e in particolare l'Europa. Uno senso di spaesamento che con maggiore nitidezza sanno interpretare i poeti, capaci di riconoscere ciò che tra le righe della realtà si sedimenta e non solamente ciò che agli occhi appare evidente, lampante.

E' il caso di Gianmaria Testa [1]:

Povero tempo nostro
Povere fatiche
Povera la Terra intera
Che tutte intere le patisce
Povero tempo nostro
E poveri questi giorni
Di magra umanità
Che passa i giorni e li sfinisce [...], 

e di Vinicio Capossela [2]: 

Il povero Cristo 
è sceso dalla croce 
e Cristo come era 
ha incontrato l’uomo 
aveva un paio di baffi 
e un coltello da affilare 
lo sguardo torvo non 
smetteva di sfidare 
e gli ha detto: “Cristo, spostati e lasciami passare 
non voglio sentir prediche, ho già molto da fare”

Letta oggi questa premessa in versi potrebbe apparire velleitaria, naìf. E invece sono proprio i poeti, gli sguardi e le parole non omologate, che aiutano a sfuggire alle spire di un gorgo che sembra stringersi sempre più stretto intorno a noi. Andrea Zanzotto segnalava il problema - di sistema, non temporaneo - nel pieno di quel Novecento che dopo aver promesso troppo (e a una platea - noi - troppo ristretta di esseri umani sul pianeta) chiede oggi di essere pagato, con gli interessi. “I desideri (e i sogni) che marciscono diventano odio”, citando Walter Siti.

Un diverso equilibrio geopolitico su scala globale che non ci vede più al centro, ma periferici e deboli. Crescenti diseguaglianze sociali che amplificano conflitti e senso di insicurezza a ogni livello della società, specialmente quelli più marginali. Esternalità negative di uno sviluppo economico senza limiti che impatta sulla sostenibilità delle nostre stesse esistenze, allo stesso tempo colpevoli e vittime della situazione. Tecnologia sempre più avanzata e invasiva che non emancipa l'Uomo ma ne costringe e indirizza la vita. Un sistema comunicativo sempre più sincopato e aggressivo che impedisce il dialogo, genera polarizzazione estrema e agisce costruendo comunità in opposizione e mai di progetto, rafforzando la dimensione individuale e i suoi peggiori sentimenti.

Non è da oggi che segnalo il bisogno di un passo di lato, sottraendosi alla furia del rumore di fondo che ci stordisce, per reimpostare la rotta. Bisognerebbe saperlo fare anche ora, non lasciandosi attrarre dalle analisi post-voto (che pur vanno fatte: quanto è solida la bolla salviniana? come si inserisce nella fragilità del quadro politico europeo e nella sua probabile ingovernabilità? cosa resta dell'esperienza di Ada Colau a Barcellona dopo la sua sconfitta? come reagiscono i territori ai flussi globali che li colpiscono? come ripartire da Trento città per cambiare il Trentino tutto? come sfuggire al corto circuito della comunicazione per ricominciare a fare Politica?), allargando lo sguardo e regalandosi il tempo - decidendo di perderne un po' -  di essere per un momento poeti, capaci di coniugare l'apparente inattualità del poetare con l'ambizione concreta di essere anticipatori di ciò che sarà, anche oltre la buriana di un presente che appare inospitale e che fatica a trasformarsi in futuro.

A questo ruolo profetico e coinvolgente fa riferimento Laurent Gaudé nell'epilogo del suo Noi, Europa:

Abbiamo dimenticato che nei confronti della Storia formiamo una generazione?
Che nei confronti della Storia saremo giudicati per il nostro coraggio o per le nostre rinunce?
Abbiamo dimenticato che non siamo soltanto una folla di individui che tendono alla propria felicità,
ma un'entità che deve illuminare il suo tempo con idee nuove?
La parola "missione" ci fa paura?
La troviamo opprimente,
Ma rifiutarla non la cancellerà.
Rifiutarla vuol dire solo decidere di tradirla.

Un grande convivio.
Ecco cosa ci serve adesso.
Ardore. 
Carne e verbo!
Venite,
Venite in tanti,
Portate quel che serve per fare bisboccia e dibattito.
Questa è la nostra missione:
Far tornare i popoli al cuore dell'Europa.
Invitare l'utopia e la collera,
perchè mai niente si è fatto senza di loro.

Quella tratteggiate è l'idea di un'Europa (e di un'idea di politica che possa nascere in Europa, nonostante tutto) che non c'è ma che dovrà essere se non si vorrà assistere inermi al rattrappimento del continente - e di conseguenza del Mondo - che ci troviamo, temporaneamente, ad abitare. Coinvolti in quei tempi interessanti che sono insieme augurio e minaccia, allo stesso tempo speranza e incubo che possono diventare - alternativamente, anche per merito o a causa nostra - realtà.

Utopia e collera corrispondono alla necessità di saper guardare oltre la contingenza descrivendo un'idea diversa e migliore di destino da costruire collettivamente e al tentativo di disobbedire all'idea che non esista alternativa da un lato al farsi contagiare dal rancore e dall'altro dall'egoismo autodistruttivo del "prima noi". 

Il convivio è invece il metodo da sperimentare con rinnovata curiosità e coraggio. E' la parola come strumento di relazione con l'Altro, anche diversissimo da sè. E' la strada (la piazza, il bar, la Chiesa, la scuola, la casa e la famiglia) come luogo della messa in comune dei timori, dei dubbi, delle frustrazioni e - parallelamente - dei desideri, delle energie, dei progetti. E' il tempo dell'elaborazione della complessità e della sua necessaria condivisione, da risolvere in un'ipotesi di percorso da compiere insieme.

E' la premessa a una possibile, pur non facile, sutura delle ferite della fase storica che stiamo quotidianamente conoscendo. Quando ci incontriamo? Facciamolo presto? Subito? Con un'orario d'inizio e senza un termine fissato se non quello dell'esserci chiariti le idee e aver re-imparato a prenderci cura dei punti di crescenza della nostra società, oggi così fragile e spaesata.

[1] Gianmaria Testa, Povero tempo nostro (2019)
[2] Vinicio Capossela, Il povero Cristo (2019)

[3] Laurent Gaudè, Noi, l'Europa (edizioni e/o, 2019)

 

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