"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

« aprile 2016 | maggio 2016 | giugno 2016 »

giovedì, 19 maggio 2016Un momento della serata

Proprio una bella serata, mercoledì sera alla Locanda delle Tre Chiavi di Isera. Vista da questa parte del tavolo, la partecipazione e l'attenzione delle molte persone presenti, soprattutto giovani, attorno ad un tema complesso come quello affrontato attraverso il racconto sui confini e le migrazioni, nell'attualità di Idomeni e della “rotta balcanica” come nel prendere in esame il delirio nazionalistico che ha attraversato il Novecento e mai davvero elaborato tanto da ritrovarci oggi fra nuovi confini e filo spinato, ci dice di quanto bisogno ci sia di testimonianza come di visione.

Di fronte alle derive securitarie e xenofobe in buona parte di Europa, forse è proprio necessario ripartire da qui, dalla testimonianza della sofferenza lungo le frontiere di un vecchio continente che ha smarrito la memoria di sé e che proprio per questo si vive solo al presente, chiuso nella difesa egoistica di uno status insostenibile e dunque senza futuro.

Testimonianza e visione che emergevano nel video realizzato al confine fra Grecia e Macedonia dalla giovane giornalista Elisa Dossi nel documentare le condizioni di vita di migliaia di persone costrette nel fango, nel freddo e nel triste prendere atto del carattere escludente di questa Europa, come nello sguardo che ho cercato di proporre su un presente che non riesce a far tesoro della storia, nelle sue tragedie come nelle straordinarie prerogative che gli attraversamenti hanno portato con sé, parte spesso inconsapevole di identità vissute in sottrazione.

Certo. Di fronte alle tragedie possiamo far finta di niente, volgendo il nostro sguardo altrove. Così come possiamo decidere di non sapere che ciascuno di noi, suo malgrado, è il prodotto dell'incontro (e del conflitto) che lungo la storia ha forgiato saperi ed identità. Ma questa è la strada che ci porta dritti dritti alla guerra, a quel sentirci in guerra verso il nostro prossimo che è la condizione di questo tempo.

C'è anche dell'altro. L'emozione delle immagini e l'attenzione verso il racconto, accanto ad una partecipazione che ci parla di una comunità di giovani che non si accontenta dei talk show televisivi, mi colpisce positivamente, confermandomi nella scelta di dedicare una parte importante del mio tempo alla formazione politica.

Sì, perché nella domanda che è emersa con forza nel corso della serata – “ma noi, che cosa possiamo fare?” – c'è proprio l'espressione di un bisogno di essere presenti in questo passaggio di tempo tanto complesso, insieme consapevole e motivato sul piano dell'agire. Non il “fare” purchessia, tipico invece di un presente deprivato del pensiero, ma un agire esigente e collettivo (e per ciò stesso politico) che intende andare alle radici dell'esclusione.

E c'è in tutto questo anche l'emozione che mi prende sul senso del proprio agire, ritornando con il pensiero a quando nel novembre del 2012 demmo vita ad una piccola scuola di formazione politica rivolta ai giovani di Villalagarina. Rivedo qui alcuni dei partecipanti di allora, ora protagonisti – chi in consiglio comunale, chi nell'associazionismo – della propria comunità, come il “tavolo giovani della Destra Adige” e l'associazione “Social Catena”, protagonisti di questa serie molto partecipata di incontri.

Quel che possiamo fare...

lunedì, 2 maggio 2016alambicco-arabo

Montagne da attraversare

Si è svolto sabato pomeriggio, nella cornice del Film Festival della Montagna, un incontro dal titolo “Montagne accoglienti?” al quale hanno partecipato Marcella Morandini (Fondazione Dolomiti Unesco), Roberto Keller (Keller Editore), Vincenzo Manco (presidente nazionale della Uisp). Proprio la sezioni trentina dell'Unione Italiana Sport per tutti si è fatta promotrice di “Passi. Montagne da attraversare”, una passeggiata interculturale tra suoni, parole e pensieri chje ha avuto come focus il rapporto fra la montagna e il migrare. Ho avuto il piacere di introdurre e moderare l'incontro, proponendo una breve riflessione che qui vi propongo.

