"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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martedì, 9 aprile 2019Un momento dell'incontro a Reggio Emilia

Reggio nell'Emilia. Biblioteca Panizzi. Un sabato mattina di aprile. Un manifesto ben visibile in città che richiama l'Europa al femminile. Una sala di donne. Riflessioni esigenti. Solitudine.

Malgrado il pensiero sia inevitabilmente rivolto a quel che accadrà il 26 maggio, forse le elezioni più difficili da quando si vota per il Parlamento europeo, nel confronto sull'Europa che si svolge nell'antica sala del Planisfero non c'è nulla di elettorale.

Certo, la preoccupazione di un ulteriore duro colpo al disegno politico europeo è nell'aria, ma le riflessioni che vengono proposte non sfiorano nemmeno il destino di questa o quella formazione politica, tanto meno quelli personali che pure occupano larga parte dello spazio politico.

Può sembrare strano ma si parla di Europa. Di un orizzonte politico che fatica a diventare progettualità, di una nuova era geologica – l'antropocene – che affonda le sue radici nel delirio prometeico dell'homo faber, di stili di vita banali diventati irrinunciabili, di mancanza del senso del limite e di “distacco dalla terra”, di cura. Delle “madri fondatrici” anziché dei “padri fondatori”. Di un universo maschile che “estende” diritti a quello femminile.

In questa cornice, propongo qualche sguardo. Quello di un'Europa che prende il nome da una donna e che nasce al di fuori di sé, in quella “mezzaluna fertile” di quel mare imprescindibile nel formarsi di un'identità europea allergica ai confini, in conflitto “fra meriggio e mezzanotte”, sempre in divenire. Quello di uno spazio di incontro fra civiltà che ne ha segnato la storia, che si vorrebbe costringere nelle tradizioni giudaico cristiane (che ne sono solo una parte) in contrapposizione con altre che invece si vorrebbero cancellare perché ci raccontano di quando il centro del mondo era ad Oriente. E di un debito di conoscenza che nessun rogo, né quello seguito al decreto dell'Alhambra (1492), né quello della Vijesnica (1992) potranno rimuovere. Quello di un “Breviario Mediterraneo” che avrebbe ben meritato il Nobel per la letteratura nel suo raccontare degli intrecci di culture, saperi, cibo, parole, che poi era all'origine di quella lingua del Mediterraneo (“lisan al-farangi” la chiamavano gli arabi, letteralmente “lingua europea”) che per quasi sei secoli ha accompagnato le relazioni e i commerci fra le sue diverse sponde e scomparsa sotto i colpi del delirio nazionalistico del XX secolo. E, infine, quello che non abbiamo saputo leggere nei tragici avvenimenti che hanno insanguinato il cuore balcanico dell'Europa e che ci avrebbe potuto aiutare a comprendere con un quarto di secolo di anticipo la devastazione sovranista di questi tempi e altro ancora.

«Abbiamo visto molto, e non ci siamo accorti di niente» scrive Robert Musil nell'immediato primo dopoguerra. Parole che appaiono quanto mai attuali un secolo dopo. Così l'idea di Europa si è andata appassendo e l'immenso archivio Mediterraneo è diventato – come ebbe a scrivere l'amico Predrag Matvejevic – un profondo sepolcro.

Il fatto è che se vogliamo dare una nuova possibilità all'Europa (e al pianeta) andrebbe conosciuta ed elaborata la storia e andrebbero messi in discussione i paradigmi che per almeno due secoli hanno segnato la modernità: il progresso, lo sviluppo senza limiti, lo stato nazione, la guerra come levatrice della storia, il lavoro che “rende liberi” (come sta scritto all'ingresso di Auschwitz), l'antropocentrismo.

