"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Un'altra storia, o forse no.

Prijedor agli inizi del Novecento

Lo sguardo reciproco che la distanza propone

di Michele Nardelli

Ritorno a Prijedor dopo sei anni di assenza. Non nascondo l'emozione di essere di nuovo qui, in questa città un tempo “maledetta” per l'ingorgo che la travolse negli anni '90.

Sarà per la stagione ancora fangosa, per la pioggia che spesso mi accompagna in questo luogo o, ancora, per il degrado che segna gran parte dell'ambiente circostante... ma ho l'impressione che con quell'ingorgo ancora questa città debba fare i conti.

Sì, certo. Molte cose sono cambiate da quel marzo 1996 quando per la prima volta nella mia vita la guerra e i suoi effetti si materializzavano intorno a me attraverso le macerie annerite dal fuoco, l'odore rancido che non ti levavi di dosso, la polvere che ti entrava nelle viscere, lo sguardo vuoto di chi incrociavi per strada.

Se una persona si trovasse ora per caso a passare di qui, in una delle strade del centro o della città vecchia ricostruita dopo essere stata rasa al suolo per la storia che rappresentava, probabilmente farebbe fatica ad immaginarsi nel luogo dove riapparvero dopo mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale i campi di concentramento e lo spettro della pulizia etnica.

Tutto qui è terribilmente normale. Lo sono le banche dai loghi conosciuti, i negozi con il loro portato di plastica e di omologazione, i botteghini con l'insegna “compro oro”, le sale del gioco d'azzardo o del bingo, l'infinità di  farmacie che ti spieghi solo con il vuoto del sistema sanitario, i centri commerciali che incontri nelle periferie... Così normale da chiedersi quali anticorpi avremmo avuto in Italia nei luoghi dello spaesamento nostrano.

Tutto questo ci racconta del tratto saliente di questo infinito dopoguerra, nell'accentuarsi dei fenomeni che nei nostri contesti ci appaiono ancora incerti o sfumati, confermando i Balcani come una sfera di cristallo sulla postmodernità. Penso alla deregolazione, al turbocapitalismo, alla criminalità organizzata, alla corruzione... o, per altro verso, all'esclusione di chi non sa adeguarsi, all'andarsene dei giovani che non trovano margini di speranza verso il futuro, all'imbarbarimento delle relazioni sociali, all'irresponsabilità di classi dirigenti che tengono alta la tensione nazionale per rimanere al potere. Tanto da riuscire ancora ad inverare l'inganno, nella totale assenza di elaborazione di quel che è accaduto nell'ingorgo seguito alla fine del comunismo.

Mi chiedo che cosa ne sia della primavera politica che lo scorso anno, partendo da Tuzla, attraversò l'intero paese. Da queste parti, per la verità, era stata ben poca cosa, così forti erano e sono ancora le rappresentazioni “etniche” e la distanza con cui i cittadini guardano alla politica. Eppure migliaia di persone, soprattutto giovani e lavoratori dei centri urbani, mettendo da parte ogni riferimento identitario tradizionale, avevano ripreso la parola, si erano organizzati attraverso i forum civici (interessante notare come era stata proprio questa la forma che dieci anni fa cercammo di dare a Prijedor al percorso di elaborazione del conflitto), istituzioni parallele di un cambiamento che si voleva nonviolento.

Si trattò, in verità, di una stagione molto breve, metaforicamente spazzata via dalla tragica inondazione che aveva di nuovo messo in ginocchio questo martoriato paese e della quale – ad un anno di distanza – vedi ancora tracce vistose anche qui, nelle prossimità di fiumi di nuovo rigonfi d'acqua. E, ciò nonostante, una stagione della quale l'establishment politico (non estraneo ai vecchi apparati di controllo sociale) sembra avere ancora paura, se è vero che bastano anche solo qualche decina di persone in piazza per far scattare minacce e ritorsioni.

Non fosse per la tenuta dei vincoli familiari, laddove precarietà sociale e assenza di welfare trovano compensazione nelle reti lunghe di mutuo aiuto (dalle rimesse alle vie di fuga), la situazione sarebbe ampiamente insostenibile per la stragrande maggioranza delle persone.

