"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

La terra guasta

Costalunga (Alto Adige - Sud Tirolo)

Ringrazio Giampaolo Visetti per avermi autorizzato a riprendere questo reportage pubblicato come inserto dal quotidiano “la Repubblica” il 17 novembre scorso e dedicato a quanto accaduto nella regione dolomitica nella notte fra il 28 e il 29 ottobre quando un evento inedito ha cambiato la storia delle nostre montagne. Le stime parlano di oltre 12 milioni di alberi abbattuti. Gli effetti del cambiamento climatico sono già nelle nostre vite. (m.n.)

di Giampaolo Visetti

I cerchi degli alberi, dopo tanti anni, sulle Alpi si sono interrotti. L’età di una pianta, dal primo all’ultimo istante, resta incisa per sempre nel suo cuore di legno. Solo quando le foglie smettono di respirare, ognuno può conoscerla. Le colonne delle foreste sono gli unici organismi a raccontare senza segreti il corso essenziale della vita. Chi ha meno difficoltà, crescendo può tracciare circonferenze più larghe. Chi fatica a restare in piedi, aggrappandosi alla terra, lascia trame più strette. Adesso questi milioni di romanzi vegetali, scritti con la clorofilla e custoditi nell’anima dei tronchi, si sono aperti e anche gli animali, assieme agli esseri umani e alle stelle, li possono leggere.

La notte che ha preso i boschi, li ha alzati con il vento e ha rovesciato gli alberi sulla testa dell’umanità che non li conosce più da molto tempo, ha creato una biblioteca infinita che, prima di ritornare polvere grazie agli insetti e alle accette, chiede di essere letta. E’ il racconto corale di una natura malata, tanto da non riuscire più a reggersi in piedi. Gli alberi, nel Nordest del versante meridionale delle Dolomiti, come accade ai vecchi che scoprono di non riuscire più a restare nel mondo che li ha visti bambini, si sono distesi vergognandosi di rivelare la propria estrema fragilità. Due giorni prima a Venezia si era sollevato il mare. Il giorno prima nelle pianure e lungo le valli del Triveneto sono scappati i fiumi e i torrenti. Poche ore prima sono precipitate le frane, antiche e nuove, per ricordare dove scorrono le vene della roccia. I boschi hanno ceduto per ultimi, il rombo dei loro scoppi è stato coperto dalla pioggia e protetto dal buio. La fine di questa eroica resistenza però ora è davanti ai nostri occhi, che non possono restare chiusi. Tutto può essere pulito, riparato, ricostruito: sta succedendo. La stessa foresta invece non può rinascere. Ci siamo spinti oltre questo invalicabile confine, dentro un universo nuovo. Non possiamo più camminare come prima su un prato, respirare tra i fiori: è un dolore, lo sentiamo, troppo chiaro per continuare a vivere come prima. (g.v.)

Val Visdende (Santo Stefano di Cadore) – Le foreste, misteriose e sacre, sono le coperte che scaldano le montagne. Crescono silenziosamente e insieme, per non perdere l’acqua che le disseta. Sanno come fare il legno che le difende e da millenni non sbagliano mai. Ogni albero invece, quando è finito, resta solo e improvvisamente muore a modo suo. Smette di puntare verso il cielo e si distende, per ritornare lentamente nella terra, aiutato dagli insetti. Si raffredda dentro, come ognuno di noi. La sua linfa si secca. Anche sulle Alpi Carniche è stato sempre così. Sempre, tranne la notte di lunedì 29 ottobre 2018.

A Piè della Costa, sotto la cima del Peralba in alta Val Visdende, il bosco spontaneo di abete rosso, cresciuto in oltre due secoli, è esploso da fresco e in venti minuti. A quota 1670, sopra malga Antola, le raffiche di vento hanno toccato i 217,3 chilometri all’ora: la stessa velocità registrata alle 21.34 dalla stazione metereologica di Passo Rolle, tra Veneto e Trentino. Il limite non è più la memoria umana: nessun archivio botanico, in Europa, documenta un cataclisma simile. Per la natura e per la specie umana è «una prima volta». Nessuno adesso sa prevedere il futuro.