Ci sarebbe un nuovo racconto da scrivere. Ed invece assistiamo da un lato alla fine dell'umanesimo intrinseco nello slogan del “prima noi”, dall'altra al vuoto pneumatico che pensa quello che abbiamo come il migliore dei mondi possibile. Il passaggio che ci porta al voto del 26 maggio è in buona sostanza già scritto, come del resto il suo esito. Che in questi mesi di maggiore attenzione all'Europa possa emergere un diverso racconto, come a testimoniare di una ricerca originale oggi forse non rappresentata ma non per questo meno importante, lasciamoci una piccola possibilità. Se non altro ci aiuterebbe – come è stato nell'incontro di Reggio Emilia – a farci sentire meno soli.

martedì, 2 aprile 2019Asola, 31 marzo 2019

Le persone che siedono di fronte a me, nel caldo pomeriggio di una domenica nella pianura mantovana già arsa per la mancanza di pioggia e che mi fa pensare ai picchi di calore che vivremo nella ormai prossima estate, ascoltano il mio racconto sull'Europa e su quel che avremmo dovuto capire della tragedia degli anni '90 nel suo cuore balcanico.

E' quello che ho davanti un uditorio nuovo, non conosco nessuno dei presenti e, mentre parlo, cerco i loro occhi per leggervi qualcosa che mi aiuti a capirne le reazioni. Quel che troverò oscilla fra lo stupore e l'imbarazzo.

Lo stupore verso una narrazione che gli appare inconsueta, come se si aprisse di fronte a loro uno scenario sconosciuto che pure parla di ciascuno e degli avvenimenti di cui sono testimoni e che, nella superficialità del confronto politico attuale, non ha cittadinanza.

E l'imbarazzo, perché pur essendo le persone presenti nel Museo Civico di Asola non certo le meno avvedute di quella comunità, si rendono conto di quanto poco conoscono di quella che pure considerano la casa comune europea.

Tanto che una signora, a conclusione del nostro incontro, nel complimentarsi per la mia esposizione e nel chiedere una dedica sulla copia di “Sicurezza” appena acquistata, mi sussurra: “Quanto sarebbe più semplice non sapere”.

Asola è una città ricca di storia e di cultura. Per comprenderlo basta fare due passi in centro ed entrare nel Gran caffè liberty oppure aggirarsi nelle stanze del Museo Civico Gaffredo Bellini: la sensazione è che qui la terra non ha prodotto soltanto fatica. Città contesa fra Mantova, Milano e Brescia, orgogliosa della sua indipendenza; città risorgimentale con una forte tradizione antifascista; città d'arte.

Ma il genio del luogo, qui come altrove, fatica ad attrezzarsi ad una modernità che trasforma così velocemente la realtà. E allora cerco di proporre nella lettura del nostro tempo quel cambio di prospettiva, europeo e mediterraneo che, visto da qui, appare forse ancor più difficile ma che s'impone e che prende le sembianze di alcune ragazze con lo chador che passano sorridenti nelle vie del centro di questa che è diventata la loro città.

E' importante che l'Amministrazione comunale di Asola e l'associazione Amici di Palazzo Te e dei Musei mantovani abbiano scelto di dedicare un ciclo di manifestazioni, spaziando dalla fotografia alla musica, dalla storia alle culture religiose, per parlare di questa Europa così affaticata e alle migrazioni che l'attraversano, perché questo è il tempo nuovo che è necessario imparare a vivere.

Così, anche lo stupore e l'imbarazzo possono diventare generativi. E a vedere la risposta che viene dalla piccola sala gremita che ospita l'incontro “Balcani, il cuore inascoltato dell'Europa”, penso che le parole possano ancora servire ad imboccare la nuova storia che ci attende.

PS. Ho voluto dedicare questa mia conferenza all'amica Melita Richter, "cittadina europea" come si definì in quel meraviglioso viaggio intitolato "Danubio, l'Europa s'incontra" in cui ci conoscemmo. Proprio come questo ciclo di incontri cui ho avuto il piacere di partecipare. Grazie Melita per quanto ci hai insegnato con la tua vita.