"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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venerdì, 27 novembre 2015Modena, stazione di Modena.. Foto di Luigi Ottani

Giovedì scorso ero a Modena, nella sala della Fondazione Teatro San Carlo, un po' il cuore antico della città, per il Convegno dal titolo suggestivo “Modena, stazione di Modena”.

I migranti arrivano in treno e queste sono le parole con le quali vengono accolti. Loro però non sanno che cosa li aspetta, o forse sì perché Modena è una città ricca e dunque forse si aspettano di condividere un po' di quella ricchezza. Ma 400 ospiti diventano invece un problema. Numeri irrilevanti se rapportati alla popolazione, agli sportelli bancari e agli altri presunti indicatori del benessere, ma non per un immaginario collettivo che si auto alimenta di paure (e di quel che la gente vuol sentirsi dire) che i talk show televisivi spargono a piene mani pur di fare audience.

Accade in una piccola città di provincia come Modena, ma è lo stesso in tanti altri luoghi compreso il civilissimo Trentino che forse è ancora più ricco. Ed è importante quindi che le istituzioni locali, nel loro insieme, s'interroghino su quel che sta avvenendo, non soltanto con l'arrivo di persone da altri mondi ma anche nel proprio tessuto sociale atomizzato ed impaurito, per cercare risposte non banali oltre la presunta emergenza.

Proprio di questo si è discusso in un pomeriggio fitto di immagini, racconti, pensieri, esperienze concrete che hanno connesso la città di Modena con le moderne rotte degli immigrati, con la storia vicina e lontana di altri esodi e migrazioni, con la propria stessa coscienza civile fino a chiedersi che cosa ne è di quella comunità che nel secondo dopoguerra aveva ospitato nelle famiglie operaie e contadine della zona settantamila bambini provenienti dal Mezzogiorno d'Italia. Il tutto a partire dal racconto di Luigi Ottani e Roberta Biagiarelli che l'estate scorsa hanno accompagnato per qualche giorno la rotta dei migranti in Macedonia. Ne verrà anche un libro fotografico e non solo.

Nonostante il giorno infrasettimanale e un orario pomeridiano, la sala è gremita di persone attente, volontari, operatori sociali e dell'immagine, amministratori locali, nuovi cittadini. Fra loro anche il nuovo arcivescovo di Modena-Nonantola Erio Castellucci, persona impegnata dalla parte degli ultimi. Cinque ore fitte di parole e di immagini raccolte nel mondo e nei vicoli di questa stessa città, per indagare su questo nostro tempo. Nel mio intervento parlo delle rotte che nel corso del tempo hanno portato a dar corpo a questa Europa smarrita e che tende a dimenticare la propria stessa storia. Altri parlano di rotte balcaniche e africane, altri ancora delle loro esperienze sul piano dell'accoglienza e della cittadinanza.

Voci molto diverse, c'è materiale su cui riflettere dice l'assessora Giuliana Urbelli, perché tutto questo deve servire a motivare ulteriormente, in una certa misura ripensare e qualificare un impegno sul campo che richiede passione, competenza e quello sguardo lungo senza il quale ci si limiterà a ricorrere ciò che viviamo come un problema e che invece è semplicemente l'esito di questo tempo.

domenica, 15 novembre 2015Salchi

Diario messicano. Sesta ed ultima puntata.

A staccare la spina proprio non ci riesco, nemmeno quando non ci sono connessioni cui accedere. E dunque anche questo mio breve racconto sul viaggio in Messico che volge al termine risente di uno sguardo che non si stanca mai di cercare. E questo non malgrado, ma anche grazie al piacere di quel che la vita ti offre, l'amicizia in primo luogo, lo spettacolo della natura, i sapori della cucina pre-ispanica di Pano o quelli del Cardenal a due passi dallo Zocalo di Città del Messico.