Conifere e latifoglie, sul versante sud dell’arco alpino di Nordest, non sono fisiologicamente programmate per resistere a un uragano soffiato con la forza che solo un oceano del Sudest asiatico possiede. «Guarda queste radici – dice Jerry De Zolt, finanziere, uno dei quindici abitanti rimasti nella valle amata da papa Wojtyla e il primo a dare l’allarme – sono tranciate di netto, non strappate. I ceppi guardano a Oriente, non verso Nord, come dopo le trombe d’aria di un temporale.

L’ecosistema montano ci parla esibendo un’imprevedibile novità. Sembra dire: andate via». Fino a Pian Del Polo, tra le sorgenti del fiume Cordevole e del torrente Londo, vivevano 150 mila alberi fitti e coetanei. Ora sono a terra, uno sopra l’altro. Gli schianti hanno scavato crateri profondi cinque metri. Solo ventidue tronchi, senza più cimale, svettano come sentinelle ferite su una distesa profumata di rami sfibrati. E’ un tappeto morbido e sotto i piedi oscilla sopra i vuoti che ha creato, come una palafitta dopo la tempesta.

Il sole asciuga il muschio rovesciato e aiuta i ragni a tessere le trappole per gli ultimi moscerini di un novembre troppo caldo. Non c’è nessun altro: la vita però, sotto altre forme microscopiche, riparte. «I boscaioli – dice Dino De Zolt, contadino detto “Gasperina” - non si orientano più. Conoscevano questi luoghi come il filo della loro lama, adesso sbagliano di chilometri. Pensano di trovarsi su un versante, invece camminano su quello opposto. Passata quella notte, siamo usciti di casa. Albeggiava quando abbiamo scoperto un mondo nuovo. Sulle Alpi, tra la Lombardia e il Friuli, ormai abita un popolo di estranei». Il problema, sulle Dolomiti, è che il vento non sa fare le curve, che la pioggia pesa e che insieme sono più forti della roccia. «Quella notte» ha sconvolto il profilo delle montagne per 390 chilometri, tra la Valtellina e la Val Saisera, sopra Tarvisio. I 700 millimetri di acqua sono caduti in poche ore dopo due mesi di siccità: tre giorni prima sulle pareti esposte al sole, a quota 2 mila, l’aria era a 30 gradi, come in estate. Le raffiche di scirocco, a una media di 180 chilometri all’ora, sono salite dalla pianura. Si sono infilate nelle valli sempre più strette, hanno sbattuto contro il muro di dolomia e ormai imprigionate sono rimbalzate verso il basso, sopra boschi, torrenti, massi, ghiaioni e pendii erbosi gonfi di pioggia. La pressione, scatenata dal contrasto tra il caldo del vento mediterraneo e il freddo della prima neve caduta solo sulle vette più alte, ha sprigionato una violenza insostenibile.

Le ultime stime, grazie ai satelliti, quantificano il prezzo del guasto in 8 milioni di metri cubi di piante. Lungo i crinali un rasoio ha tranciato 12 milioni di alberi, precipitati verso i paesi di fondovalle, nei fiumi e nei laghi. «Una pianta matura – dice Luigi Casanova, boscaiolo e presidente di Mountain Wilderness – da asciutta pesa 16 quintali. Quando è bagnata arriva a 35. Le radici, scosse dalla bufera e cresciute per opporsi a urti solitamente contrari, in un terreno fradicio e non gelato non potevano più sostenerla. Sulle montagne trivenete siamo rimasti sommersi sotto un peso di 420 milioni di quintali di alberi gonfi di acqua, scagliati contemporaneamente a centinaia di metri dal ceppo. E’ stato un bombardamento atomico, ancora non abbiamo focalizzato il disastro».

