Editoriali

Cambiare rotta. Senza eroi e capitani
Iceberg

Riprendo questa utile riflessione sul tema delle migrazioni dell'amico Andrea Segre

di Andrea Segre

Incredibile, Salvini ci aveva assicurato che i migranti erano scomparsi, e invece anche quest’estate ci risiamo. Continuano a succedersi senza sosta le notizie di navi di ONG che salvano migranti e vengono fermate da Salvini. E tutti i commenti e le tensioni mediatico-politiche sono calamitate da questi eventi.

Senza nulla togliere all’importanza etica del salvataggio e anche al valore politico della sua rivendicazione, la cosa che mi preoccupa di più è che siamo sempre fermi allo stesso punto, allo stesso ombelico che da ormai vent’anni ci impedisce di trovare una vera soluzione al dramma delle migrazioni illegali e troppo spesso mortali. Parliamo sempre e solo di sbarchi, dividendoci tra chi li vuole e chi no. Altro non interessa.

La complessità della gestione dei flussi migratori viene riportata sempre e solo alla gestione dell’ultimo pezzo di viaggio, quello via mare, che spesso è meno di un decimo dell’intero viaggio. Una miopia geografica e geopolitica che ci acceca da ormai vent’anni, ma che ora sembra diventata ancora più pesante con la trasformazione del dibattito da politico a quasi esclusivamente morale: è giusto salvare o no? Una domanda che fa slittare il tema su un piano di polarizzazione pregiudiziale: io sono per salvarli o io sono per fermarli. Altro spazio e direzione di discussione sembra non esserci. La discussione inizia e si ferma lì. La gran parte dello sforzo giornalistico è dedicato alla narrazione personalistica degli eroi dei salvataggi o dell’accoglienza e del loro scontro con il capitano irato e vincente.

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Il disegno di Trump contro l'Europa
Europa

«Tempi interessanti» (93)

«Trattare da pari a pari con l'Europa». Questo afferma Matteo Salvini reduce dagli Stati Uniti dove ha cercato (e trovato) legittimazione politica quale vero capo del governo italiano. Un via libera per scaricare i 5 Stelle e per andare ad elezioni anticipate – si è commentato – ma anche il prendere corpo di un disegno che punta a sgretolare l'Unione Europea...

... Per questo l'Europa deve diventare a pieno titolo lo spazio politico comune capace di includere, di garantire stato di diritto e di federare diffuse forme di autogoverno sovranazionali e regionali, di nuove relazioni di conoscenza, di scambio e di cooperazione con il Mediterraneo e il vicino Oriente da cui è inscindibile. Spazio politico cui adeguare le istituzioni, le forme dell'agire politico, i corpi intermedi.

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Come giardinieri
Joan Mirò, Il giardino

di Ugo Morelli *

“Io lavoro come un giardiniere”, diceva di sé Joan Mirò. Indicando che la passione per la natura parla della natura delle passioni umane. Quelle passioni possono essere generative e distruttive.

Il nostro rapporto con la natura di cui siamo parte ha visto prevalere fino ad oggi una posizione e azioni prevalentemente distruttive da parte di noi umani. Un libro postumo di Oliver Sacks, dal titolo emblematico, “Ogni cosa al posto giusto”, in corso di traduzione in italiano, evidenzia in modo magistrale il conforto esistenziale e vitale che da un punto di vista fisiologico e psicologico può venirci dalla natura. Denso di significato è anche il sottotitolo del libro: primi amori e ultimi racconti.

Una sintesi adeguata alla nostra condizione. Auspicando che il nostro amore e la nostra passione per la natura non si traducano in racconti finali delle bellezze e dei valori della natura stessa.

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Un'occasione perduta per parlare di Europa
Paul Klee, dal grigiore della notte (1918)

«Tempi interessanti» (92)

Le elezioni per il Parlamento Europeo sono state un'occasione persa per parlare di Europa. Chiedersene la ragione non farebbe male. L'Europa poteva rappresentare in sé un mutamento di paradigma, un'opportunità per cambiare il nostro sguardo spostandolo dall'orizzonte degli stati nazionali ad una visione insieme sovranazionale, macroregionale e mediterranea. Inchiodati invece agli schemi novecenteschi e ridotta la politica alla rincorsa emergenziale di nodi strutturali, il confronto elettorale è diventato un inguardabile referendum intorno e dentro al governo nazionale.

