"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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giovedì, 29 ottobre 2015Mercato

Diario messicano. Prima puntata

La bellezza dell'amicizia

(29 ottobre 2015) Siamo arrivati la notte scorsa a Città del Messico. Che emozione riabbracciare i nostri amici, Carlos e Pano, persone speciali con le quali abbiamo costruito negli anni una relazione speciale.

Ci siamo conosciuti nell'ormai lontano 1994. Con Alberto Tridente, andammo in questo meraviglioso paese a seguire la campagna elettorale di Cuatemoc Cardenas, amico di Alberto e allora candidato presidente per il PRD. Pur facendo base a Città del Messico, ogni giorno ci spostavamo con la carovana di Cuatemoc, attraverso i villaggi più sperduti della provincia di Puebla, di Cuernavaca e del Distretto Federale. Immagini che rimarranno impresse per la vita. Il fascino dei luoghi, la bellezza delle persone, l'emozione nel condividere speranze. I contadini accoglievano il loro “presidente” portandolo a braccia dall'inizio del paese fino al luogo del comizio. Cardenas non vinse ma fu un'esperienza indimenticabile.

Per tutto il tempo fummo deliziati dalla loro ospitalità. Pano, maestro di cucina precolombiana, ci faceva conoscere i segreti delle botteghe, delle bancarelle e dei mercati rionali di questa immensa città. E quando, a sera, ritornavamo a casa ci attendevano piatti raffinati e sapori spesso sconosciuti. Carlos era incuriosito da un pensiero di sinistra non statalista e le nostre discussioni si protraevano fino a tarda notte. Finita la campagna elettorale ci raggiunse Gabriella e scattò fra noi quella che Carlos ama definire una chimica particolare. L'Animal Farm di George Orwell divenne la chiave per leggere le cose del mondo e, fra noi, un gioco di ruoli che prosegue ancora oggi dopo più di vent'anni. E poi Ruben, Fernando, Mary Kay...

Decidemmo di spostarci in Chiapas: lì il 1 gennaio l'insurrezione zapatista aveva dato voce alla condizione delle popolazioni indigene. Volevo osservare, capire da vicino se avessimo a che fare con qualcosa di nuovo e diverso in questa lotta che rivendicava autogoverno ma non nuovi confini mentre nella vecchia Europa i nazionalismi laceravano la Jugoslavia e non solo. La fine di una storia (quella del Novecento) non poteva  mettere a tacere i processi di esclusione sociale che riuscivano a trovare più interlocuzione politica nella Chiesa di mons. Ruiz che in una sinistra chiusa nei propri schemi ormai obsoleti. Tornai colpito dall'unicità degli ecosistemi, dai colori di San Cristobal de las Casas, dalla fragilità delle popolazioni indigene, un po' meno dal mito dell'uomo a cavallo col passamontagna che pure era riuscito a farsi largo nell'immaginario di un'opinione pubblica internazionale malata di sensazionalismo.

Da allora siamo tornati più volte in Messico, ogni volta scoprendo il valore di questa nostra amicizia, con la naturalezza di riprendere la nostra conversazione come se l'avessimo lasciata lì il giorno precedente. Quando dieci anni fa Carlos e Pano vennero in Italia, proponemmo loro una piccola vacanza in Sardegna per scoprire il fascino del Mediterraneo nel quale si immersero con la curiosità e la gioia di conoscerne i caratteri così profondi.

Ora siamo di nuovo qui, in questo paese che oggi fa più notizia per il crimine organizzato che per la cultura che esprime, per la sua storia o per le sue straordinarie biodiversità. Al di là degli stereotipi, sempre pronti a servirti immagini sfocate e distorte (o quel che vuoi vedere), questi sono tempi difficili per tutti, il “non più” e il “non ancora” segna anche il tempo di qui. Il villaggio globale e l'interdipendenza fanno sì che anche nella “faccia triste dell'America” (ma dove sarebbe quella allegra?) si possano incontrare le grandi contraddizioni del nostro tempo, in questo sovrapporsi sempre più diffuso di inclusione ed esclusione. Eppure sono curioso di come tutto questo si legga da qui, attraverso questo particolare caleidoscopio, per quanto ne potremo capire in pochi giorni. Ma in questo saranno lo sguardo e la sensibilità di Carlos, Pano, Fernando ed altri amici a venirci in aiuto. In fondo, la ricchezza dell'amicizia abita proprio qui, in una comunità di destino che ci fa sentire prossimi pur abitando dall'altra parte del pianeta.

giovedì, 1 ottobre 2015Parigi, l\'Arco di trionfo

Sono rientrato da Parigi, dopo un breve soggiorno. Era la prima volta che visitavo per qualche giorno questa città (altre volte c'ero stato ma solo di passaggio), molte le immagini che ho cercato di catturare nella più grande capitale dell'Unione Europea (ma non dell'Europa, che per la cronaca e non solo è Istanbul). Mi piace annusare l'aria, osservare i dettagli, guardare i volti dei passanti, girare per i mercati nelle piazze, andar per librerie e osterie.