In questa infinita metropoli ci starei giorni e giorni a curiosare per le strade delle molte città che la compongono, ad incrociare volti interessanti che sembrano rubati agli affreschi di Diego Rivera, a visitare i luoghi della storia e l'immenso museo antropologico, a bere tequila all'Opera o in altri locali. Certo, con il privilegio di avere con te persone che ci vivono e ne conoscono i lati più segreti come quando andammo qualche anno fa nel locale dove si esibiva Chavela Vargas, cantante di origine portoricana ma che divenne col tempo una delle icone del Messico, nel quale un giorno spaccò la chitarra sulla testa di una sua amante che stava lì con un'altra donna. O nella casa dell'amico Fernando Mendez a Malinalco, dove ancora vive l'antico rituale del Temazcal, parola che viene dal nahuatl temazcalli ("casa del vapore") che nella Mesoamerica veniva usata come parte di una cerimonia curativa con la quale si purificava il corpo e la mente, ma anche di autocoscienza collettiva.

Purtroppo, in questa occasione a Città del Messico ci stiamo solo poche ore, il tempo di fare due passi in centro e di risolvere un po' di problemi logistici per il ritorno. Perché accade che la Lufthansa cancelli i nostri voli di rientro, dovendo così optare per un altro piano di volo il giorno successivo a quello previsto, con scalo negli Stati Uniti. Il che comporta un visto di transito che prevede la presentazione del proprio pedigree, nonché il pagamento dello stesso. Ogni tanto capita anche a noi “occidentali” di comprendere che cosa significa l'umiliazione della frontiera...

Poche ore di volo ed eccoci in un altro mondo, che però si inchioda di nuovo nello sciopero degli assistenti Lufthansa che lascia a terra oltre mezzo milione di persone e che paralizza non solo un paese dove i treni sono tradizionalmente in orario ma a cascata una fetta importante del traffico aereo globale. Fermi per un giorno intero a Francoforte, negli spazi impersonali di un aeroporto nel cuore della Germania, privo di collegamento internet e dove se ti va bene ti scaricano in un nuovo volo che parte se sei fortunato dieci ore più tardi. Nella sicura, forte ed efficiente Germania, dopo la truffa delle Volkswagen taroccate, ora questo sciopero che – al di là del disagio che ne può venire – per certi versi la rende più umana.

Perché in questo viaggio ci rendiamo conto che hostess e steward invecchiano anche loro. L'astensione dal lavoro riguarda il taglio delle pensioni, non ne sappiamo molto di più. Ma certa è una cosa: non si può immaginare di volare dalla mattina alla sera senza pensare che questo non abbia conseguenza alcuna sul fisico di questi lavoratori e lavoratrici. Si taglia il personale, non certo il numero di voli.

Nemmeno il tempo di rientrare a Trento e, nell'ascoltare in autostrada un radiogiornale, veniamo riportati all'amara realtà di un allucinante dibattito sul diritto delle persone a farsi giustizia da sé. Un sindaco padano, intervistato da un cronista accondiscendente, dice cose che fanno rabbrividire, sul diritto di sparare a casa propria ma anche per strada. Bentornati in questo mondo, dove la paura fa strame di buonsenso e di civiltà.

Gli umori sono diventati rancore ed il rancore progetto politico. Mentre questo accadeva la sinistra, elitaria e un po' snob, nemmeno si accorgeva di quel che stava covando nei luoghi del rancore, le nostre krčme, le locande balcaniche che a guardar bene potevamo vedere anche sotto casa nostra. Tutti contro tutti, con le unghie pronte all'aggressione verso tutto ciò che, diverso o famigliare che sia, ti insidia nel tuo possesso o nel bisogno spasmodico di sicurezza.

Così va il mondo, ben prima di Parigi.

mercoledì, 11 novembre 2015Diego Rivera, Murales

Diario messicano. Quinta puntata.

Ancora a proposito della “sinistra italiana” vista da tanto lontano. Il Messico è terra di tradizioni progressiste. E' il paese della prima rivoluzione democratica del Novecento, da cui nacquero in seguito la grande riforma agraria e la nazionalizzazione dell'industria petrolifera. Per molti anni è stata terra d'asilo per i rivoluzionari di tutto il mondo, specie dall'America Latina ma anche dall'Europa durante il fascismo e dalla Russia durante gli anni dello stalinismo. Nel secolo scorso ha rappresentato un punto fermo nella ricerca antropologica e culturale per l'intero pianeta. Ancora negli anni novanta l'insurrezione indigena in Chiapas ha scritto pagine interessanti nel cercare di superare i paradigmi di una politica che in ogni latitudine ha rinunciato alla fatica di interrogarsi e all'ebbrezza della costruire strade nuove.