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Tempi interessanti da abitare con coraggio
vetro appannato

di Federico Zappini

(27 maggio 2019) Nelle settimane scorse mi è mancato il tempo, e la lucidità, per mettere insieme un ragionamento pre-voto. In realtà una traccia l'avevo abbozzata, sulla base di un percorso - non solo mio - lungo qualche anno che trova nel risultato elettorale odierno, tanto europeo quanto locale, una sedimentazione, una certa conferma.

La mia riflessione iniziava da Andrea Zanzotto e dal suo "progresso scorsoio, nel quale non so più se sono ingoiato o se ingoio". Aforisma perfetto per descrivere il vicolo cieco - economico e antropologico - nel quale si è infilato l'intero Occidente, e in particolare l'Europa. Uno senso di spaesamento che con maggiore nitidezza sanno interpretare i poeti, capaci di riconoscere ciò che tra le righe della realtà si sedimenta e non solamente ciò che agli occhi appare evidente, lampante.

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Far depositare la polvere. Aggiustare la bussola. Politicizzare la società.
dal blog di Federico Zappini

di Federico Zappini *

Un mattino di primavera. Il sole che taglia in due la stanza. Un tappeto sbattuto che rilascia un pulviscolo infinitesimale. Correnti invisibili che ne determinano andamenti confusi. Un movimento caotico di particelle.

Questo è lo stato dell’arte del mondo che ci circonda. Il tappeto è la società così come la conoscevamo, scossa da una serie di crisi che ne minano le certezze, mescolano le caratteristiche fondanti, disarticolano la composizione. La polvere siamo noi, cittadini/elettori spaesati. Le spinte che frullano questa realtà a grana sottilissima sono i fattori che generano l’entropia contenuta in quel limbo che Antonio Gramsci poneva tra ciò che non è più e ciò che non è ancora. Disintermediazione e comunicazione iper-accellerata. Frammentazione delle relazioni e apparente impossibilità di dare forma a ipotesi credibili per futuri desiderabili.

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La crisi dei «progressisti» e le vie nuove da percorrere
papaveri

La sinistra attualmente sembra incapace di parlare a strati ampi dell'opinione pubblica. Un interessante commento del saggista Mauro Magatti

di Mauro Magatti *

In tutto il mondo si assiste a una crisi verticale dei partiti di sinistra. In fondo, i successi della nuova destra, in Italia come all’estero, sono dovuti più all’inconsistenza degli avversari che non ai reali meriti dei nuovi protagonisti. Se non altro i partiti populisti, nelle loro diverse manifestazioni, hanno preso atto che il tempo storico è cambiato. E che sia perciò necessario cercare di trovare nuove vie. Giuste o sbagliate che siano. La cosa sorprendente è che i partiti di sinistra — che negli ultimi decenni si sono autoproclamati «progressisti» — non sembrano in grado di comprendere le trasformazioni in atto. Con risultato che oggi la destra si afferma perché riesce a coagulare il malcontento che serpeggia tra ceti medi e popolari.

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Il Giorno del Ricordo come strumento per cancellare le memorie degli altri
Esodo giuliano dalmato

di Roberto Spagnoli *

Il 10 febbraio si celebra il “Giorno del ricordo” istituito nel 2004 per conservare e rinnovare «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo dopoguerra, e della più complessa vicenda del confine orientale».

Purtroppo ogni anno il 10 febbraio viene preso in ostaggio da forze politiche a cui non interessa rinnovare la memoria della complessa vicenda del confine orientale ma solo usare in maniera strumentale la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo. Del resto una sorta di “peccato originale” è insito nella stessa legge che ha istituito questa solennità dove si parla “dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre”. Quelle terre, tuttavia, non erano soltanto loro.

