"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Michele Nardelli
(8 novembre 2012) Quattro anni fa abbiamo gioito di fronte all'elezione di Barack Obama a Presidente degli Stati Uniti d'America. Al di là della condivisione o meno del programma del presidente, la sua elezione rappresentava in sé un fattore di straordinaria novità e non solo sul piano simbolico.
Oltre ad essere il primo presidente USA a portare sulla pelle la tragedia della schiavitù, Obama ha introdotto una forte discontinuità nell'uso della guerra come strumento di affermazione degli interessi americani nel mondo, facendo uscire il suo paese dalla devastante logica dello scontro di civiltà, confermata dall'uscita di scena in Iraq e dalla strategia di uscita dall'Afghanistan. Ha poi affermato sul piano della politica interna un'attenzione non certo scontata verso i settori più deboli della popolazione (in particolare con la riforma sanitaria) e nella difesa del lavoro industriale. Ha sostenuto l'affermarsi dei diritti civili, confermato dall'esito referendario di queste ore. Ha cercato di affrontare la crisi finanziaria provando (pur senza riuscirci) a mettere qualche regola su Wall Street e sulla proliferazione abnorme dei titoli derivati. Anche sul piano della lotta al terrorismo Obama ha dimostrato come sia stata largamente più efficace una politica di intelligence che la fallimentare strategia dei bombardamenti del suo predecessore.
Senza dimenticare che l'azione riformatrice del presidente Obama si è trovata a dover fare i conti con una Camera controllata dai Repubblicani (oggi infuriati per la sconfitta), con i condizionamenti di lobby potenti e politicamente trasversali, con l'incedere di una crisi strutturale che non ha dato tregua. E con la fatica di una politica avara di pensiero.
E con un altro aspetto ancora, di cui s'è parlato poco o nulla in queste ore, quello di un paese profondamente diviso non solo sul piano sociale ma soprattutto su quello culturale (e ideologico). O, peggio ancora, sulla base del colore della pelle. Basta scorrere i dati e i raffronti con le precedenti elezioni presidenziali per comprendere come il voto, seppure registrando un calo di consenso verso Obama, sia sostanzialmente sovrapponibile a quello del 2008, con la sola eccezione di due stati (la North Carolina e l'Indiana) che hanno voltato le spalle al presidente. Tanto che in buona parte degli Stati la partita nemmeno si è giocata, così ampio era lo scarto fra democratici e repubblicani. I due candidati hanno concentrato la loro attenzione solo sugli stati in bilico che poi hanno fatto la differenza. E lo stesso si può dire nella scelta di Romney di rivolgersi in buona sostanza solo ai bianchi (dando per scontato che i neri avrebbero votato in massa per Obama).
Il far play messo in campo nella sconfitta da parte di Romney non corrisponde affatto alla pancia del paese e nemmeno al furore ideologico con il quale l'America più profonda affronta i nodi più simbolici (ma non per questo privi di materialità) come la pena di morte, la diffusione delle armi, le questioni razziali, la stessa povertà (le gaffe di Romney durante la campagna elettorale sono rivelatrici), il rapporto con l'Europa e il resto del mondo. "Questo non è più il mio paese" mormorava qualcuno dei seguaci di Romney nell'abbandonare il grande salone di Boston dove avrebbe dovuto tenersi i festeggiamenti in caso di vittoria repubblicana.
Ha un bel dire Obama di essere il presidente di tutti gli americani. Il voto ci dice che così non è e che il solco fra le due americhe appare in tutta la sua profondità. Come hanno un bel dire i commentatori italiani rispetto alla civiltà del confronto elettorale negli Stati Uniti... ma quando le campagne elettorali si fanno sulla base del colore della pelle, mi spiace ma c'è ben poco da imparare.
Qualcuno ha detto che Barack Obama non ha vinto ma che sarebbe stato Romney a perdere. Al contrario io penso che Obama abbia vinto le elezioni presidenziali perché, nonostante tutte queste difficoltà, i tratti di discontinuità introdotti in questi quattro anni sono stati evidenti soprattutto per i soggetti più deboli e vulnerabili della società americana che hanno scelto di votare in massa per il presidente uscente. Tratti sui quali si è detto ben poco negli inquietanti talk show televisivi che ieri hanno accompagnato in Italia lo spoglio dei voti. E' su questi tratti di diversità che ora ci aspettiamo, come si conviene nel secondo mandato, il meglio da Obama.
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