"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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domenica, 11 giugno 2017Paraloup

L'alta Val di Susa e il turismo industriale

Parto dalla fine. Il secondo dei nostri itinerari (2/5 giugno 2017), dedicato in questo caso alle "terre alte alpine", si conclude a Sauze di Cesana, comune occitano di poco più di duecento residenti nell'alta Val di Susa.

E' difficile per il sindaco Maurizio Beria di Argentina togliersi di dosso l'immagine ingombrante del Sestriere che incombe ad una manciata di chilometri, emblema di un modello turistico industriale nato negli anni '30 del secolo scorso ma che non ha mai cessato di proporsi nella sua insopportabile insostenibilità, comprese le strutture delle Olimpiadi invernali del 2006.

Quello è il modello dominante. E così dominante che lo sforzo di smarcarsi, di proporre un'idea diversa fondata sulla valorizzazione del territorio e della sua unicità che pure avvertiamo nelle parole del sindaco, fatica a trovare seguito ed ascolto, anche perché quel modello ancora nonostante tutto continua ad attrarre. E così fra elicotteri, gioco e champagne migliaia di persone nei mesi della neve (vera, sempre di meno; artificiale, sempre di più) arrivano in cima a queste montagne ad esibire denaro e pellicce, volgarità ed arroganza.

Capiamo quanto sia difficile uscire dal tunnel. Perché se è ovunque laborioso fare sistema territoriale, qui sembra un'impresa ancora più ardua. E che qualcuno provi a giocarla è dunque più che meritevole, se non altro per salvaguardare un'identità svanita nello spaesamento dei grandi resort e dei condomini del delirio fabbricato che Giovanni Agnelli (il capostipite) aveva immaginato nelle stazioni sciistiche alpine già cent'anni fa.

La stazione sciistica del Sestriere è una colata di cemento che, a confronto, le nostre Fassalaurina e Marilleva sembrano sciocchezze. Non so descrivere la sensazione di stupore (o di rabbia) che mi prende nel vedere dove può arrivare l'uomo nella sua ossessione di dominio verso la natura.

Conosco le devastazioni della guerra, quell'odore di marcio che ti rimaneva addosso nell'immediato dopoguerra bosniaco. Ho visto con i miei occhi la violenza dell'abbattimento di olivi millenari ad opera di giovanotti israeliani armati dalla testa ai piedi per recidere le radici (e la dignità) alle famiglie palestinesi che da sempre vivevano su quella terra. Vediamo ormai quotidianamente le carrette del mare gettare via fra l'indifferenza generale le speranze di vita che vi rimanevano aggrappate, facendo del Mediterraneo un immenso cimitero.

Ma qui, nelle montagne che hanno fatto la storia dell'alpinismo italiano, avverto un'analoga sensazione di smarrimento provata lungo le faglie dolorose della postmodernità. Penso alla sacralità di questi luoghi, violentati nella loro essenza da parte di chi ne aveva intravisto l'ennesima occasione di arricchimento. Il delirio che abbiamo chiamato progresso e del quale ancora non riusciamo a liberarci.

E' un'eredità pesante. Dovremmo almeno risponderne... ma nessuno lo farà. In un giorno “fuori stagione”, quel che di animato si aggira fra questi totem deliranti probabilmente nemmeno ci fa caso, tanto il proprio immaginario è devastato. Un lavoro come un altro. E poi qui ci vengono quelli con i soldi, il segno del tempo è l'invidia, non dico la lotta di classe ma nemmeno la sensibilità verso il bello.

Mi viene da pensare che di fronte a una così pacchiana oscenità il turismo qui sia in crisi, ma Maurizio Dematteis che ci accompagna lungo questa valle ci dice che non è affatto così, che chi viene qui, da Milano o da Mosca che sia, ama questo parco giochi surreale.

Un'eredità difficile da scrollarsi di dosso perché almeno nell'immediato l'effetto sgocciolamento ricade anche sulle comunità circostanti: parlarne troppo male sarebbe come darsi la zappa sui piedi. Il meccanismo lo conosciamo bene anche nelle nostre Dolomiti. Richiederebbe un cambiamento di pensiero, che qui è forse più complicato che altrove.

Paraloup, la scuola del ritorno

Nel nostro viaggio attraverso le terre alte alpine c'è anche un'altra montagna che ha subito l'effetto opposto, quello dell'abbandono. Migliaia di antichi borghi dai quali negli anni del boom economico le famiglie se ne sono andate, per la durezza del viverci e per l'attrazione verso una modernità plastificata.

Uno di questi lo andiamo a visitare. Paraloup è un borgo di poche case nel comune di Rittana, nell'omonima valle in provincia di Cuneo. E che grazie ad un progetto della Fondazione Nuto Revelli e dell'amministrazione comunale ma anche alla caparbietà di alcuni giovani che hanno fatto una scelta professionale e di vita che li ha portati sin qui, in questo luogo a millequattrocento metri sta rinascendo. Paraloup non è peraltro un luogo qualsiasi, se così si può dire, considerato il suo valore storico: nacque qui il primo nucleo della resistenza partigiana al nazifascismo.