La terra ha tremato tra le 18,30 e le 02.30, scossa da un sisma infinito. Lo scoppio dell’aria ha trasformato l’acqua in fango e le foreste in radure, fondendo gli elementi primordiali per preparare il campo al fuoco. «Con la fine della primavera – dice Mauro Corona, boscaiolo e scultore, prima che scrittore – se tronchi e fronde saranno ancora qui, le Alpi diventeranno una ciclopica pira, infetta e ardente. Il nostro tesoro sono i boschi, se cadono e bruciano è come se una banca lasciasse incenerire le sue banconote. Sarebbe la fine, non solo economica e non solo dei montanari: dobbiamo capire che qui, per tutti, è cominciata una lotta diversa per la vita». Non sono venuti giù solo i pecci, resi più vulnerabili dalla superficialità delle radici e dagli aghi fitti come la trama di una vela. Contro case e pali della luce, sopra 3 mila chilometri di strade franate, su centinaia di acquedotti e migliaia di animali atterriti, sono finiti larici e cirmoli, pini neri e silvestri, faggi e tigli, aceri e ontani, carpini e querce, saliconi e maggiociondoli, frassini e sorbi, noccioli e carpini, betulle e ciliegi selvatici.

Questa volta nemmeno le essenze più adatte, dotate di pompe fittonanti e fogliame caduco, dopo secoli hanno resistito. «La priorità – dice Dino Zardi, fisico e coordinatore a Trento del primo corso di laurea in meteorologia – è coprire prima dell’inverno le case scoperchiate, arginare i torrenti esondati, consolidare strade e valli franate, assicurare acqua e luce a centinaia di paesi, prelevare il legname prima che marcisca.

Il fronte cruciale però è restituire all’ambiente l’equilibrio smarrito a livello globale. Anidride carbonica, metano e altri gas serra continuano ad aumentare. Dietro tornado e precipitazioni torrenziali sulle Alpi, c’è il vertiginoso sconvolgimento del clima surriscaldato, che produce conseguenze vastissime su tutti gli ecosistemi. La politica, dopo una catastrofe, ha il dovere di sostenere la ricostruzione: ma la sua sfida al futuro è promuovere la riduzione dei fattori umani che accelerano la fusione di una miscela atmosferica non favorevole alle forme biologiche che conosciamo. Non possiamo più nasconderci dietro i problemi: servirà un secolo, ma se vogliamo provare a esistere ancora dobbiamo cambiare vita subito».

Nell’ex scuola di Piole, uno dei 96 villaggi sparsi di Gosaldo, nel Parco nazionale delle Dolomiti bellunesi, Bruna Maschio non sa che lo spartiacque di «quella notte» ha posto collettivamente il problema della sopravvivenza. Sa però che, a 86 anni, per la prima volta ha avuto «voglia di morire». E’ rimasta l’unica abitante di un paese che, quando nelle stalle c’erano le mucche e i pascoli venivano falciati a mano tre volte tra giugno e settembre, contava 350 persone. Emigrata in Svizzera e tornata «sotto il mio albero», dorme in quella che è stata la sua classe alle elementari. La cucina a legna è nell’ex studio della maestra. Un abete e un larice si sono abbattuti sul sentiero che sale alla sua porta, la faggeta secolare ha coperto un torrente invisibile di cui il nonno non le aveva parlato. Una lamiera arrugginita, stesa sul tetto di una casa affacciata sul Piz di Sagròn, dopo un volo di duecento metri si è accartocciata contro il palo della luce piantato in mezzo alle verze e alle dalie del suo orto. «Io alle 17 – dice – bevo la minestra e vado a dormire. Credevo di sognare: alberi che scoppiavano, la montagna che si apriva per inghiottire il letto dove è morta mia mamma. Mi sono svegliata è c’era silenzio. Mancava la luce e non veniva acqua: niente di grave, ho le candele e la fontana. Ho capito che era successo qualcosa di irreparabile perché tre giorni dopo ancora non ho sentito arrivare il furgone da cui, una volta ogni due settimane, compro il cibo che mi serve. Sono sempre scesa in paese a piedi, per fare la spesa, due ore di passeggiata. Adesso però mi mancano le gambe: ho pensato che se qui non arriva più nessuno, piuttosto di andare via mi lascio morire di fame».

