"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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martedì, 1 dicembre 2020da forzazzurri.net

Era la metà degli anni '60, il mio idolo calcistico era “el Cabezon”. Per noi ragazzini di strada il pallone rappresentava buona parte della giornata. Si giocava ovunque: bastava uno spiazzo, una stradina interna alle case, un vicolo non trafficato. E un muro, sul quale disegnare una porta immaginaria. Quando non c'era bastavano le nostre cose ammucchiate per indicarla. Anche il pallone era spesso piuttosto immaginario, considerando che ci si adattava di volta in volta ad un grosso gomitolo di stracci o ad una palla di plastica talvolta mezza sgonfia. Quello di cuoio era un lusso e chi lo possedeva era gioco forza della partita, compreso il sopruso di metterselo sotto braccio e lasciare tutti gli altri con un forte senso di frustrazione. Ma questo accadeva solo di rado, quando arrivava qualcuno che aveva poca dimestichezza con la strada e con le sue leggi non scritte (Enzo Jannacci ci direbbe che “la legge l'era de dài via, ma l'era anca quella de ciapànn”1). In realtà, anche di palloni di cuoio ce n'erano di diversi tipi e quelli che toccavano a noi assumevano le forme più strane a seconda della tenuta delle cuciture da cui talvolta usciva come uno sbuffo la camera d'aria.

Per chi frequentava l'oratorio era tutto un po' più facile, per quanto anche lì i campetti da calcio fossero nella migliore delle ipotesi in terra battuta, più frequentemente di cemento o asfaltati in nome dell'incombente modernità. In genere però nelle parrocchie il pallone era garantito e le partite di calcetto costavano solo 10 lire.

Ma per chi come noi aveva fretta di crescere e alla parrocchia preferiva la strada e il bar, quei campetti li si frequentava solo quando si andava, per così dire, in trasferta. Avevamo anche noi la nostra “bombonera”, era il campetto di Gocciadoro non lontano dalla vecchia gabbia degli orsi, un campo vero e proprio che cambiava a seconda della stagione, passando dal fango alla terra cretosa, senza escludere d'inverno la neve. Nella buona stagione c'era per la verità anche qualche ciuffo d'erba ma in compenso aveva una sola porta costituita da tre pali di legno.

Ognuno di noi aveva i suoi idoli, che spesso diventavano anche i nostri soprannomi che si alternavano ad altri un po' più volgari o irridenti. Il mio calciatore preferito era Omar Sivori e quando “el Cabezon” argentino passò dalla Juventus al Napoli, il mio cuore calcistico diventò partenopeo. Tutti i miei amici facevano il tifo per la Juve, il Milan o l'Inter, qualcuno per la Fiorentina. Avevo undici anni, la maglietta e i calzettoni azzurri del Napoli e così cominciai ad andare contro corrente.

Niente di ideologico, s'intende. Di Napoli sapevo poco o nulla e nei luoghi “diversamente educativi” che frequentavamo (essenzialmente i bar dell'allora periferia a sud di Trento) s'imparava più che altro a sopravvivere, a giocare a carte o a biliardo, oppure alle prime diavolerie meccaniche (i flipper o le macchine con il braccio meccanico per recuperare i pacchetti di sigarette che rivendevamo al tabacchino del Fausto). Nel ricordare con affetto l'incredibile spoon river del bar “al pont” (lontanissimo parente dell'attuale bar-gelateria di ponte Cavalleggeri) penso che in quel marasma di sentimenti che ci avrebbero potuto portare in ogni direzione ci fosse già allora qualcosa di istintivo che mi teneva lontano dall'ipocrisia e che mi avrebbe orientato nelle scelte successive.

Sivori, come dicevo, era soprannominato “el Cabezon” non solo per la sua testa di capelli neri ma anche per il suo carattere da scugnizzo irriverente come il suo tunnel proverbiale. Fu naturale l'entusiasmo con cui venne accolto a Napoli, quasi una prova generale di quel che sarebbe accaduto vent'anni più tardi con un altro argentino. E sempre nel 1965 arrivò al Napoli un altro asso sudamericano, Josè Altafini (quello del golaço) formando così la coppia delle meraviglie che porterà il Napoli ad un passo dallo scudetto.