La ricostruzione del borgo non ha però solo ragioni riconducibili alla memoria della resistenza. C'è un'altra memoria, quella della vita della montagna, che oggi sta prendendo corpo nella “Scuola del ritorno”. Senza alcuna retorica antimoderna, ma nell'immaginare un diverso rapporto con il lavoro, con la natura e, perché no?, con se stessi.

Di tutto questo parliamo con l'amico Marco Revelli (scrittore, saggista e figlio di Nuto Revelli), con il sindaco di Rittana Walter Cesana, con Luca, Sara e gli altri ragazzi che hanno dato vita alla Rete del ritorno.

La strada per arrivare al rifugio è malandata, ma qui ogni cosa diviene problematica e richiederebbe un surplus di attenzione da parte delle istituzioni che però sono prive di risorse e di autonomia, oppure lontane. Persino far arrivare la luce elettrica – ci raccontano – è stato problematico. Per le società per azioni che gestiscono i servizi contano i numeri, se non ci sono non c'è convenienza.

Il borgo è stato ricostruito con l'attenzione di lasciare ben visibili i segni della storia e anche dell'abbandono. A partire dai ruderi, infatti, le case hanno ripreso forma architettonica con un sapiente uso della pietra e del legno di castagno. E in una di queste case si svolge la nostra gradevole e intensa conversazione perché qui il cambio di paradigma di cui andiamo parlando appare in tutta la sua straordinaria potenzialità.

Mi colpisce l'emozione (quasi lo stupore) del Sindaco per il fatto stesso che veniamo da così lontano per ascoltare la loro voce e la loro esperienza, laddove la politica non ha occhi e sensibilità per la loro fatica. Figuriamoci pensieri.

E' una bella domenica di sole e il terrazzo del rifugio è affollato di persone. Un'altra montagna è possibile e anche il pranzo che Luca ha preparato saltando fra il nostro incontro e la cucina risponde in pieno alla sensibilità per le cose che hanno valore. Così anche le scelte che potrebbero apparire impossibili diventano sostenibili.

L'eredità olivettiana

Se c'è una città che parla più di altre dell'importanza di cambiare i paradigmi di riferimento questa è Ivrea. Qui ci attende il Sindaco Carlo Della Pepa che per prima cosa ci accompagna a visitare il Laboratorio - Museo Tecnologicamente, il racconto della vicenda industriale (e non solo) della Olivetti.

Perché questa storia rappresenta qualcosa di più di un'impresa, una sperimentazione insieme industriale, sociale, urbanistica e culturale che ha segnato la città e il territorio circostante. E, insieme, un pensiero laterale fra i più importanti del nostro Novecento. Una ricchezza che però fatica a diventare patrimonio collettivo.

Nel fare visita all'Archivio Storico Olivetti veniamo accolti da un nutrito gruppo di persone che della vicenda olivettiana sono stati insieme protagonisti e testimoni. Hanno visitato il blog del nostro viaggio e sono incuriositi da questo percorso che associa parole come solitudine e politica. La familiarità con cui ci accolgono ha forse qualcosa a che vedere con quell'abitare sul crinale della ricerca ma fors'anche con la condizione della solitudine.

Quella che vediamo attraverso le macchine, i manifesti, le riviste e le case editrici del progetto comunitario di Adriano Olivetti è qualcosa che in qualche modo ha a che fare anche con le nostre storie individuali. Le vecchie macchine da scrivere che vedevo da ragazzino nello studio del notaio Calliari dove lavorava mia zia Enrichetta, i primi rudimentali calcolatori meccanici, le “Lettera 22” con cui incidevamo le prime matrici di plastica con cui stampavamo volantini spesso illeggibili, le macchine elettriche degli anni '80 con cui si preparavano le matrici elettroniche, i primi computer M20 con i floppy di cartoncino plastificato, la rivoluzione informatica degli anni successivi.

Che non si limitava a tradurre l'ingegno umano in macchine sempre più rivoluzionarie ma che si interrogava sulla condizione operaia, sul welfare e sull'abitare, sul tempo libero e sul sapere, fino a toccare la frontiera della proprietà e del potere. Quel disegno venne spezzato con la morte di Adriano Olivetti nel 1960, nel pieno di uno scontro con le grandi industrie nordamericane meno innovative ma finanziariamente e politicamente più forti.

Una vicenda, quella del pensiero olivettiano, che aveva a che fare con quel filone di ricerca rappresentato dall'azionismo politico e da "Giustizia e Libertà", guardato con sospetto dalle principali vulgate politiche che, infatti, la condannarono alla marginalità. Sui muri dell'Archivio vediamo i manifesti degli incontri in azienda con Altiero Spinelli, Eugenio Montale, Eduardo De Filippo... negli scaffali le pubblicazioni delle Edizioni di Comunità che coraggiosamente riprendevano i pensieri di Theodor Adorno e di Karl Jaspers, di Norberto Bobbio e di Jacques Maritain, di Simone Weil e di Emile Durkheim. E successivamente le opere di Max Weber e di Hannah Arendt.