Per giorni abbiamo parlato della corrente elettrica e delle linee telefoniche interrotte, dei ponti, delle strade e degli acquedotti crollati. Problemi essenziali, ma sulle «Dolomiti isolate tra le foreste crollate» l’emergenza immediata non è stata la connessione con la civiltà economica e sociale del mondo. La lezione che arriva dai villaggi, dall’Agordino al Comelico, dal Gruppo di Brenta alla Carnia, è che la pioggia e il vento hanno riproposto con semplicità l’individuale bisogno atavico di mangiare, di bere e di ripararsi dal gelo. Chi è giovane, fino all’ultimo lunedì di ottobre, non lo sapeva. All’inizio se l’è presa con il cellulare muto e con il computer spento. Poi gli è venuta fame e ha scoperto che il gas non si accendeva, come la caldaia a pellet del riscaldamento e il motore del frigorifero.

«Gli alberi – dice Denis Sorarù Pezzè - si portano via tutto. Sono immobili, ma qui muovono ogni cosa. Se mancano, muori di fame e non passi l’inverno. La prima cosa è piantare i boschi scomparsi». Operatore in una cooperativa di ragazzi ad Alleghe, abita a Caracoi Zimai, villaggio di cinque famiglie tra i 27 borghi di Rocca Pietore, sotto la Marmolada e davanti al Civetta. Qui, nel Settecento, la Serenissima repubblica di Venezia confinò i prigionieri turchi, ridotti a taglialegna. Morti gli schiavi, strappati al quartiere di Karakoy a Istanbul, nessuno ha più coltivato la foresta. Ci hanno infine pensato la pioggia e lo scirocco ma l’operazione che Graziosa Fontanive definisce «fare pulizia» si è portata via anche 5 tetti su 12. A saltare sono stati quelli in lamiera, più leggeri. Gli antichi, in scandole di larice, hanno lasciato filtrare le raffiche e hanno tenuto. Le coperture in tegole, pesanti e non tradizionali, sono collassate, o hanno scagliato i coppi lontano, seminandoli sui prati. I masi adesso, come a Bramezza dove in 9 case e 13 fienili vivono solo Costante e il suo gatto, sono protetti con fogli impermeabili. Non c’è tempo, prima che fiocchi vanno coperti.

«Un tetto medio in lamiera – dice Remis Triches, lattoniere di Taibon - pesa 800 chili e costa 7500 euro. Cinque uomini, in una settimana, lo fanno. Se non puoi permetterti le scandole, meglio la lamiera che vola via, rispetto alle tegole che ti cadono sulla testa. Il problema è che alla gente mancano i soldi». Da quasi venti giorni, con il padre Sergio, lavora giorno e notte sulle case scoperchiate nell’Agordino. «Intanto si fa - dice – non si aspetta. Se non ci pagano entro l’estate, chiudiamo e bon». Finirà così anche per gli alberghi finiti sott’acqua ad Alleghe. Sul lago una famiglia di cigni bianchi nuota fra i tronchi rossi dei larici, rovesciati nel lago e spinti a fare diga sotto le arcate del Ponte dei Tedeschi, tra il fiume Cordevole e il torrente Zunaia. E’ tornata la pace, ma lunedì 29 ottobre è scoppiata la guerra.

Fuori dagli hotel «Adriana», «Europa» e «Savoia», uomini in canottiera caricano badilate di macerie su trattori e camion dei volontari della Protezione civile. «In un’ora – dice Matteo De Toni – l’acqua è salita di un metro e venti centimetri. E’ stato peggio che nel 1966, per risparmiare i filtri della centrale elettrica ci hanno scaricato il lago nelle camere. Tra due settimane avremmo dovuto aprire per la stagione sciistica, ma nessun turista chiama più per prenotare». Ai piedi della frana del Piz, staccatasi nel 1771, il vento ha abbattuto anche lo storico abete di oltre trecento anni. Dopo la prima Guerra mondiale, per non farlo crescere ancora, qualcuno gli aveva appoggiato l’elmetto di un soldato del Regno d’Italia sulla cima. La pianta, indifferente al copricapo e all’imposto profilo bellico, per un secolo ha seguitato a salire verso le nuvole che scavalcano le montagna. Ha resistito ad altri eserciti meccanici scesi dal Nord, cedendo solo alla beffa di un nemico naturale che lo ha sorpreso dal Sud. Così, questa mattina, la segheria «Theurl» di Klangenfurt, in Carinzia, fa a fette il suo tronco color crema da un metro e trenta centimetri a petto d’uomo. In un turbine di trucioli profumati l’antico peccio viene caricato sul bilico diretto oltre il confine austriaco e Ursula Manfroi lo saluta agitando un fazzoletto rosa, come fosse l’ultimo fratello caduto in battaglia.