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L'autonomia differenziata sta minando l'unità d'Italia?
europa

Un passaggio obbligato per interpretare il futuro

di Giorgio Cavallo

L’autonomia differenziata colpisce un nervo scoperto

Come è possibile che una semplice applicazione di una previsione costituzionale che nel 2001 venne proposta ed approvata dalla sinistra e dal voto popolare, con una destra che riteneva tale previsione poco federalista, venga oggi vista come una mina pronta ad esplodere e a far saltare l’unità dello Stato italiano?

Non entro nel merito degli aspetti tecnici della questione, dei particolari applicativi e di quelli finanziari e del complesso delle modalità di trasferimento delle materie, ma vorrei centrare la vicenda sugli aspetti politici che si stanno palesando. Non ritengo peraltro che le posizioni emergenti dagli oppositori né quelle dei, più o meno vivaci, proponenti sia unicamente determinata da interessi elettorali e dal loro posizionamento geografico. Lo scontro è realmente politico.

Molta acqua è passata sotto i ponti dal decennio di fine secolo scorso quando il dibattito sul federalismo era un tema su cui “tutti” si confrontavano, magari anche per impedire il secessionismo dichiarato, ma mai praticato, della Lega Nord di Bossi. Il federalismo era considerata una medicina per curare le difficoltà di uno Stato uscito a malapena da “tangentopoli” ma che esprimeva comunque una vitalità soprattutto a partire dai suoi corpi intermedi, organizzati e spontanei.

 

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Non palliativi ma un nuovo racconto
Cambiare il libro

«Tempi interessanti» (89)

«Ho la sensazione che in molti a sinistra o nei mondi dell'impegno sociale, qui come altrove, pensino che se la destra vince questo sia l'esito di un errore da parte degli elettori, come si trattasse di fiducia mal riposta, oppure di una forma di protesta rispetto ad un contesto di crescente preoccupazione e di paura verso il futuro, oppure ancora di un difetto di comunicazione a fronte di grandi apparati mediatici che promuovono leader inguardabili che sanno interpretare gli umori del popolo. In questa nota provo a dire che non è affatto così, che gli elettori sanno bene per chi votano ...»

 

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La ribellione della natura
Val Visdende

«Tempi interessanti» (88)

Fino ad oggi avevamo immaginato gli effetti dei cambiamenti climatici con un andamento lineare che poco a poco avrebbe eroso coste e ghiacciai, desertificato aree prima coltivabili... e che avrebbe riguardato le generazioni a venire. E invece ci siamo immersi.

Gli eventi eccezionali, penso alla quantità d'acqua caduta fra il 28 e il 29 ottobre o al vento a duecentoventi all'ora, sono inediti, quindi escono dalla norma. Ma come non vedere che la straordinarietà diventa normalità? O come non vedere che molto di quello che chiamiamo “emergenza” è l'esito di fattori di tipo strutturale, dell'esplicarsi di interessi globali o di cambiamenti connessi ai nostri comportamenti e ai nostri approcci culturali?

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Essere visionari, questo dovremmo. Un piccolo omaggio al grande Fabrizio
Foto di Carlo Nardelli

(11 gennaio 2019) Nel cercare di descrivere quanto accade intorno a noi, mi viene spesso di usare l'espressione della filosofa Jeanne Hersch sulla necessità di «essere presenti al proprio tempo». Perché non è affatto scontata la presenza al proprio tempo, quand'anche ciascuno di noi ci viva. Anzi, vedo nel rincorrere la quotidianità e nella riduzione di ogni problematica ad emergenza, proprio l'incapacità di mettere a fuoco il proprio tempo. Che invece richiederebbe di alzare lo sguardo e di scorgere anche in avvenimenti apparentemente banali i suoi segni.

Essere visionari, questo dovremmo. Ma oggi questa parola – nel delirio del fare – ha assunto un'accezione negativa e così tutto ciò che è pensiero, lavoro intellettuale, politica viene generalmente guardato con disprezzo, quasi non ci fosse più niente da capire e non avessimo più bisogno di vedere lontano. Né per terra, né per mare. Eppure senza bussole – ovvero chiavi interpretative – non si va da nessuna parte e così siamo caduti nel paradosso che in un tempo ricco di informazioni, mai siamo stati così ignoranti.