Eppure, l'impressione è di essere di fronte ad una società anestetizzata. Anche nell'immaginario degli amici che incontro non emerge un progetto di cambiamento sociale o politico collettivo, come se ciascuno fosse nella propria solitudine in balia di questa situazione, sospesa fra postmodernità ed ingorghi della storia mai elaborati, dalla quale si esce solo per un progetto di vita individuale magari a qualche migliaio di chilometri di distanza.

La cooperazione internazionale o, meglio, quel che ne rimane, da parte sua, si guarda bene dall'immaginarsi come stimolo per la crescita di opportunità partecipative e ancor meno di una nuova classe dirigente, più attenta a curarsi dei partenariati funzionali alla propria sopravvivenza che dei processi di cambiamento. Che nessuno (o quasi) immagina se non appunto come progetto individuale.

All'encefalogramma piatto corrisponde ancora l'arma dell'ironia. Nella Galleria d'arte contemporanea (che immaginammo nel 1998 contro schiere di benpensanti afflitti dalla “banalità del bene”) una mostra di satira contro le derive nazionalistiche – che qui può trovare cittadinanza solo perché proveniente da Belgrado – testimonia che sotto l'apatia qualcosa di interessante ancora vive. Che la cultura rappresenti una forma di resistenza non l'ho mai dubitato e non a caso i nuovi barbari vi si accaniscono contro. Con Annalisa Tomasi, che a questa città ha dato in termini di intelligenza e di vissuto personale molto di più di ognuno di noi, ci scambiamo uno sguardo d'intesa e di soddisfazione nel vedere questo luogo agito ed elegantemente curato.

L'ironia non basta, occorre un progetto sociale e politico: era questo, del resto, l'obiettivo che ci eravamo dati nel costruire una forte relazione fra comunità, immaginandone la reciproca utilità. Ed ora, nell'evidenziarsi delle contraddizioni e dell'insostenibilità di un sistema di potere costruito sulle macerie (e sulle fortune) della guerra, dovremmo poter misurare l'efficacia delle azioni e delle relazioni costruite nel tempo.

Quando me ne andai dal Progetto Prijedor avevo posto essenzialmente questo nodo, la ripetitività e l'inessenzialità degli aiuti umanitari da un lato e, per altro verso, l'urgenza di lavorare sulla formazione di nuove classi dirigenti. Anche su questo piano, la buona cooperazione è quella che guarda alla reciprocità. E infatti...

Troppo avanti, mi dissero. Voli pindarici rispetto alla materialità dei bisogni... Tant'è che l'obiettivo ambizioso di un progetto che mobilitava le migliori energie anche della nostra terra si è progressivamente ritratto fino a dover prendere atto che la reciprocità ha funzionato all'incontrario...  qui, con i nostri stessi interlocutori che preferiscono un basso profilo, meno problematico, meno responsabilizzante, più protettivo e rassicurante. Da noi con l'evidenziarsi di una crisi della politica che non investe solo i partiti ma l'insieme dei corpi intermedi. E che preferisce a sua volta il basso profilo travestito da concretezza. E il cerchio si chiude.

Con i nostri interlocutori proviamo a tenerlo aperto, ma non è facile. Richiede incrocio di sguardi, non l'assillo della sopravvivenza.

Tornarmene qui, anche solo per pochi giorni, significa immergermi in questo tempo senza qualità e non credo sia affatto casuale che una parte della conversazione con Annalisa durante il viaggio di andata verso il cuore bosniaco dell'Europa la dedichiamo al grande romanzo del “non più” e del “non ancora”, quell'affresco sulla fine dell'impero e sull'inizio del secolo breve che è rappresentato dal capolavoro di Robert Musil “L'uomo senza qualità”.

Utilizziamo queste giornate per non chiuderlo il cerchio, per tornare a costruire relazioni virtuose se ancora ne avremo la forza. Parlando di culture materiali, di sementi e di pane, di olio e di vino, insieme agli amici del Convivium di Slow Food del Kozara e del Grmec. Di quel che si è perduto e di quello che potrebbe rinascere dal profondo di una terra. Un'altra storia, o forse no.