Eppure nei pochi giorni di permanenza in Messico mi rendo conto di quanto il dibattito politico sia sia fermato, impantanato nelle secche del secolo scorso, qui come altrove. A Oaxaca assisto a due manifestazioni nello “zocalo” della città, protagonisti gli insegnanti che qui rappresentano una forte corporazione di sinistra. Per i contenuti che emergono nelle parole degli oratori, gli slogan ritmati dai partecipanti, i simboli che vengono agitati e le modalità di svolgimento sembra di assistere ad un film già visto. Un lungometraggio perché una settimana dopo sono ancora lì, nello stesso luogo, a gridare nel microfono che nella lotta sarebbero disposti anche a morire. Eppure tutt'intorno si celebra l'antico culto dove la morte è il proseguimento della vita, non l'estremo sacrifico... e il disinteresse intorno a loro è più che mai eloquente.

Mi chiedo se il tempo si sia fermato anche a Città del Messico nell'assistere ad un corteo delle organizzazioni contadine che sembra spuntato fuori dall'archivio del movimento sindacale, in questo caso un po' più allegro visto che le persone che vi partecipano sono intere famiglie che vengono dal campo, qui a rivendicare giustizia sociale in un paese dove il divario fra ricchezza e povertà è fra i più alti del mondo1.

Manifestazioni in fondo non molto diverse da quelle cui ho assistito anche in Italia, prendendo atto di una distanza sempre maggiore nei contenuti e nei modi di esprimere la necessità di un cambiamento di cui pure avverto radicalmente la necessità. Ma che richiederebbe un profondo scarto culturale che invece non c'è.

Ed è qui che volevo arrivare. Perché la nascita di “Sinistra Italiana” – di cui ho parlato nella puntata precedente di questo mio “diario messicano” – mi ha scosso per davvero. Non perché credo che il PD, sul piano delle categorie del pensiero, sia poi tanto diverso. Come non lo è questa cosa di Pippo Civati ed altri chiamata “Possibile”, emulando quel “Podemos” che in Spagna già segna qualche crepa. Ma perché ci racconta di quanto poco si sia riflettuto tanto sull'eredità della sinistra novecentesca, quanto sul nostro tempo.

Emerge, qui in Messico come in Italia, come la dialettica interna alla sinistra avvenga fra “conservatori”, gli uni di una modernità che ha deciso che questo sia il migliore dei mondi possibile, gli altri di una tradizione politica che è andata tradita e che è necessario rifondare, entrambi chiusi nell'orizzonte delle magnifiche sorti progressive dello sviluppo.

E' mai possibile che non ci si interroghi sulla sconfitta con cui si è chiuso il Novecento, se non in termini di subalternità al pensiero vincente o di tradimento? Il mio pensiero va per un attimo alla Grecia e al dibattito che ha portato alla spaccatura di Syriza, anch'esso tutto interno a questa dialettica stantia.

In questi anni ho guardato con attenzione a quanto emergeva di interessante nel mondo della sinistra chiamiamola globale, anche se sotto questo nome potevi trovare proprio di tutto, il che avrebbe consigliato e consiglierebbe almeno un po' di prudenza. Ed è quella che ho cercato di avere in passaggi anche entusiasmanti come la vittoria di Lula in Brasile o di José “Pepe” Mujica in Uruguay, così come nel travaglio politico europeo laddove la crisi della socialdemocrazia faceva emergere esperienze come i Grünen prima o Syriza e Podemos successivamente, scorgendo qua e là le traccia di una ricerca politica che era anche la mia (o, meglio, la nostra visto che si trattava di una ricerca almeno per un lungo tratto collettiva). Per poi dovermi rassegnare all'emergere di vecchie culture e degli stessi vizi di sempre. O ad una distanza sempre più profonda.