Qui ci sarebbe da scrivere un'altra storia politica, se solo una comunità sapesse pulsare con questa straordinaria eredità, per farne un luogo di elaborazione che va oltre i confini di una città, di una regione e di un paese. Invece è come se avessimo a che fare con un'eredità confinata. Ne parliamo a cena con il Sindaco di Ivrea. Chissà se ne verrà qualcosa di interessante...

A pensarci, Ivrea è a pochi di chilometri da Torino, ma le storie delle famiglie industriali di queste città andavano in direzioni radicalmente diverse, il profitto e la comunità. Anche nel rapporto fra città e territorio, fra città e montagna, le strade erano diverse. Per quella che prevalse, scempio e abbandono erano facce della stessa medaglia.

Edolo, l'Università della Montagna

Il rapporto fra città e montagna è dunque il motivo forte di questo secondo itinerario. Lo abbiamo iniziato a Edolo, in Val Camonica. A far bene, forse lo avremmo dovuto iniziare al Tonale, perché anche qui, al confine fra Trentino e Lombardia, quello scarto di pensiero fra diversi modelli di sviluppo appare evidente. I condomini del Tonale e quelli del Sestriere – pur con le dovute proporzioni – non sono poi così diversi. Qui segnano certamente un tempo che ha lasciato le sue tracce inguardabili (che andrebbero abbattute), ma l'approccio con cui ancora ci si rapporta alla montagna non è poi tanto dissimile, fatto di rendita, facile profitto, nessuna attenzione per la natura dei luoghi, omologazione.

Fra il Tonale e l'Aprica, Edolo è una cittadina che prova un'altra strada. O almeno così mi piace pensare visto che qui è nata qualche anno fa, in collaborazione con l'Università di Milano, una scuola per ripensare l'approccio verso la montagna. E' Unimont, l'Università della Montagna diretta da Anna Giorgi, che ogni anno sforna qualche centinaio di laureati in “Valorizzazione e tutela dell'ambiente e del territorio montano” (http://www.valmont.unimi.it/italiano/home.html). Una scuola che si prefigge la formazione di nuove figure professionali per rilanciare «attività agro-forestali, zootecnia di qualità, produzioni artigianali, protezione dell'ambiente, turismo in un contesto in grado di garantire una migliore qualità di vita per chi volesse operare in tali settori».

Non riusciamo, come invece era nelle nostre intenzioni, ad avere il collegamento con Anna, impegnata a Monaco (recupereremo a breve con un'intervista dedicata), ma la conversazione che si sviluppa fra noi, Sergio Remi del Consorzio Aaster e Patrizio Mazzucchelli, produttore locale della Valtellina che proprio qui a Unimont si è formato, rappresenta uno stimolante preludio di questo itinerario. E, a ripensarci ora che questo viaggio è alle nostre spalle, anche una buona sintesi di quel che ne verrà, fra l'ottimismo di vedere come questi argomenti trovano sempre maggiore cittadinanza e il pessimismo con cui misuriamo la distanza della politica da un nuovo approccio insieme territoriale e sovranazionale. Fra l'attenzione verso le filiere e le contromisure per saltarle. Fra il riconoscere le aree interne e la spending review che non si fa carico delle condizioni di maggiore difficoltà che le comunità montane si trovano ad affrontare.

Via dalla città

Se mancano le competenze, informazioni e conoscenza come ci dice a Milano Filippo Tantillo (che del programma “Aree interne” è coordinatore), è difficile andare oltre una sorta di sindacalismo rivendicativo di territori ancora chiusi nei paradigmi del passato. Perché quel che viene dal basso e dall'alto molto spesso si assomigliano. Così le rivendicazioni dei territori si riducono alla richiesta di deroghe. Anche questo vuoto è solitudine.

Siamo scesi a Milano, anche se l'ambientazione del nostro incontro è la dimensione rurale di una vecchia cascina nel cuore della città. Alla “Cuccagna” (www.cuccagna.org) il rischio è che la fatica della montagna non venga percepito, anche se il nostro dialogo si arricchisce di nuove voci a testimonianza che siamo nel mezzo della contraddizione. Visto da qui mi sembra che il pessimismo non possa che prevalere. “Via dalla città” – oltre ad essere il titolo del bel libro di Maurizio Dematteis – è anche una sorta di spostamento di sguardo, un riposizionamento senza il quale l'insostenibilità diventerà rancore, una clava contro chi ci insidia nelle nostre sicurezze.

E' quel che facciamo dopo aver avuto conferma che nella città tutto è fuori di "misura", insostenibile. Anche un piatto di pasta. Ci aspetta un rifugio alpino nel cuneese, dove tutto è più faticoso ma dove c'è qualcuno che questa "misura" prova a ricercarla.