"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

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Il paesaggio mancante *
Michelangelo Pistoletto, Terzo paradiso – Trincea della pace, Arte sella.

di Ugo Morelli

 

Il paesaggio corpo

Quali effetti inattesi può generare la mancanza! Uno si ritrova in contatti sociali deprivati per la pandemia ed ecco che fa scoperte inaudite.

Prima di tutto ha tempo per riflettere. All’inizio ha un effetto di vertigine, si sente spaesato. Poi è forse proprio quello spaesamento che diventa produttivo.

Del resto, se non ci si spaesa è difficile riconoscere il paesaggio. Non lo sappiamo, ma è probabile che è quando lo tiri per un momento fuori che il pesce si accorge dell’acqua.

Allora un’intera stratificazione di paesaggi, come matrioske, si propone, con la pandemia. A cominciare dal paesaggio corpo.

Ci accorgiamo delle mani: non possiamo usarle liberamente; dalla loro centralità nelle nostre vite e nella nostra evoluzione, una centralità tacita e addirittura scontata, diventano fonte di rischio e pericolo: per toccare gli altri e le cose e per toccare persino se stessi. Le guardiamo e le sentiamo con una certa diffidenza. Averle rimane indispensabile ma è anche preoccupante. Ce ne dobbiamo prendere cura più del solito e persino il vecchio monito del galateo diventa una disposizione sanitaria e normativa: lavarsi e disinfettarsi le mani continuamente. Scoprendo che non basterà mai: dopo averle lavate bisogna chiudere il rubinetto! Poi bisogna aprire la porta del bagno con la maniglia, e poi…e poi… Quella che era un’indicazione di buona educazione, salutare stringendo la mano all’altro, è divenuta un’offesa da untori, da superficiali irresponsabili che non si curano del rischio di contagiare un altro. Per non parlare del respiro, altro atto costante e necessario per vivere, e dato altrettanto per scontato. Ci accorgiamo della sua importanza per vivere perché sentiamo di rischiare ad ogni inspirazione e di mettere a rischio gli altri ad ogni espirazione. E vogliamo parlare delle labbra e di un bacio?! Il paesaggio corpo si presenta a noi come se fosse la prima volta che lo viviamo.

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Pensare e agire altrimenti
Inverno 2020

di Federico Zappini *

 

Agitu è morta.

Tutto intorno la montagna buia d’inverno, ancora più silenziosa sotto la spessa coltre di neve fresca e dentro un tempo che al distanziamento ci ha drammaticamente abituati. Ci sentiamo – inutile negarlo – disorientati come nel bosco fitto nel bel mezzo di una bufera. Persa un’esperta e attenta compagna di viaggio, una guida per molti versi, le tracce del sentiero per attraversare la selva si fanno meno chiare. Il nostro passo è incerto, il pensiero confuso, la vista sfocata.

Agitu è stata uccisa.

Spaesati ci troviamo a fare i conti con un atto brutale che interrompe il flusso denso e multiforme di un’esistenza, quella di Agitu, posta nel mezzo di una costellazione composita di centinaia di uomini e donne, attivate e partecipi dentro un campo energetico che in lei aveva il fulcro più vitale e contagioso.

Spazi interrotti.

Si è incrinato uno spazio di possibilità che aveva nell’ibridazione – culturale e imprenditoriale, di genere e di identità – il suo valore aggiunto di innovatività, la sua anima concretamente utopica, la sua quotidiana e faticosa – e perché no, talvolta anche incoerente – prassi operativa e trasformativa. Un margine abitato e reso abitabile, per dirla con Bell Hooks, che non è confine che separa ma soglia verso ciò che potrebbe essere. Resistenza e desiderio, che devono confrontarsi con la natura imperfetta e mai pacificata della natura umana. Essere molteplice e non statico, in costante trasformazione. Un ridefinirsi che gode degli incroci tra diversità e non nega la dimensione conflittuale.