Parigi esibisce quelle parole che vedi scolpite quasi ossessivamente sugli edifici che segnano la storia di questa città: libertà, eguaglianza, fraternità. La culla dell'illuminismo del resto abita qui, sempre in bilico fra rivoluzione e restaurazione. Ma cosa rimane di quelle parole?

Fra l'arco di trionfo e la torre Eiffel mi capita di ascoltare il racconto di una guida turistica ed è una sorta di soliloquio fra re e imperatori, battaglie e conquiste, primazie nella grandezza dei luoghi e nella civiltà. La “grandeur” viene fuori a piene mani, ben oltre ciò che pure ci si può aspettare. Ed in effetti qui è tutto grande: i palazzi, i teatri, i viali, le vie... perfino il tricolore che campeggia sui Champs Elysees ti racconta di un mito di grandezza che non ha pari.

Qui misuri più che altrove che cosa significa essere immersi nei paradigmi del passato, dello stato-nazione in primo luogo. E' quasi paradossale. A dispetto di una società multietnica e multicolore, a Parigi non respiri affatto un'atmosfera europea. Un sentire che non sembra nelle corde di questo paese, delle sue istituzioni come dei suoi cittadini. Allo stesso modo i territori sono tasselli di un ferreo assetto centralistico, come se il concetto di autogoverno qui non avesse proprio cittadinanza.

Non che l'idea federalista europea altrove stia attraversando stagioni migliori, basta scorrere le percentuali dei votanti in occasione del rinnovo del Parlamento europeo nei 28 paesi dell'Unione o assistere al penoso confronto sull'accoglienza dei rifugiati per comprendere quanto sia diffuso il suo declino.

Malgrado ciò nella capitale francese hai come la sensazione di trovarti altrove, tanto è forte lo spirito nazionale e tanto sono marginali i segni di una nuova cittadinanza sovranazionale: nello scorrere i titoli dei giornali, osservando le proposte di lettura di una libreria, ascoltando un telegiornale. Immaginare le forme di una cessione di sovranità verso una dimensione politica sovranazionale, in un contesto del genere, appare semplicemente improbabile.

Come stupirsi dunque che proprio in questi giorni di soggiorno parigino la Francia abbia dato il via in forma assolutamente unilaterale ai bombardamenti in Siria contro i combattenti dell'autoproclamato Stato Islamico? Come già avvenne tre anni fa con i bombardamenti sulla Libia, basta che venga paventata la messa in discussione dei propri interessi nazionali ed è sufficiente per la Francia motivare un suo intervento militare. Contro le regole del diritto internazionale, tanto nessuno le farà pagare lo scotto. Era così ai tempi del dominio coloniale che, a guardar bene, per la Francia non è mai stato definitivamente archiviato. O forse ci siamo dimenticati l'Algeria, la guerra d'Indocina e gli esperimenti nucleari nell'oceano pacifico, nei cosiddetti possedimenti d'oltremare? La fraternità?

Le conseguenze, oggi come ieri, erano allora e sono oggi disastrose. La Francia possiede del resto il terzo apparato militare (e nucleare) a livello mondiale, inferiore solo a quello degli Stati Uniti e della Cina. E' il prezzo della libertà?

Quanto all'eguaglianza, per quel poco che posso cogliere in un tempo così breve, le divisioni sociali qui appaiono nette e corrispondono molto spesso ai diversi colori di questa società multietnica ma profondamente classista. Basta dare un'occhiata a chi lavora nei cantieri o al lusso sfrenato di interi quartieri del centro, talmente ostentato da provare imbarazzo.

Nel quartiere latino dove, grazie all'amico Rino, abbiamo il piacere di alloggiare, il clima sembra diverso. Librerie ogni cinquanta metri, botteghe artigiane accessibili, locali alla portata dei giovani... Ma basta parlare con una signora che gestisce una bancarella in un piccolo mercato rionale per capire da che parte tira il vento...

Da questa visita a Parigi mi porto via un duplice sentimento, la maestosità dei luoghi ed il suo esserne prigioniera. Autocompiacimento e solitudine. L'Europa, vista da qui, sembra davvero lontana.