Nelle Dolomiti, oggi, l’incubo è il legname. In una notte è finita a terra la quantità che i prelievi boschivi dell’intero arco alpino programmano in cinque anni e che il mercato nazionale assorbe in un ventennio. Le piante giacciono in luoghi scomodi, o irraggiungibili. La maggioranza non è segata di netto, come quando il forestale la martella. I tronchi di abete, larice e faggio, sono stati stressati dal vento e della torsione di schianti sbagliati. Per recuperarli, nelle cinque regioni sconvolte, occorre un tempo che l’economia non concede. Servono soprattutto 4 mila boscaioli e altrettante motoseghe, il doppio dell’esercito reclutabile per tre anni sul versante italiano delle Alpi.

Lungo le strade franate e attraverso le vie strette dei paesi devono poi salire migliaia di tir dotati di rimorchio. Un metro cubo di legname non stagionato pesa tra 7 e 8 quintali, un bilico a pieno carico può spostarne 36. Per tre anni oltre 200 mila giganti saranno incolonnati sui passi e nelle valli, dove la superficie delle segherie non basta per depositare la foreste cancellate. E’ una sfida epocale, anche logistica e senza boscaioli assunti all’estero, in Romania, Polonia, Slovacchia, Austria, Slovenia e Germania, è destinata ad essere perduta.

«A Paneveggio l’avvicinarsi dell’inverno – dice Paolo Kovatsch, responsabile delle foreste demaniali del Trentino – ci aiuta. Il freddo ferma i parassiti, rallenta le muffe e rinvia la crescita dei funghi. Le piante si conservano, come in una sconfinata cella frigo. Abbiamo quattro mesi per aprire le piste forestali e preparare il campo di prelievo. Il problema è che la nostra segheria più grande lavora al massimo 38 mila metri cubi di legname all’anno, una goccia nel mare. Il valore degli alberi lasciati lì, il prossimo autunno crollerà da 100 a 60 euro al metro cubo. Raccogliere gli schianti costa fino a 55 euro al metro cubo. Sarà difficile trovare imprese boschive disposte a lavorare sul filo del deficit. Nell’area del disastro c’è a terra un patrimonio legnatico di quasi 800 milioni di euro, pronto a ridursi a 400 se non saremo tempestivi. Per questo bisogna andare oltre burocrazia e ideologie: servono boscaioli, patentini per il taglio riconosciuti da tutti, mezzi meccanici, segherie e ditte di distribuzione comuni per affrontare insieme un mercato già pronto alla speculazione». Da Rocca Pietore a Livinallongo, da Sappada al Cansiglio, da Santo Stefano di Cadore a Moena, da Tarvisio a Santa Caterina Valfurva, decine di paesi temono di perdere i fondi con cui fino a oggi hanno finanziato scuole, case di riposo, trasporti, lavori pubblici e manutenzione della montagna. Dal Medioevo l’istituto delle «Regole» ha fatto crescere l’autogoverno del territorio alpino. Ancora una volta è dal legno e dall’acqua, che è nata l’autonomia. I nobili e la Chiesa, per non lasciar morire di fame e di freddo la gente, hanno concesso l’uso di pascoli, foreste e sorgenti, organizzandolo in modo comunitario. La natura ora ha colpito proprio questo atavico patrimonio collettivo, senza il quale i Comuni rischiano di non pagare nemmeno gli stipendi.