Ne parliamo una sera a cena con Mary Kay Vaughan, antropologa e professoressa emerita dell'Università del Maryland, amica di Carlos Schaffer e di Alberto Tridente. Proprio con Alberto, mi racconta Mary Kay, aveva forti discussioni sul Brasile di Lula e le sue grandi contraddizioni che Alberto ascriveva alle condizioni che l'ex operaio metallurgico aveva ereditato o al fatto che la maggioranza del Parlamento brasiliano non era omogenea al suo presidente o, ancora, con la considerazione che quando i poveri vanno al potere si portano appresso la fame di avere. Come se la solidarietà dovesse significare assecondare anziché interrogarsi per tempo, chiudere gli occhi anziché esercitare il diritto di critica...

Apro qui una piccola parentesi. Pensate che quando ho detto che la causa palestinese aveva bisogno di idee nuove e non di tifosi mi hanno accusato di essere filo israeliano. La cultura che spesso ci portiamo appresso è profondamente manichea, divide il mondo in bene e male, buoni e cattivi, dove i buoni, naturalmente, saremmo noi, un noi settario perché manichei lo si è come forma mentale. Chiusa parentesi.

Essere “dalla parte dei diritti”2 non ci esime dall'interrogarci sugli esiti, anche quando questo mette in discussione ciò in cui abbiamo creduto e crediamo. Ma di questo interrogarci esigente non c'è traccia almeno nella scelta di un nome come “Sinistra Italiana” che di quel progetto dovrebbe esprimere l'anima. Allora provo ad ascoltare le parole di Stefano Fassina nella presentazione del nuovo partito, ma di un cambio di paradigma proprio non si pone nemmeno l'esigenza. Era del resto quel che avevo provato nell'incontrarlo in via del Tritone a Roma nel dicembre di quattro anni fa, quando ancora era responsabile economico del PD (e Matteo Renzi il sindaco di Firenze). Un incontro privato che aveva lo scopo di sondare nel pensiero di uno degli esponenti più in vista della sinistra cosa ci fosse sul piano della ricerca politica innovativa. Ne uscii profondamente deluso.

Nella sua bella casa di Oaxaca, Mary Kay segue con un certo stupore i miei ragionamenti sulla necessità di fermare un modello di sviluppo fondato sulla crescita illimitata, che è già ben oltre la sostenibilità e che ci sta portando alla guerra, quella stessa guerra di cui parla, in buona sostanza inascoltato, Papa Francesco. E di strade inedite di liberazione che la politica, ancorata ai vecchi paradigmi ed incapace di interpretare un tempo nuovo, non avverte nemmeno il bisogno di cercare. Non trovando di meglio da fare che ancorarsi alla rivoluzione francese.

Un cambio di paradigma richiede una metamorfosi profonda, ci vorrà tempo e spazi di confronto. La cosa bella è di essere qui a parlarne fra persone che vivono, pensano ed operano in mondi diversi, a decine di migliaia di chilometri l'una dall'altra. Dialoghi che potranno proseguire usando al meglio ciò che le nuove tecnologie ci permettono di fare.

 

1Il coefficiente di Gini, che misura il grado di divario fra povertà e ricchezza in ciascun paese, colloca il Messico al 109° posto su 124 paesi monitorati (per capirci l'Italia è al 52° e gli USA al 75°). Per saperne di più https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_per_uguaglianza_di_reddito

2Alberto Tridente, Dalla parte dei diritti. Rosenberg & Sellier, 2011

lunedì, 9 novembre 2015Puebla

Diario messicano. Quarta puntata

 

Dopo alcuni giorni di salutare distacco dal mondo (per fortuna esistono ancora spazi di non connessione) rieccomi di nuovo nel villaggio globale. Tornati a Oaxaca do un'occhiata alle notizie dal mondo, dall'Italia e dal nostro – visto da qui – ancor più piccolo Trentino. Niente di che, per la verità, a testimonianza che in fondo rompere il cordone ombelicale che ci tiene legati al nostro delirio quotidiano che ci fa sentire indispensabili non è poi così difficile.

Non che non accadano cose di un certo rilievo. Una su tutte, la vittoria del partito di Aung San Suu Kyi nelle elezioni politiche in Myanmar. Per richiamare le considerazioni della puntata precedente, oltre a quella della natura e dei giovani, c'è anche la forza della nonviolenza.