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Migranti, rappresentazione e partecipazione
Foto di Luigi Ottani

di Adel Jabbar

Migranti identità e altrove

L’abbandono del luogo d’origine da parte dell’immigrato non è soltanto fisico, giacché egli è anche costretto ad allontanarsi dal suo vissuto quotidiano, e quindi a decodificare il bagaglio di conoscenze, pratiche e consuetudini interiorizzate e adatte a vivere nel proprio paese, per rimpiazzarle, il più velocemente possibile, con nuovi codici di riferimento funzionali all’inserimento nel paese di arrivo. D’altra parte il distanziamento dalle origini rimane parziale, poiché permane l’attaccamento affettivo, emotivo, che induce nostalgia, tanto da amplificare l’estraneità rispetto alla realtà in cui si inserisce. Né d’altra parte sono facilmente e immediatamente acquisibili le nuove conoscenze, le nuove regole, le nuove abitudini e tale difficoltà di inserimento comporta una condizione di marginalità che si delinea sostanzialmente secondo tre caratteristiche. Si tratta infatti di un individuo che:

a) viene da altrove, un altrove geografico, culturale, politico e linguistico;

b) viene dal basso ovvero da una condizione di debolezza socio-economica che rappresenta di per sé un ostacolo all’inserimento e alla partecipazione, anche in ragione del venir meno di una rete di relazioni sociali;

c) non possiede una titolarità formale dei diritti di cittadinanza, condizione che limita fortemente la capacità di negoziare i propri bisogni o anche di contare su qualche forma di rappresentanza, diversamente da altri soggetti deboli ma appartenenti per nascita a questa società.

Tuttavia questa condizione di doppia appartenenza innesca nell’immigrato un particolare processo identitario. Dal continuo rapporto dialettico fra la sfera della memoria, che rappresenta il vissuto passato e quindi il punto fermo di un percorso, e la sfera progettuale, ovvero la dimensione del divenire legata al ‘fare’, al movimento, si genera una peculiare esperienza, un tentativo di coniugazione fra due possibili modi di essere, che induce una continua alternanza identitaria. Si tratta di un delicato e sempre precario equilibrio, entro il quale incidono profondamente determinati fattori, che possono accelerare o rallentare il processo di inserimento. Questi fattori sono riconducibili sia a variabili ‘indipendenti’, come il genere, la provenienza geografico-culturale, il grado di istruzione, sia a condizioni acquisite, come l’inserimento nel mondo del lavoro, la qualità e il tipo di accoglienza. 

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Il vaccino non basta
Sindemia

Sono diverse e autorevoli le ricerche internazionali che spiegano perché, partendo dallo studio delle origini sociali e ambientali delle malattie che si aggregano con i virus, dovremmo parlare di sindemia e non di pandemia. Quelle ricerche dimostrano anche come per il Covid-19 il vaccino non sarà mai sufficiente perché occorre rafforzare la prevenzione primaria (mentre molti furbescamente preferiscono parlare di diagnosi precoce) ma prima di tutto creare una nuova relazione tra campagna e città, affermare un’idea diversa di agricoltura, mettere radicalmente in discussione ovunque deforestazioni, monocolture genetiche e allevamenti industriali. Riprendo l’intervento di Antonio Lupo, amico e medico internista in uno dei migliori ospedali pubblici italiani, con esperienze di medicina territoriale e di lotta con il Movimento Senza Terra in Brasile

di Antonio Lupo *

Sono un vecchio medico internista in pensione, ho lavorato per molti anni all’Ospedale di Niguarda di Milano, uno dei più completi e migliori ospedali pubblici italiani, reso tale anche dalle grandi lotte ospedaliere degli anni Settanta, che hanno contribuito a umanizzare e modernizzare, in buona parte d’Italia, gli ospedali.

Negli ultimi cinque anni di attività medica ho voluto fare anche l’esperienza di medico di famiglia, per vivere e capire i percorsi delle persone malate, percorsi spesso poco considerati in ospedale, anche (ma non solo) per l’urgenza di dare una risposta terapeutica. Volevo condividere e capire le risposte date dalla “Medicina di territorio”, della cui carenza oggi si parla molto, spesso con ipocrisia, perché, nel progressivo svilupparsi dell’industria della salute negli ultimi Cinquanta anni, sono stati e sono fondamentali solo gli ospedali, pubblici e privati, dove girano un sacco di soldi e grosse fette di potere.