«La ricostruzione – dice Andrea De Bernardin, sindaco di Rocca Pietore – ha bisogno di mani, ma anche di cervelli e di colletti bianchi. Nei piccoli paesi gli impiegati sono contati, spesso privi delle competenze necessarie per affrontare un’emergenza senza precedenti. Dobbiamo accelerare delibere e appalti, documentare danni e governare finanziamenti, riflettere su una svolta urbanistica radicale.

La paura è che, calata l’emozione e spenti i riflettori, la montagna venga riabbandonata a se stessa, come sempre». Sulla piana di Marcesina, sopra l’altopiano di Asiago, Giovanni Rigoni Stern cammina così tra i pecci piantati alla fine della Grande guerra, dove da bambino lo portava suo padre Mario. Quante volte è salito qui, da forestale, nei posti della «Storia di Tonle» e del «Bosco degli urogalli», tra le abetaie ora ripopolate dai lupi che attorno a Forte Lisser e alle trincee dovevano far dimenticare i crateri aperti dalle granate austroungariche. «Tra il 1925 e il 1935 – dice – Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, fece piantare 10 milioni di abeti rossi. In vivaio crescono prima, gli impianti giovani attecchiscono meglio, il legname d’alta quota è di qualità superiore. Il vento e la pioggia si sono portati via fino all’80% delle foreste, ma non ha una ragione scientifica mettere sotto accusa un’essenza. In un secolo sono cambiate le condizioni, dalle ore di irraggiamento solare al tasso di umidità, dalla temperatura media alla fertilità dei costoni non più pascolati. Spesso, sopra una morena, non c’è più di una spanna di terra. Prendersela con chi ha rimboschito in un’era botanica conclusa è facile, più difficile aprire in modo corretto un’epoca climatica nuova. Dobbiamo avere la pazienza e l’umiltà di studiare caso per caso, bosco per bosco, versante per versante, senza paura della biodiversità, rinunciando a generare foreste coeve e riducendo la densità degli innesti. I vegetali sono come gli esseri umani: una famiglia, per essere stabile e completa, ha bisogno di caratteri diversi, di spazio e di mettere in relazione i nonni con i nipoti».

Più difficile, oltre che presuntuoso, ambire a «rimettere a posto le montagne», come promettono i politici in tour aereo sopra le Dolomiti, a bordo degli elicotteri che decollano dalla laguna di Venezia. Ogni giorno, calzati gli scarponi, a terra si scopre invece lo scenario nuovo di una geografia da ridisegnare. Alcune valli del Primiero e del Lagorai sono state chiuse dalla slavine, altre nell’Alpago sono state aperte da torrenti sgorgati da falde sotterranee. Gli affluenti che nell’Alto Cadore formano le sorgenti del Piave, sul confine tra Veneto, Austria e Friuli, hanno riempito invasi ignoti attorno al lago di Misurina, ancora inaccessibile.

In Val di Sole una frana antica e periodica ha riconquistato il conoide accumulato dai detriti del Rio Rotiàn, seppellendo un campeggio lasciato costruire a Dimaro, all’inizio della strada percorsa dall’imperatore Francesco Giuseppe per raggiungere Madonna di Campiglio. La Val Cimoliana, sopra Erto e a lato della diga del Vajont, è stata colmata da massi enormi, precipitati dagli Spalti di Toro. In Val di Fiemme, come attorno al lago di Carezza, in Alta Pusteria e tra le Dolomiti di Sesto, le foreste abbattute sono così vaste che i crinali svelano malghe e rifugi anche a chi guarda dai fondovalle. Sopra i grovigli ancora umidi volano stormi neri di corvi imperiali, attratti dalle carogne di cervi e caprioli, schiacciati sotto le fustaie. Tra Valdaora, Monguelfo e il passo di Monte Croce, tra Moso e il Comelico, gli alberi si cippano sul posto, a bordo strada, e il combustibile parte direttamente per le centrali a biomassa di tutta Italia. Nelle segherie di confine, dalla «Pircher» di Dobbiaco alla «Doriguzzo» di San Nicolò sotto Padole, le barriere di tronchi e di fusti spezzati di giovani piante sono già più alte delle cipolle in rame dei campanili.