Ci saranno voluti venticinque anni ma la scelta della Premio Nobel per la Pace si è dimostrata vincente, ha evitato la degenerazione violenta di un conflitto che ne aveva tutte le potenzialità distruttive, ha indicato al mondo intero che la strada per la pace e la democrazia non passa né dalla violenza immaginata come levatrice della storia, né tanto meno dalle guerre (umanitarie comprese). Aung San Suu Kyi, nonostante il 70% dei suffragi, ha invitato alla prudenza e anche questo mi sembra un atto di intelligenza politica. Perché l'ex Birmania necessita di una fase di riconciliazione tutt'altro che semplice, nella quale la vendetta ed il rancore non devono prevalere sull'elaborazione del conflitto e sulla verità.

Sulle vicende italiane mi sembra che l'unico fatto di un qualche rilievo sia la nascita di un nuovo soggetto politico. “Nuovo” si fa per dire, perché il solo fatto di chiamarsi “Sinistra Italiana” mi fa cadere le braccia. Due vecchi paradigmi in un colpo solo, mi viene da pensare. Pur rispettando il travaglio politico e la fatica del ricominciare che ben conosco, non riesco a tacere la mia profonda distanza politica dal nascente partito di Fassina e di Vendola.

Utilizzare il sostantivo “sinistra” rappresenta una scelta di rivendicazione di una storia pensata tradita. Non credo certo alla teoria delle due destre o che destra e sinistra siano ormai la stessa cosa e, del resto, la mia è stata una storia di sinistra che non rinnego affatto. Ma come non capire che se oggi il pianeta è nelle condizioni in cui si trova è anche perché il pensiero (e le pratiche) di quel campo politico si sono rivelati sbagliati, subalterni e in molti casi tragici? Come non fare i conti con la cultura positivista che era all'origine dei grandi pensieri della modernità, quello marxista come quello liberale? Come non riflettere sull'insostenibilità di un progresso che Andrea Zanzotto definiva scorsoio? Come non prendere atto che l'“uomo nuovo” è andato assumendo via via le forme deliranti e talvolta brutali che abbiamo conosciuto sotto ogni latitudine? E, infine, come non comprendere che oggi questa parola risulta “sinistra” in buona parte del pianeta e che anche in Italia non scalda il cuore né la mente di chi pure non condivide la riduzione della vita a merce? Conosco le obiezioni e se il riferimento è quello dei valori dei quali la sinistra è stata portatrice, questi non sono necessariamente o solamente prerogativa di quella storia.

Quanto all'aggettivo “Italiana”, che immagino nelle intenzioni dei proponenti dovrebbe rappresentare un riferimento proprio alla storia della sinistra in questo paese, esso appare ad un tempo elusivo di una vicenda politica dalle molte facce spesso contraddittorie e incapace di interpretare una realtà nella quale la dimensione nazionale appare profondamente inadeguata a cogliere il carattere interdipendente e sovranazionale del nostro tempo.

Nessun cambio di paradigma, dunque.

Quella stessa inadeguatezza emerge anche nel delicato passaggio che sta vivendo il Trentino, un'omologazione che contraddice vent'anni di anomalia e di sperimentazione originale, pur non privi di contraddizioni.

Leggo della candidatura di Lorenzo Dellai alla segreteria dell'Unione per il Trentino. Quante volte in questi anni ho puntato l'indice sull'incapacità di investire sul futuro e dunque su una nuova classe dirigente, riferendomi sia all'ambito politico in senso ampio che alla nostra comunità e alle sue istituzioni... Sostanzialmente inascoltato.

E, ciò nonostante, non è possibile non vedere che in gioco ci sono scelte di fondo e un indirizzo politico per il Trentino. Il congresso che si svolgerà a gennaio, anche attraverso le candidature di Dellai e di Mellarini, sarà chiamato a decidere se rilanciare la scommessa originaria che ha fatto diversa questa terra, oppure se avvallare l'involuzione in chiave centrista e conservatrice del centrosinistra autonomista che governa questa nostra terra.

