"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Se non lasciamo futuri saremo passati per niente

Trento, via San Martino (particolare)

Consigli non richiesti per una nuova geografia e grammatica politica per Trento e il Trentino.

di Federico Zappini *



Sei vuoi andare veloce, corri da solo.
Se vuoi andare lontano, corri insieme a qualcuno.



Scrivo questo testo da una posizione di marginalità. Da solo. Una solitudine che non credo solo mia. Senza grandi elettori da spendere nella contesa elettorale.

Quella che sottopongo è una riflessione che nasce dalla fragilità e dai dubbi più che dalla forza e dalle certezze. È un pensiero frutto di un numero sufficientemente ampio di conversazioni a più voci. E’ il depositato di inquietudine e curiosità derivante dall’osservazione dell’evoluzione politica e sociale del territorio che vivo.

Non è un appello per costruire nuovi movimenti o soggetti politici. Non è la rivendicazione di un ruolo in quegli organi – penso al tavolo coalizionale che già in queste settimane comincia il suo lavoro di confronto – che avranno il compito di tirare le somme delle riflessioni all’interno delle forze politiche che esprimono una propria visione e organizzazione.

Non rappresento nessuno se non me stesso e, forse sommariamente, qualche sentimento diffuso eppure latente di quelle comunità che negli ultimi anni sono rimaste (e in parte sono state fatte rimanere) ai margini della Politica e che con il loro agire quotidiano dentro il tessuto urbano della città hanno contribuito a rendere più vivace e stimolante il dibattito pubblico.

Non pretendo che ciò che qui scrivo venga interpretato come analisi senza limiti o mancanze. Non possiedo – e questo serve da conclusione di questa lunga ma necessaria introduzione – un metodo preconfezionato da mettere a disposizione. Non credo però in scorciatoie tattiche che possano bypassare un profondo esercizio di osservazione di ciò siamo stati e abbiamo fatto, un’adeguata riflessione su quali debbano essere gli strumenti e i linguaggi per riannodare i fili tra il sociale e il politico, una meticolosa e ambiziosa progettazione delle prossime azioni che una rigenerata comunità politica (fatta di partiti e individui, di movimenti e di associazioni, di quartieri e piazze) sappia immaginare e mettere a terra.

La mia sensazione è quella che qualsiasi tentativo di coalizione che non sia in grado di farsi carico di questa complessità – tanto di metodo quanto di merito – non avrà le carte in regola né per sfidare l’onda leghista (contingente e non sufficiente spauracchio identitario) né per proporsi come un’ipotesi politica lungimirante e inclusiva.

21 ottobre/ 1. Un risultato che viene da lontano. Un Mondo in transizione e la “fine” della società.

L’Occidente tutto nella seconda parte del ‘900 è stato costantemente appeso a un seno (almeno apparentemente) generoso. La compartecipazione di capitalismo – con il suo mix letale di capacità innovativa e competitività consumistica – e welfare state (fin quando c’è stato…) ha tenuto insieme, non senza conflitti e contraddizioni, un pezzo di mondo. Quello che nella gara del progresso abbiamo chiamato primo per distinguerlo da quelli che – a debita distanza – lo inseguivano, spesso sfruttati e depredati delle proprie risorse e opportunità. Al primo mondo è stato promessa crescita lineare, possibilità di spingere le proprie attese sempre oltre nuovi limiti, invariabilità di una tendenza al benessere (prima individuale che collettivo). Una promessa che oggi nessuno è più in grado di mantenere, entrati come siamo in un contesto di insostenibilità ambientale, di – almeno a queste latitudini – possibile stagnazione secolare, di rimessa in gioco degli equilibri planetari sotto la spinta di nuove potenze economiche emergenti, di evoluzioni demografiche e di tensioni globali, tanto ecologiche e migratorie quanto finanziarie  e tecnologiche. Un bel guazzabuglio che ha portato allo sfarinarsi di quella classe media (da leggere a riguardo “La società non esiste” di Christophe Guilluy) che è stata soggetto protagonista, variegato ma coeso, dell’equilibrio imperfetto ma duraturo dell’idea novecentesca di socialdemocrazia.

Il 2008 e l’inizio della Grande Crisi hanno aperto una nuova fase che oggi prende forma nell’affermazione di quelli che chiamiamo nazionalismi o populismi. Concentrandoci sugli effetti (i Trump, i Salvini, gli Orban, il cattivismo, il rancore, ecc.) abbiamo perso di vista le motivazioni profonde di un senso di disagio e spaesamento sempre più profondo di fronte a un mondo in trasformazione che non corrisponde a quella promessa di benessere progressivo e illimitato che l’Occidente si era dato.

Il venir meno di quell’orizzonte di senso, tranquillizzante e inclusivo (e insostenibile da moltissimi punti di vista), ha lasciato spazio ad altro rispetto alla lineare fedeltà al percorso che ci avrebbe dovuti condurre dal locale al globale, dal passato al futuro, dalla tradizione all’innovazione. Bruno Latour nel suo preziosissimo Tracciare la rotta descrive questo scenario di rottura in maniera impeccabile.