Sandro Soratroi, forestale e membro del Soccorso alpino di Arabba, assieme ad altri volontari sega le migliaia di alberi che hanno travolto i sentieri escursionistici tra Colle Santa Lucia e Livinallongo. «Anche per chi cammina – dice – l’universo dolomitico è cambiato per sempre. La vecchie mappe sono superate, assieme ad altimetrie e tempi di percorrenza dei tracciati. Dalle nebbie emergono panorami mai visti. E’ come se all’oceano una tempesta avesse rubato le onde». Questi, prima che il magma bollente li spingesse in alto plasmando le montagne e formando i ghiacciai, sono stati davvero fondali marini. Solo adesso, dopo che la natura si è concessa uno sbadiglio educato, chi ha perduto la casa, un tetto, la strada o il bosco dell’infanzia, realizza all’improvviso la propria, irrilevante dimensione.

Ognuno lavora, per rimarginare le ferite, o per salvare la stagione dello sci, contemporanea vacca sacra da cui si munge il latte che nutre tutti. Il cuore però non è più quello di prima. «Nemmeno il mio – dice il re degli Ottomila Reinhold Messner tra i larici secolari sradicati a Castel Juval, in Val Venosta – perché so che gli sconvolgimenti ambientali sono all’inizio e che si ripetono sempre più spesso. Il mondo non finisce con gli emendamenti alla finanziaria, con qualche decina di milioni scovati nelle pieghe del bilancio e annunciati da politici travestiti da pompieri per un’ora.

Dobbiamo decidere, agire, imboccare strade coraggiose. Mentre un uragano si infila nelle Dolomiti, la Giordania viene allagata e la California incenerita. Serve altro per capire che nell’atmosfera sta succedendo qualcosa che ci vede tra i protagonisti, che il problema non sono i migranti, ma la globalizzazione degli eventi catastrofici? Il mio cuore non è più quello di prima non perché ora ho paura del vento che fischia, che invece amo da bambino: a inquietarmi è un potere che chiude gli occhi davanti all’evidenza di una montagna abbandonata, della vita che finisce, della terra malata.

Occuparsi di questo dovrebbe essere l’unico assillo della politica, la ragione che oggi la legittima: la gente qui sta scappando, ma le foreste sono innocenti». Per questo, tra le Pale di San Martino, fa impressione prendere atto che al tramonto commerciale della musica classica desti tanta emozione popolare l’idea che il vento abbia preteso anche la sua quota dell’abetaia da risonanza, miniera dei violini settecenteschi ereditati dal liutaio Stradivari. A malga Juribrutto centinaia di persone da giorni salgono a piedi da passo San Pellegrino e scavalcano in silenzio i tronchi dell’armonia, come una processione in onore di un defunto. L’anima più vecchia di questa foresta straordinaria in realtà è ancora in piedi e pronta a cantare. Chi continua ad arrivare qui per un funerale, assume così l’espressione biblica di una pia donna che abbia visto un Lazzaro risorto: la musica che non si ascolta, è evidente, conta ancor più dei boschi che non si attraversano e che si onorano finché restano lontani.

«Ma è da questa sorprendente commozione sociale per la materia prima della colonna sonora della vita sulla terra – dice Paola Favero, colonnello dei Carabinieri forestali di Vittorio Veneto e scrittrice – che nel Paese dei condoni e degli abusi possiamo ripartire. Il passaggio da compiere è tra la selvicoltura economica e quella naturalistica. Sui versati più ripidi, ad esempio, gli alberi caduti non vanno rimossi subito. Verranno attaccati dai coleotteri, perderanno valore, ma salveranno case e paesi dalle valanghe di neve. Se in un sistema idrogeologico sconvolto l’acqua scende a valle più velocemente perché il terreno viene pulito per forzare la ricrescita, saremo travolti da frane e piene. Ricostruire l’ambiente alpino, questa volta, significa cambiare le nostre azioni. Me ne vengono in mente due concrete. Riportare ogni giorno nella natura le guardie del Corpo forestale dello Stato, decimate e confinate negli uffici. Introdurre nelle scuole la cultura dell’ambiente. E’ incredibile: la resilienza degli ecosistemi viene superata e nessun docente è tenuto a insegnare ai ragazzi perché».