Un dibattito dal quale appare difficile chiamarsi fuori anche perché è tutt'altro che estraneo al confronto dentro un PD del Trentino che oggi appare la copia sbiadita di quel luogo dove le anime che ne facevano parte cercarono nuove ed originali sintesi culturali, oggi invece profondamente appiattito sul partito nazionale.

Qualcuno potrebbe pensare che, viste da lontano, le nostre miserie politiche possano apparire irrilevanti, ma non è affatto così. Perché in buona sostanza i nodi al pettine – pur nel carattere specifico di ogni realtà – sono sostanzialmente gli stessi qui, nei paesi europei o nei territori che conosciamo più da vicino. L'interdipendenza è questo in fondo, rende piccolo il villaggio globale e richiede visioni alte e profonde affinché l'autogoverno non diventi una strada per rivendicare privilegi e chiusure.

Le immagini che raccolgo e le discussioni che ho qui ad Oaxaca e a Città del Messico mi confermano che in quello spazio fra il “non più” e il “non ancora” ci siamo tutti e di quanto il cambio di sguardo e di pensiero s'imponga urgentemente. Nell'approccio nonviolento, nel ripensare le categorie della politica, nel considerare ogni luogo, parte del tutto e anche per questo decisivo.

sabato, 7 novembre 2015L\'oceano pacifico

La forza della natura e quella delle nuove generazioni e ... un altro racconto

Diario messicano. Terza puntata

Lasciamo Oaxaca in direzione dell'oceano pacifico. Le distanze non sembrano problematiche ma percorrere quei trecento chilometri ed in particolare la cordigliera della Sierra del Sur è un'impresa che richiede più di sette ore di viaggio e la discesa verso il pacifico sembra non finire mai.

Colpisce la forza della natura. Lo scenario è quello della foresta tropicale, impenetrabile ai nostri occhi, non a chi la abita e che vi trova di che sopravvivere. Qui cominci forse a capire il motivo dell'esodo verso le periferie urbane.

Sarà l'effetto della pioggia intensa che accompagna il nostro viaggio, saranno i segni degli smottamenti e delle frane seguiti ai nubifragi dei giorni scorsi e che ti dicono di un ecosistema reso più fragile dai cambiamenti climatici... ma tutto quel che vediamo ci parla della durezza del vivere.

Entriamo in una locanda che lungo la via si propone come “Comida Flor”, poco più che una baracca di legno e onduline di eternit con al centro un focolare carico di pentole a testimoniare che pure qualcosa bolle. Non ci aspettiamo niente di che e quel che ci offrono nei piatti rigorosamente di plastica ci conferma di una vita grama, di una povertà che non è solo di mezzi materiali.

Da un angolo della baracca un televisore trasmette in diretta la cronaca di una partita del campionato italiano di calcio, nomi noti che qui assumono un significato particolare, non dissimile da una telenovela che diventa sogno impossibile e desiderio di andarsene alla prima occasione.

Continua a piovere ed è ormai notte inoltrata quando sentiamo in lontananza la voce dell'oceano. Non siamo lontani dalla nostra meta, ma l'uragano che si è scatenato nella zona solo dieci giorni fa ha lasciato segni profondi nelle strade di terra battuta, rendendole pressoché inagibili. Ci tocca tornare indietro e provare un'altra strada un po' meno dissestata che riusciamo a superare a fatica.

“Salchi” è un villaggio ecologico realizzato da un gruppo di canadesi in una splendida insenatura sull'oceano pacifico, casette realizzate con buon gusto che vengono affittate a cifre ragionevoli ma seguendo regole precise per evitare un'impronta negativa sull'ecosistema locale. Ci sarebbe di che discutere, per la verità, ma se rapportate alle baie che nei giorni successivi incontreremo, segnate dalle multinazionali del turismo o dalla banalizzazione dei luoghi, questo villaggio è un piccolo paradiso. Il rumore del mare ci accompagnerà nel sonno che, messe da parte le difese, ci prende all'improvviso

Quando ci svegliamo di buon mattino, eccolo finalmente il grande oceano. E, di nuovo, colpisce la forza della natura. Le sue onde mettono a nudo la tua insignificanza. L'idea dell'uomo signore del mondo, malgrado il delirio che chiamiamo progresso, appare in tutta la sua arroganza e stupidità. Perfino la tua carnagione nel sole dei tropici ti fa sentire inadeguato, consigliando di accostarti con prudenza ad un luogo verso il quale noi europei abbiamo un debito non ancora elaborato, men che meno saldato. Anzi. I flussi della globalizzazione, il pensiero unico, le leggi del mercato, i suoi simboli, l'incapacità di fare i conti con la propria storia fanno il resto, esponendo queste comunità a forti processi di omologazione culturale e materiale. In fondo non molto diversi, in ogni parte del mondo.