Il 21 ottobre in Trentino è figlio di questo mutato contesto ancor prima che della potente e aggressiva macchina comunicativa di Matteo Salvini e della Lega. Qui come altrove questo clima non avrà vita breve se non gli si contrapporrà un lungimirante e visionario lavoro di sistemazione delle condizione di base (tanto materiali, quanto valoriali) che producono il nuovo patto sociale di una comunità (più cooperativo che competitivo) sia essa quella di un municipio, di una Provincia montana o del Mondo intero. Questo è il compito, certo non agevole, che serve darsi. Ciò che è stato non tornerà più, nemmeno urlando con tutta la voce che abbiamo “prima noi”.

21 ottobre/ 2. Il “seno buono” rifiutato. La paura da attraversare.

In un recente incontro con gli ultimi tre Sindaci della città di Trento Ugo Morelli ha proposto agli ospiti un ragionamento e una domanda puntuali che qui riporto, non in forma letterale. Torna il tema metaforico del seno materno, trasposizione locale di quello che prima abbiamo associato all’intero Occidente.

«Il Trentino (e con esso la città di Trento) si è contraddistinto per un sistema di governo ordinato e lungimirante. Una socialdemocrazia evoluta, dove la dimensione amministrativa – anche grazie all’Autonomia che la dota di una cospicua quantità di risorse finanziarie connesse a una serie di competenze dirette – ha saputo interpretare il ruolo di ricucitura della comunità attraverso un’ampia e diffusa redistribuzione di ricchezza. Dove si è interrotta e perché la linearità di quella che potremmo chiamare la pratica del “seno buono”, dove la madre premurosa allatta il proprio neonato fino a sazietà, prendendosene cura e impegnandosi per la sua crescita? Quali sono i motivi che hanno portato al rigetto (il voto leghista ne è la rappresentazione più evidente) di quell’elargizione così copiosa, che è stata allo stesso tempo modello di welfare articolato e attento alle esigenze delle diverse parti della comunità e strumento di costruzione di rappresentanza e consenso per quello che è stato il centro-sinistra autonomista?»

Se si vuole affrontare la questione con onestà intellettuale bisogna dirsi che dentro i confini provinciali (e di riflesso fin dentro la dimensione cittadina) si è innescato un meccanismo politico e amministrativo che ha eccessivamente centralizzato sul player provinciale – il Presidente, gli Assessori, i dirigenti e i loro funzionari, le partecipate, ecc. – le dinamiche di questo territorio. Dai contadini agli impiantisti, dal mondo della cultura a quello della cooperazione, passando per l’università la connessione con il Potere si è via via incancrenita, producendo situazioni di non sufficiente trasparenza, di corrotta collateralità culturale e organizzativa, talora addirittura di malaffare. Le scelte politiche per mantenere quest’ordine delle cose sono quelle che hanno reso il contesto così viscoso e solo all’apparenza non modificabile.

Più in generale – provando a rispondere a Ugo Morelli – quel flusso abbondante e continuo proveniente dal seno provinciale ha prodotto un effetto di assuefazione, una stanchezza generalizzata da abbondanza mai provata prima da un territorio e da una popolazione che solo fino agli anni ’60 aveva ancora caratteristiche principalmente agricole e un tenore di vita medio tutt’altro che elevato. La conseguenza – dentro e fuori e le istituzioni – è stata quella di una generale de-politicizzazione dell’intera comunità trentina, o almeno di un’ampia sua parte.

Forse un tempo “bastava” amministrare (e per molti per ciò che è stato fatto dobbiamo ringraziare le classi dirigenti che fin qui si sono succedute) i flussi di cassa in relazione ai servizi da gestire e alle opere da realizzare per mantenere fede al patto sociale tra governati e governanti. Quel che è stato però – dobbiamo analizzare questo aspetto con grande attenzione – ha irrigidito e omologato, neutralizzato tanto il personale politico quanto la comunità che lo dovrebbe ancora prima che eleggere rappresentare. Generalizzo per capirci e mi inserisco anche io senza problemi negli irrigiditi e negli omologati, negli incapaci di dare una svolta a questa situazione che è la sedimentazione di venticinque anni di gestione continuativa della cosa pubblica.

La gestione  ora non è più sufficiente, anche e soprattutto per il parallelo emergere delle motivazioni esterne cui ho accennato precedentemente che necessitano di fantasia e resilienza, capacità di innovare e condividere un cambio di registro.

Guglielmo Minervini – Politico e amministratore troppo precocemente scomparso – ricordava che le crisi sono momenti che vanno presi come potenziali di importanti trasformazioni. Per fare questo non bisogna negare di avere paura, ma avere il coraggio di attraversare quella paura insieme.

Danilo Dolci questo compito – sociale e politico insieme, quello a cui dovremmo rifarci – lo descriveva più o meno così:

«Le comunità si fondano sulla fiducia. La fiducia nasce dal dono, da un’azione originaria volontaria e gratuità che non esige reciprocità. Il dono ‘fondativo’ è una condivisione radicale di risorse – non marginali, ma pregiate – da parte di chi intende ‘iniziare’ una comunità. Lo stato di salute di una comunità dipende dalla quantità di capitale di fiducia in circolazione. La fiducia si alimenta con la prossimità, la coerenza, disvelando il dietro le quinte, promettendo non più di quanto si può mantenere, ‘senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo’ ma cercando d’essere franco all’altro come a sé».