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State scrivendo il Recovery Fund pensando agli anni '20. Ma del Novecento!
Ritorno al futuro

 

Le sette proposte di Friday For Future Italia al Governo Italiano relativo alla Next Generation EU

La crisi climatica è stata descritta come “una pandemia al rallentatore”. Entrambe infatti sono “invisibili” all’inizio. Entrambe riguardano l’intero pianeta e affliggono tutti, ma colpiscono le categorie più fragili con maggiore violenza. Per entrambe, le soluzioni coincidono con grandi cambiamenti su scala globale.

Ma la crisi climatica, oltre una certa soglia, è irreversibile. Se superiamo il punto di non ritorno non esisterà un “vaccino” in grado di salvarci. Ogni anno avremo perdite annuali del PIL italiano crescenti, che raggiungeranno l’8% nel 2100 (come spiega il rapporto del Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici). Significa che rischieremo di avere ogni anno i danni economici che stiamo vivendo quest’anno a causa della pandemia!

Ci troviamo quindi di fronte ad un punto cruciale: non possiamo credere di risolverla continuando con il business as usual. Nonostante questo, i pacchetti di stimolo finora approvati dal nostro paese sono stati i peggiori in Europa dal punto di vista della transizione ecologica, e tra i quattro peggiori di tutto il G20 (insieme a USA, Giappone e Australia).

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Il tabù della patrimoniale
Povertà

di Roberto Pinter

(5 dicembre 2020) “Il Covid trascina 5 milioni e mezzo di italiani nel tunnel della povertà” che si aggiungeranno agli 8,8 milioni già certificati. A fronte di questa terribile notizia si registra anche, nell'ultimo anno, l'aumento di 125 miliardi dei depositi bancari!

Cosa vuol dire questo? Che le politiche redistributive e straordinarie attivate dopo il Covid non hanno avuto un effetto equo, visto che sono stati soldi anche a chi non ne aveva bisogno e troppo pochi a chi era in difficoltà. Che con l'epidemia aumentano i poveri e chi sta bene, non potendo spendere o preferendo non investire in questi tempi incerti, aumenta invece la propria ricchezza. Significativo che i grandi ricchi del pianeta abbiano visto in questi mesi un aumento vertiginoso del loro patrimonio finanziario.

Dunque la caduta economica colpisce in modo iniquo, impoverisce chi ha solo il lavoro e arricchisce chi ha i monopoli o vive di rendite.

 

 

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Il ritmo del contagio, così paurosamente simile a quello della ninfea
Effetti di Vaia (foto di Stefano Semenzato)

Considerazioni attorno al libro di Diego Cason e Michele Nardelli “Il monito della ninfea”

di Stefano Semenzato

Agli inizi di novembre era prevista a Porretta Terme (Bologna) la presentazione del libro di Cason e Nardelli. Il precipitare della situazione pandemica ha costretto al rinvio. Avevo preparato degli appunti per aprire il dibattito e interloquire con Michele. Li presento qui in forma leggermente rivista.

(19 novembre 2020) Non conosco Diego Cason, ma conosco a sufficienza Miche Nardelli. So che mi trovo di fronte ad un viaggiatore, spesso viaggiatore scontento, ma che non rinuncia a percorrere i territori della esperienza materiale e quelli immateriali della mente.

La sua vita di scorribande per i territori della politica romana prima, poi per quelli dei della ex-Jugoslavia, e poi ancora i viaggi di quella che è stata chiamata “solitudine della politica” lo stanno a testimoniare.

Anche questo libro è un viaggio. I giorni passati ad incontrare le comunità colpite da Vaia, gli incontri per dar conto dei tanti microprogetti messi in campo per ripartire, ma anche un viaggio nel mondo delle fiabe e in quello delle religioni. Il tutto intrecciato con analisi e approfondimenti sullo stato del pianeta. Da non perdere il bellissimo capitolo in cui – a proposito dei miti della montagna - si ripercorre lo scontro tra le teorie e pratiche animiste e la forzatura delle religioni monoteiste.

 

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