Te ne accorgi nei mega centri turistici con le insegne della modernità, che hanno fatto piazza pulita dei precedenti insediamenti di pescatori e di contadini, ma anche nei villaggi lungo la costa a ridurre la natura a mercato ci hanno pensato le comunità locali con il proliferare del cemento e del cattivo gusto. Lo puoi vedere nei grandi magazzini, dove l'industrializzazione del cibo mette in un angolo (non solo in senso metaforico) il prodotto fresco e tutto il resto è plastica. Lo puoi osservare nel modo in cui alcuni giovani pescatori portano a riva il pesce, lo squartano, lo gettano sulla pesa e poi nel cassone di un pik-up senza alcuna traccia di quel rispetto che gli uomini di mare hanno sempre avuto verso le sue creature.

La cosa che prende alla gola è che tutto questo è avvenuto negli ultimi trenta o quarant'anni, in buona sostanza il tempo della mia generazione, uno spazio temporale insignificante sul piano della storia del pianeta, ma abbastanza per averne pregiudicato antichi equilibri e con essi l'amore per la bellezza e la sostenibilità. Richiederebbe un ritornare sui propri passi che non è dato e che appare alquanto improbabile. Perché significherebbe anteporre la cultura al denaro e la capacità di sottrarsi al dominio delle cose sull'uomo.

La natura e la cultura possono resistere, ma richiedono di un cambiamento, prima che sia troppo tardi. Dobbiamo credere nelle nuove generazioni che nonostante tutto ancora hanno voglia di studiare, di capire e di dire la loro. Come quelle comunità che in questo grande paese ancora esprimono la volontà di autogoverno. Come quei giovani che, a dispetto delle condizioni di grande difficoltà delle loro famiglie, hanno l'orgoglio di iscriversi all'Università e di provarci. Come quei 43 ragazzi che nel vicino stato di Guerrero sono stati assassinati per aver denunciato la corruzione e il crimine organizzato e come quella mano che a Oaxaca ha scritto su un muro queste parole “No solo nos faltan 43. Nos faltan huevos”1.

Insieme occorre un altro racconto, capace di far tesoro di quel che il Novecento – nel bene e nel male – ha prodotto. Elaborandone le vicende, i deliri, le speranze. E forse in questo la mia generazione potrebbe ancora essere utile.

 

1“Non solo ci mancano 43. Ci mancano i coglioni”

martedì, 3 novembre 2015Dia de muertos

Un diverso rapporto con la morte

Diario messicano. Seconda puntata

Città del Messico è probabilmente l'agglomerato urbano più grande del mondo. E ciò nonostante è una bella città. Non solo perché ricca di storia e di cultura, ma anche per tante altre cose che pure la sua dimensione non riesce a cancellare. Ogni volta che ho avuto la possibilità di visitarla e il privilegio di poterla conoscerla dall'interno, ne ho scoperto i suoi lati più affascinanti. Primo fra tutti quello di essere stata la prima grande città aperta all'asilo politico nel Novecento.

In questa occasione ci rimango solo poche ore, il tempo di riprendermi dal viaggio, e poi via in direzione di Oaxaca, regione sud occidentale di questo paese. Anche solo l'uscirne ci mostra alcune delle grandi contraddizioni di questa moderna megalopoli, l'immensa periferia, infinite città accalcate alla città, fatte di casupole di pochi metri quadrati dove la qualità del vivere è al limite del sopportabile. Dove le persone arrivano dai luoghi più sperduti alla ricerca di una speranza o semplicemente di uscire dall'esclusione estrema, per precipitare dentro un'alienazione forse ancor più profonda fatta di plastica, cibi scadenti, miti irraggiungibili, piccola criminalità. Eppure... ma su questo aspetto ci ritorno.