Quel mondo finì, ma non la mia vicinanza al Napoli e, con il tempo, a quella città che in particolare negli anni '80 ho imparato a conoscere più da vicino, ogniqualvolta mi capitava di andarci per le riunioni nella vecchia sede di DP in via Stella, nel rione Sanità. Erano proprio gli anni in cui un altro argentino che veniva dai quartieri poveri di Buenos Aires giunse a Napoli. “Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires”, disseE, sin dal primo istante, in quello stadio pieno all'inverosimile in cui sessantamila persone pagarono mille lire solo per vedere Diego Armando Maradona – si adottarono.

Quegli anni coincisero con la rinascita politica di una città che, non va dimenticato, nel secondo dopoguerra era stata governata prima dal Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica di Achille Lauro e successivamente dalla DC. Una rinascita che univa Napoli e la sua squadra di calcio, in un percorso sociale e culturale collettivo dove spiccavano la voce e la chitarra di Roberto Murolo, l'onda infinita del teatro di Eduardo, la poesia e la musica di Pino Daniele, la genialità di Massimo Troisi.

In quel fervore Napoli approdò al primo scudetto del 1987 (seguito dal secondo nel 1990). Inutile dire che Maradona era il collante di quella squadra, il capitano e l'amico. Per la città qualcosa di più: come ha scritto in questi giorni l'amico Giovanni Russo Spena, era gioia e riscatto. Ne parlavamo spesso con Giovanni, napoletano doc, negli anni in cui lavoravamo fianco a fianco in via Farini a Roma, nel commentare la domenica calcistica. La gioia nell'assistere ai giochi di prestigio di Diego col pallone, il riconoscimento se penso a ciò che rappresentò per i migranti italiani in Germania quella partita di Stoccarda quando nel 1988 il Napoli vinse la Coppa Uefa. Come mi ha scritto Antonio Colangelo in questi giorni: “Già allora, nella mia mente di bambino non si trattava di orgoglio nazionale e di mero tifo calcistico ma di qualcosa di più: un risarcimento parziale certo, ma già profondamente simbolico della vita conculcata e offesa. Di ciò, di questo "investimento" pre-politico, sarò sempre grato alla più sgraziata delle mani de Dios”.

Poi, anche quella stagione magica ebbe fine. “Maradona è stato il sogno che si può realizzare” ha scritto Roberto Saviano. Quel che rimase fu però un sogno infranto dalle umane miserie e che ha preso le forme del mito, che il tempo ingigantisce e gli uomini trasformano in fede. Che, fra parentesi, la camorra sa come gestire.

Napoli è rimasta nel cuore e ci torno sempre volentieri. Anche il Napoli, tanto che ogni tanto mi capita ancora di andare con l'amico Antonio in qualche bar di periferia di Trento dove si radunano i tifosi per assistere in diretta ad una partita del Napoli ed è ancora come un tempo, quello di essere l'unico “polentone” tifoso napoletano.

Non voglio in queste righe né unirmi all'idolatria di queste ore, né dividere in maniera moralistica il genio calcistico da una vita di eccessi e di sregolatezza. Maradona era così, luci e ombre, come in fondo lo siamo tutti, come lo è ciascuno di noi. Come lo sono Buenos Aires o Napoli.

Credo in fondo che ognuno abbia gli idoli che si merita. Riflettono la cultura del tempo e del luogo, il bisogno di riferimento nella solitudine degli individui. Nel caso di Maradona, il suo essere figlio delle periferie, il suo carattere ribelle, il suo identificarsi come eroe popolare.

Delizia certo. Anch'io in queste ore mi sono emozionato nel rivedere le straordinarie giocate come la bellezza un po' malinconica del sorriso di Diego. Ma anche croce, perché in ognuno di questi caratteri alberga una dismisura. Che, come scrive Albert Camus, non è santità ma una vertigine di onnipotenza che dovremmo saper gestire e contenere. “Imparare a vivere, a morire e, per essere uomo, rifiutare di essere dio”2. (m.n.)

1Enzo Jannacci, El me indiriss. Quelli che... 1975 (per ascoltarla https://youtu.be/hgxYWK2kxqU)

2Albert Camus, L'uomo in rivolta. Bompiani, 1994