Vedere nelle cose di ogni giorno la profondità, per questo nasce la poesia. Così avverto la mancanza di Fabrizio De Andrè e del suo sguardo. E per quanto le sue creature ancora ci aiutino ad osservare il dolore e la bellezza del mondo, mi manca la sua genialità nell'osservare le moderne spoon river di questo nostro tempo. La sua dolcezza nel raccontarci la maternità di Maria come il fascino dell'incontro di civiltà che ci hanno portato i naviganti e le città mediterranee, il bisogno di interrogarci sul potere a fronte del nostro accomodarci sul presente come il non saper riconoscere il dono di Dio in chi sa leggere il libro del mondo. Così ogni volta Fabrizio sapeva stupirci.

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Cura di sé e cura del mondo
Murales

di Lea Melandri*

(29 dicembre 2018) L’odio e i veleni che l’Occidente ha sparso nel mondo, i suoi stessi “valori” – denaro, competizione – gli ritornano indietro ingigantiti e lo mostrano per quello che realmente è: già contaminato da quella “barbarie” che ha contribuito a far crescere respingendola fuori di sé, fingendosi un’innocenza mai conosciuta. Per una specie di “contrappasso”, la parte del mondo che si è pensata dispensatrice di “progresso” e di civiltà, si trova oggi costretta a contare sul proprio territorio le piaghe che ha inflitto ad altri, con le sue industrie, le sue bombe, i suoi consumi illimitati.

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Democrazia e disobbedienza. Una sfida su cui riflettere
Trento, 1975. Occupazione Santa Chiara

Se tutto si riduce a un interrogativo giuridico, a chi crede nella politica resta l’amaro in bocca

di Donatella Di Cesare *

La disobbedienza civile non vale solo nei regimi dispotici. È, anzi, il sale della democrazia.A provocarla è, come ha scritto Hannah Arendt nel 1970, «l’incapacità del governo di funzionare adeguatamente». I cittadini sono assaliti dal dubbio sulla legittimità di una legge. Non sanno, però, come esprimerlo, perché l’opposizione è affievolita o tace del tutto. Il timore è di restare inascoltati, mentre il governo insiste in quelle iniziative «la cui legalità e costituzionalità suscitano molti interrogativi».

Parlare di «ribellismo» è pretestuoso. Sarebbe comodo «ridurre le minoranze dissidenti a un’accozzaglia di ribelli e traditori». Ma chi disobbedisce si muove nel quadro dell’autorità costituita. Non viola la legge — la sfida. E la sfida in nome di una legge più alta, di una Costituzione tradita, di una giustizia mancata. Articola il disaccordo pubblicamente e opera per il bene comune, assumendosi la propria responsabilità. Certo che la legge non può giustificare la violazione della legge! Perciò i disobbedienti si muovono ai margini, dove il diritto è chiamato in causa dalla giustizia.

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Dalla piazza agli «spiazzi», per tornare al confronto
di Alberto Ruggieri

Dal «vaffa» in poi la violenza verbale l’abbiamo consumata tutta, meglio concentrarsi su specifici casi di disagio, governandoli con serietà e continuità.

di Giuseppe De Rita *

Circola in Italia uno strano bisogno di scendere in piazza o almeno per strada, per trasferire in uno spazio fisico le onde emotive che covano nelle varie pieghe della vita collettiva.

A guardar bene non si ha voglia però di dare voce alla moltitudine e portarla in uno spazio monumentale; si tratta piuttosto dell’espressione di specifiche e circoscritte fonti di disagio e di scontento. Si pensi alla voglia delle varie rappresentanze imprenditoriali di rivendicare a gran voce i loro interessi e le loro esigenze; si pensi ad alcune espressioni di pubblico malcontento locale (a Torino pro o contro la Tav, a Roma contro l’attuale governo della città); si pensi allo sconfinamento per le strade degli striscianti conflitti antigovernativi del Nord Est; si pensi alle disordinate tensioni nelle periferie urbane (fra crisi abitative, sgomberi forzati e non facile gestione degli extracomunitari).

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