E’ un lavoro quello che va messo in campo che va molto oltre la ricomposizione aritmetica delle componenti di una precedente coalizione che – è la realtà a dirlo – non ha le energie sufficienti per essere l’unico motore di una proposta politica per la città e conseguentemente per la provincia. Serve, se ce ne sono le condizioni, che ci sia una movimentazione sociale (singoli, gruppi, realtà organizzate e non) che si fa sostenitrice di un progetto nuovo e curioso che non teorizza la rottamazione tout court del passato (chi ci ha provato non è finito bene) ma si propone come federatore radicale di ciò che di buono può muoversi in un’area ampia, e tutt’altro che definita, che va dai partiti ai comitati fino alle associazioni di matrice cattolica, dalle comunità (non più) straniere alle categorie professionali, passando per gli studenti universitari, che sempre meno dovrebbero sentirsi cittadini temporanei di Trento.

TN2020 / Una proposta organizzativa.

Sono spesso accusato di teorizzare senza dare troppa importanza al pragmatismo del “che fare?”. Provo quindi ad aggiungere alla riflessione sopra riportata quattro brevissimi punti organizzativi che a mio avviso aiuterebbero a sviluppare condizioni adeguate ad affrontare le prossima scadenza elettorale non in  maniera passiva e difensiva, ma tentando di produrre un processo curioso e ambizioso. Andrà fatto tenendo presente che non si potrà rivendicare nessun tipo di discontinuità rispetto al passato. Quella parola (così come successo prima delle scorse elezioni provinciali) è patrimonio dello schieramento leghista, abile a descriversi come diverso, di rottura rispetto a una precedente situazione che descrivono come non più accettabile.

Bisogna andare più in profondità, cercando di ritessere le fila della comunità fin dal primo passaggio di un percorso più lungo e cadenzato (siamo già in netto ritardo, bisogna esserne consapevoli) e non aspettandosi di poter far addensare tutto attorno a un buon candidato sindaco all’ultimo miglio della campagna elettorale.

Ecco quindi quattro tappe, solo per titoli che spero comprensibili, da elaborare.

1) Nessun dorma. Fotografia del “fino a qui”. [fine agosto/inizio settembre] Una serata/notte di conversazione sulla città, dove si offre un’idea precisa e dettagliata di ciò che si è fatto in città nei principali campi di competenza. Un modo per avere chiaro da dove si parte, sapendo mettere in fila eccellenze ed errori, esperienze riuscite e obiettivi mancati. Il punto di partenza necessario. Le fondamenta – di cui si dovrà valutare la solidità – su cui edificare il futuro di Trento.

2) 3/30/300. Poche (ma fondamentali) sfide per la città del futuro. [settembre/ottobre] Un numero limitato di parole d’ordine (3?), che rappresentano la cifra costitutiva di un’idea politica, una serie non esagerata di campi d’intervento (30? 33?) che sono la traccia di un percorso di medio/lungo termine, un catalogo realistico di micro interventi (300?) che possano essere via via verificati così da segnalare il progredire del proprio agire in ogni settore della città.

3) Il nome giusto, al momento giusto. [settembre/ottobre] Il candidato Sindaco che per la prima volta da diversi anni si troverà di fronte a una città “contendibile” dalla destra avrà il compito di interpretare con energia e capacità la proposta di una coalizione non solo partitica ma sociale. Ecco perché sarebbe incomprensibile che il nome (o i nomi) venissero dalle forze organizzate e solo successivamente diventasse patrimonio collettivo, magari attraverso l’ormai non più funzionale pratica delle primarie. Il candidato Sindaco dovrebbe essere il prodotto delle prime due fasi, così da potersi essere messo alla prova dentro il processo sociale della compagine che poi lo sosterrà e del quale dovrà essere profondo conoscitore e partecipante e non solo volto.

4) 21M? 28M? (dai quartieri in Comune, guardando al mondo intero). [novembre/maggio] Serve un processo capillare di movimentazioni territoriali che puntando all’obiettivo elettorale sappia andare oltre a esso ristrutturando le pratiche del dibattito e dell’azione politica. Alcuni si rifanno come Alexandria Ocasio Cortez al community organizing. Altri ancora – come a Barcellona – si costituiscono in Maree, realtà territoriali di confronto e organizzazione, che prendendo energia dalla campagna elettorale rimangono attive anche successivamente per garantire continua spinta all’azione di governo. Va trovato un modo coinvolgente di far montare l’adesione e la partecipazione di una serie di comunità che si riconoscano (scommettendo sulle stesse priorità, utilizzando un vocabolario comune, moltiplicando le energie) nel perseguimento di un obiettivo che è la progettazione e la costruzione della città del futuro. 21M (per 21 maggio) o 28M (28 maggio) sono il primo orizzonte temporale su cui impegnarsi.


* da https://pontidivista.wordpress.com/

 

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