 

I luoghi dell'attraversamento, nella storia (che è in primo luogo storia di migrazioni), sono stati i mari, le montagne, talvolta i deserti e le pianure inospitali. Le ragioni del migrare molteplici, in genere la ricerca di migliorare le proprie aspettative di vita. Migranti economici, si potrebbe dire, per qualcuno clandestini.

Dobbiamo molto agli attraversamenti. Sono stati il tramite della conoscenza, del sapere, degli scambi, anche del dolore. Ma soprattutto della conoscenza e della speranza.

Visto lo spazio in cui siamo (Montagna Libri) vorrei ricordare lo straordinario affresco di cui ci ha fatto dono l'amico Predrag Matvejević con il suo “Breviario Mediterraneo” al quale va il mio saluto affettuoso in un passaggio difficile della sua vita, ricordando che proprio in queste settimane è stato promosso un appello internazionale affinché gli sia riconosciuto proprio grazie a quest'opera il Premio Nobel per la letteratura. Potremmo definire questo libro proprio la storia dell'attraversamento nella moltitudine di racconti che hanno reso il Mediterraneo uno spazio comune alle sue genti, non il luogo di morte che oggi è diventato.

E penso all'influenza che ha avuto l'età dell'oro del mondo arabo sul nostro sapere descritta mirabilmente da Maria Rosa Menocal nel suo “Principi, poeti e visi”. Grazie al “movimento di traduzione” nato a Damasco nel VII secolo, proseguito a Baghdad e in Andalusia (non dimentichiamo che Cordoba nell'anno mille era la più grande città europea) è arrivata a noi la filosofia greca, la matematica, l'alchimia, l'astronomia... Che cos'era Sarajevo prima che la mettessero a ferro e fuoco per cancellarne l'anima? Verso quella parte del Mediterraneo o dell'Europa oggi si guarda con diffidenza, annebbiati dall'insana idea di uno “scontro di civiltà” che in realtà rappresenta l'ossimoro del nostro tempo.

Forse perché ci portiamo appresso la pesante eredità del novecento, la cui mancata elaborazione ci fa vivere con inquietudine un tempo nuovo nel quale riappaiono gli incubi di quello precedente. Che non è stato solo il secolo degli assassini ma anche del delirio degli stati nazionali. Così sono diventati confini luoghi che mai lo erano stati, sono apparsi muri, filo spinato, sistemi concentrazionari in nome della superiorità di una nazione o di una razza o del controllo coloniale. Dividendo territori dove si parlavano le stesse lingue nel tentativo, talvolta riuscito, di cancellare la storia e l'esito degli attraversamenti (pensiamo alla lingua franca del Mediterraneo, parlata per almeno cinque secoli e poi scomparsa).

Muri materiali ma anche muri invisibili, altrettanto insidiosi, come il reato di clandestinità, esseri umani clandestini al mondo. Analogamente, l'idea di dividere l'umanità fra inclusi ed esclusi, nel nome di stili di vita considerati “non negoziabili”. Nel fallimento delle grandi utopie, la fine dell'umanesimo.

E quando la speranza nel superamento degli odiosi confini del nazionalismo novecentesco sembrava ormai più vicina, ecco riapparire sulle nostre montagne le recinzioni metalliche, per dire chi ha diritto e chi no. Così oggi le persone si vivono in sottrazione, s'invoca il diritto naturale (del più forte, ovviamente) e si assiste indifferenti ad un'umanità stipata nelle carrette del mare o nei cassoni dei Tir, alla rinascita dei campi di concentramento, al traffico e alle nuove schiavitù, all'emarginazione nelle nostre periferie.

In nome del consenso e della paura, il veleno che ci fa smarrire il valore dell'attraversamento. Eppure si tratta della nostra storia, anche fra queste montagne. O forse ci siamo dimenticati che a Moena, nel cuore delle Dolomiti, c'è un quartiere che si chiama Turchia? Che la parola “bait” che nel nostro dialetto vuol dire baita di montagna viene dall'arabo e vuol dire casa (Bait al Hikma, si diceva a Baghdad per indicare la “Casa della saggezza”)? Che la parola alambicco, tanto famigliare nella nostra tradizione locale di produttori di grappa, viene dall'arabo al-inbiq?

Dovremmo riscoprire la nostra storia, la bellezza, il valore della conoscenza, senza le quali le nostre stesse identità rinsecchiscono e muoiono.