Prijedor, 29 marzo 2015

 

5 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Ezio il 09 aprile 2015 15:29
    Carissimo Michele,
    già conosci il mio pensiero su Prijedor (e non solo) e condivisione del tuo pensiero. Spero che le tue riflessioni vengano lette anche da chi ritiene che 'volare alto' sia (troppo) sviante. ... Ciao e a risentirci, Ezio.
  2. inviato da Alessandro il 09 aprile 2015 15:27
    Grazie Michele di questo racconto 6 anni dopo…!
  3. inviato da Simone il 09 aprile 2015 15:25
    Caro Michele,

    è qualche giorno che volevo scriverti.
    Innanzitutto ti ringrazio della generosità e della fiducia che ci accordi per il progetto Sarajevo Rewind. Va da sé che una volta completato penseremo insieme ad una bella presentazione in Trentino.
    Ho letto con molto interesse il tuo articolo e ti ringrazio per averlo condiviso anche personalmente per mail.
    Io torno ogni anno a Prijedor anche se soltanto per un paio di giorni, ci porto un gruppo di insegnanti, come ti avrò già raccontato, in un viaggio di formazione sulla Storia e le memorie tra Trieste e Sarajevo. Oltre a Prijedor (Omarska o Trnopolje e Kozara) ci rechiamo a Jasenovac a Donja Gradina a Sarajevo. Immancabilmente, tutti i partecipanti restano colpiti dalla storia di Prijedor, dalle memorie in conflitto, dalle memorie negate e ostentate. Mi è anche capitato di accompagnare insegnanti appena tornati da altri viaggi in Bosnia con un'idea del conflitto decisamente manicheo: offrono viaggi che immancabilmente non affrontano realmente e con mano la difficoltà della ricostruzione postbellica (non intendo quella materiale, ovviamente), ma offrono percorsi che si sviluppano totalmente in Federazione tranne che per la visita a Srebrenica. Offrono insomma un pacchetto preconfezionato e consolatorio dove è facile sapere da che parte stare e poter gridare la propria (sic!) rabbia contro i carnefici, troppo spesso contro il popolo carnefice, senza porsi domande per cercare di capire prima di tutto. Immancabilmente ne tornano con le idee chiare, troppo chiare, su chi sia la vittima e chi il carnefice. (Non sembra neanche che abbiano fatto tesoro delle riflessioni di Primo Levi o Hannah Arendt). Il nostro viaggio sebbene non abbia l'ambizione di spiegare tutto ha però il pregio di mettere in discussione e costringere i partecipanti a fare i conti con un passato e delle memorie ben più complesse ma soprattutto i conti con i propri paradigmi. Le tappe fondamentali del viaggio sono per l'appunto Jasenovac, Donja Gradina, Kozara e Omarska. Si tratta di un viaggio e un progetto che ho costruito sul mio quotidiano confronto con Prijedor e la Bosnia-Erzegovina, e che naturalmente è debitore di un'impostazione che tu, Annalisa, Beppe e tanti altri avete dato a Progetto Prijedor.
    Nei miei brevi soggiorno però non posso che constatare, come te, che tanta strada è stata fatta ma come Prijedor rimanga profondamente invischiata nelle sue contraddizioni e che, la giusta reazione dei bosgnacchi nella costruzione dei propri memoriali, stia prendendo una "brutta" piega, ovvero la confessionalizzazione della memoria, l'appropriazione della memoria delle vittime dei campi da parte della "nazione bosgnacca". Lo si vede senza ombra di dubbio dalla distanza che corre tra la lapide del 2004 della fossa comune di Kevljani, in cui le vittime vengono definite "cittadini di Prijedor", senza riferimenti confessionali ai nuovi cimiteri memoriali con una chiara impronta confessionale dove ogni lapide è contrassegnata dalla dicitura "sehid" ovvero martire. Un processo non nuovo (ne sappiamo qualcosa a proposito di foibe, cfr. Basovizza).
    Per concludere, trovo profondamente vera la tua affermazione sulla reciprocità che ha funzionato all'incontrario, non c'è molto da aggiungere se non che quell'impianto e quella strada, ne resto convinto, ha davvero contribuito a costruire un'alternativa, per me sicuramente.


    Ciao
    Simone
  4. inviato da Luca il 09 aprile 2015 15:25
    Grazie Mik...
  5. inviato da Penna Luidica il 03 aprile 2015 14:57
    Grazie delle tue intelligenti e partecipate riflessioni su quella città, Prijedor, e quel mondo balcanico per noi così vicino sentimentalmente ma così lontano nella sua ingarbugliata realtà. Un saluto, Luigi.
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