E poi spazi immensi, una luce che solo il Messico ti regala, il Popocatépetl1 che dai suoi 5.452 metri rumoreggia immerso nelle nuvole, la periferia di Puebla che sembra non finire mai (che con i suoi sei milioni di abitanti è solo la quinta città del paese), le grandi pianure coltivate, le aride colline bruciate dal sole (e da una siccità anche qui mai così dura), le spettacolari foreste di cactus ed infine Oaxaca, la capitale della regione del cacao, di un'immensa biodiversità studiata dai botanici di tutto il mondo (qui si sono scoperte oltre novecento diverse specie di felci), di antiche regole di autogoverno e infine di radicate tradizioni culturali. Una di queste il culto dei morti, diffuso in tutto il paese come eredità pre-ispanica ma qui particolarmente forte e festoso tanto da diventare una forma di attrazione turistica.

In questa bella città Carlos e Pano hanno deciso di trascorrere una parte della propria vita, tanto di costruirsi una bella casa dalle grandi vetrate e dove la luce di Oaxaca irrompe in tutta la sua irriverenza, quasi a fare da contraltare al culto dei morti. Questi nostri amici ci hanno invitato a tornare a Oaxaca proprio per farci conoscere la loro nuova dimora e per assistere alle manifestazioni che per tre giorni ogni anno affollano il centro e i luoghi di culto, le vie e le dimore dei defunti.

Ed eccolo esplodere “los Dia de Muertos”. Volti dipinti di ogni età, dame e signori elegantemente vestiti ma con la faccia mascherata o sapientemente disegnata con il volto della morte, cortei aperti dalle bande musicali che scortano le casse da morto che danzano con loro, bambinetti in maschera (e potete immaginare quali possano essere i soggetti). C'è anche qualche zucca di Halloween che mette fuori il naso come a voler ricondurre – omologandola – questa antica tradizione alla moda demenziale che sta prendendo piede un po' ovunque nel mondo.

Sì, perché a differenza del “dolcetto o scherzetto” questa manifestazione è, nella sua antica tradizione, qualcosa che non ha nulla a che fare con le streghe e i mostri che scendevano sulla terra a spaventare gli uomini, ma che al contrario intende riconciliare la vita con la morte invece di rimuoverla. Un rito di vicinanza, anche fisica.

Quando verso la mezzanotte fra il 30 ottobre e il primo novembre andiamo a Xoxocotlan (poco distante da Oaxaca) la scena che si para davanti ai nostri occhi è qualcosa di mai visto: intere famiglie intorno al luogo di sepoltura dei propri cari ricoperto di fiori, lumini e cose da mangiare, qualche volta in silenzio, il più delle volte come seduti attorno ad un caminetto a conversare, in alcuni casi a cantare e ballare al suono di una piccola banda di ottoni. Anche qui persone con il volto dipinto o in costume ma, a differenza di quanto accade nel centro di Oaxaca, con la compostezza che si conviene all'avvicinarsi alle persone che ci hanno lasciato. Come a fargli compagnia, nel pensare un giorno di raggiungerli perché la morte è essa stessa parte della vita.

Colpisce vedere persone anziane e sole (evidentemente il senso allargato della famiglia che qui ancora tiene non sempre resiste ai processi della modernità e dell'emigrazione) sedute con la testa fra le mani o appisolate su un lato della lapide, quasi a farsi posto vicino al proprio caro.

Un conoscente di Carlos e Pano ci presenta tutta la sua famiglia e ci racconta come loro vivono los Dia de Muertos: nelle sue parole traspare una grande naturalezza. Penso a quanta distanza vi sia con le nostre feste di Ognissanti, spesso ridotte alla formalità di una lapide che deve “far bella figura” verso i vivi che non esprimere prossimità verso chi non c'è più.

Quando lasciamo Xoxocotlan sono quasi le due del mattino, il cielo stellato, la volta celeste la stessa sotto ogni latitudine.

1Si tratta del secondo grande vulcano attivo del paese che la gente chiama amichevolmente “Popo”, a circa 70 chilometri da Città del Messico