"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

27/06/2013 -
Il diario di Michele Nardelli
Una manifestazione operaia degli anni \'70 a Trento. In primo piano Claudio Scaffia, Ugo Panza, Giuseppe Mattei, Enzo Fronti

In serata arriva la notizia che la Whirlpool di Spini di Gardolo chiude. Quattrocentosessantotto lavoratori rimangono senza lavoro per effetto delle scelte della multinazionale di spostare le lavorazioni di Trento nello stabilimento di Varese e in Polonia.

Finisce così, salvo improbabili ripensamenti, una storia iniziata con l'insediamento della Ignis negli anni '60, la tradizionale fabbrica di elettrodomestici che diede lavoro a molte persone (con una punta massima di oltre millecinquecento dipendenti) gran parte delle quali, fino a quel punto, addette all'agricoltura. Li chiamavamo i metalmezzadri, perché molti di loro, finito il lavoro in fabbrica, si dedicavano alla precedente attività nei campi. Rappresentò uno dei maggiori nuovi insediamenti industriali in quegli anni di grandi cambiamenti per il Trentino.

Con la Michelin e la Grundig, la Ignis (poi Iret e in seguito Whirlpool) rappresentava una delle più grandi concentrazioni di manodopera del Trentino. Ovviamente questo portava con sé anche sensibilità e coscienza sociale: i giovani operai e le giovani operaie della Ignis erano alla testa delle lotte sindacali e politiche di quegli anni e quando i fascisti si presentarono in fabbrica per costruire il loro sindacato (la Cisnal) la tensione fu altissima e culminò con i fatti del 30 luglio 1970 quando alcuni
esponenti del MSI presentatisi davanti alla fabbrica accoltellarono tre operai: due sindacalisti della Cisnal vennero scortati da un corteo di operai fino a Trento con un cartello al collo con la scritta «Siamo fascisti. Oggi abbiamo accoltellato tre operai. Questa è la nostra politica pro operaia».

Ho una piccola storia personale che s'intreccia con la Iret. Nel 1972, finite le scuole superiori, mi iscrissi all'ufficio di collocamento e in quel periodo l'azienda aveva bisogno di ottanta nuovi lavoratori. Fra quelli in graduatoria c'ero anch'io, intenzionato a rendermi indipendente dalla mia famiglia. Feci la visita medica e il colloquio con il capo del personale Martinelli, non ero certo di debole costituzione né esplicai il mio (ancora acerbo) pensiero politico, ma ciò nonostante su ottanta persone fui l'unico a non venire assunto. Avevo diciotto anni ma, evidentemente, ero già segnalato e non ci fu niente da fare. Anche per un lavoro in fabbrica per me non c'era posto. Vecchie storie, che comunque lasciarono il segno.

Ora la vicenda di quello stabilimento sembra concludersi, nonostante tutte le agevolazioni che la PAT ha posto in essere nel corso degli anni per garantire il mantenimento di quell'insediamento industriale. E' così che accade quando la testa dell'azienda è altrove, gli interessi non riconducibili ad una comunità e la produzione è avulsa dal territorio. E' ancora così per una parte non trascurabile del nostro tessuto industriale. A rischio, dunque.

Perché la delocalizzazione delle produzioni laddove le condizioni sono più favorevoli al padronato è ormai un classico. Ne accenno nel mio intervento al Castello del Buonconsiglio in occasione di una delle manifestazioni nell'ambito delle tre giorni "L'Europa che non conosci". Perché accanto al fascino balcanico, le società postcomuniste hanno lasciato dietro di sé macerie su macerie, ivi compresa la totale de regolazione del lavoro e delle produzioni. In questo modo i paesi dell'est europeo sono diventati i luoghi per delocalizzare vecchi macchinari fuori norma, produzioni nocive, ma soprattutto attività produttive che hanno beneficiato e beneficiano di un costo del lavoro e condizioni di ricatto a dir poco favorevoli. Il caso più recente è quello della OMSA, che prima realizzava i propri manufatti in Emilia Romagna: nello stabilimento in Serbia gli stipendi non superano i 250 euro, i contratti di lavoro vengono rinnovati mese per mese, si assumono donne con figli perché più ricattabili.

In Polonia per la Whirlpool non sarà molto diverso. Così quasi cinquecento persone rischiano di finire sulla strada, in un contesto dove la PAT - nonostante sia proprietaria dei terreni e dei capannoni - vive una situazione difficile sotto il profilo della disponibilità finanziaria. In queste ore si attivano gli incontri e si studiano le possibili iniziative. Per cercare di far desistere la multinazionale americana dalle sue intenzioni, in primo luogo, e per immaginare una produzione alternativa. Il ciclo del freddo potrebbe non essere estraneo al nostro territorio ma da qui a raggiungere l'autosostenibilità il passo non è né semplice, né breve. Tutto questo ci racconta dell'urgenza di una nuova politica industriale capace di intrecciarsi (e valorizzare) con le vocazioni del nostro territorio.

 

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