La Val di Sella, sopra Borgo Valsugana, è una lezione esemplare. La chiesetta della Madonna della neve è stata scoperchiata. I pali in cemento armato della linea elettrica sono stati spezzati. Una cavalla è stata uccisa da un larice, cadutole sulla schiena dopo due giorni, da un traliccio piegato. Il museo a cielo aperto di ArteNatura, fondato nel 1986 e che raccoglie 60 opere lignee dei maggiori artisti e architetti di tutto il mondo, è stato parzialmente distrutto. Il sentiero tra Villa Strobele e Malga Costa, sotto il monte Armentera, è scomparso sotto cumuli di pini e faggi sradicati. La strada che sale dal fiume Brenta al torrente Moggio, vicino alla casa dove è morto Alcide De Gasperi, è morsicata da decine di frane, solcate da rivi fangosi ora coperti con teli di nylon. Dal 1500, secolo dei primi registri ecclesiastici dedicati agli eventi atmosferici per fini rurali, non c’è traccia di un evento paragonabile. A salvarsi, in mezzo a un prato, solo una quercia maestosa di 700 anni. «Dobbiamo accettarlo – dice Giacomo Bianchi, presidente di Arte Sella – ai segni naturali lasciati dal tempo dedichiamo la vita. Accettarlo non significa però restare passivi, o rifugiarsi nel fatalismo. Lasceremo le tracce della notte d’inferno a cui nemmeno le montagne hanno potuto opporsi. Ma con la forza della creazione lotteremo per raccogliere il messaggio del vento, venuto per avvisarci che siamo in pericolo, forse per l’ultima volta».

Salendo la valle sotto la Croda Grande, che da Rivamonte conduce al villaggio di Digoman, migliaia di faggi hanno trascinato anche i noccioli sulla strada e giù, fino al letto del torrente Domadore. Si transita a stento, tagliando in due una foresta trasformata in una legnaia. Sulle foglie gialle sono abbondate sei motoseghe, rimaste senza miscela. Appesa al costone devastato resta una casa senza più tetto, né vetri alle finestre. Fioretto Renon, contadino di 82 anni, vive nel maso a fianco: una stalla in calce bianca e il fienile in assi di larice annerite dal sole. Dice che la casa «si chiama il Vaticano perché ha un mucchio di padroni», emigrati chissà dove. E’ vuota e sul muro crollato, prima della bufera, qualcuno con il senso del profetico aveva scritto «La fine del mondo siamo io e te». Appena lo scirocco se ne è andato, sul «Vaticano» di Digoman hanno appeso un cartello non del tutto estraneo all’ottimismo: «Vendesi edificio indipendente».

Fioretto Renon è sordo e a chiunque lo avvicini, domanda: «Cerca mio figlio?». Vent’anni fa il suo ragazzo ha venduto le mucche ed è sceso ad Agordo per lavorare in una fabbrica di occhiali. Non è più ritornato e il padre adesso spera che il cancro che corrode la terra lo spinga su, almeno qualche minuto, per controllare se la montagna dove è nato ha resistito, se la madre Maria Luisa è viva. «Cerca mio figlio?», nel cuore di una foresta millenaria caduta sulle case abbandonate che aveva sempre difeso, è una domanda a cui nessuno ha il coraggio di rispondere con la verità. Però quotidianamente da vent’anni la rivela, certificando adesso l’incrollabile speranza che dalla notte del 29 ottobre 2018 muove il popolo delle Dolomiti, impegnato a «restare qui senza aspettare qualcosa di particolare dal mondo». E se alla domanda cruciale della montagna ferita non si può rispondere, non significa che si debba ignorare che qui c’è ancora un uomo che tranquillamente la pone.

 

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