Lettere

La metafora del nostro tempo
La copertina del libro

 

Un anno fa usciva “Il monito della ninfea”. Un invito alla lettura e all'incontro.


(20 aprile 2021) Sono trascorsi quasi due anni e mezzo da quella notte di fine ottobre 2018 quando la furia del vento abbatté 42.500 ettari di bosco e foreste dolomitiche. Si trattò dell'evento di maggior impatto sugli ecosistemi forestali mai avvenuto in Italia, cambiando in questo modo il volto di 494 Comuni, per un territorio complessivo di due milioni e 306 mila ettari spalmati sull'arco alpino orientale.

In un contesto nel quale gli avvenimenti si consumano in pochi giorni, a volte in poche ore, il lasso di tempo che ci separa da quel tragico evento può sembrare sufficiente per metterlo in archivio.

Se pensiamo che in questi due anni è accaduto di tutto, non solo il susseguirsi di altri eventi estremi che hanno scosso gli ecosistemi in ogni parte del pianeta ma soprattutto una sindemia che ancora sta devastando la vita di miliardi di persone, l'uragano Vaia potrebbe oltremodo apparire come un fatto verso il quale non riservare ulteriore attenzione.

Questo mettersi le cose alle spalle senza averne colto il monito non va bene. Allo stesso modo continuiamo a guardare gli avvenimenti come se fossero compartimenti stagni quando invece tutto si tiene. «Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe» scrive Walter Benjamin nel suo scritto dedicato all'Angelus Novus. Un'esortazione che vale anche per questo nostro tempo, che ci dovrebbe aiutare a riconoscere le connessioni fra le cose che accadono e solo apparentemente estranee l'una all'altra.

 

 

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Il Papa in Iraq
Foto da Avvenire

di Adel Jabbar

La decisione del Papa di compiere una visita in terra mesopotamica richiede un’analisi attenta vista la complessità delle dinamiche geopolitiche del Vicino e Medio Oriente.

Il Pontefice si è recato in un’area che è teatro di scontro geopolitico, in cui sono presenti eserciti di potenze straniere invisi alle popolazioni locali, in cui il terrorismo di matrice transnazionale è all’ordine del giorno, i duri scontri tra diverse fazioni sono spesso sostenuti da attori internazionali grandi, medi, piccoli e piccolissimi. Nonostante tutto ciò ilcapo dello Stato Vaticano ha compiuto questa visita importante.

Dopo l’euforia mediatica e dopo che sono state dette molte cose e sono stati fatti molti commenti riguardo al viaggio del Sommo Pontefice vorrei richiamare l’attenzione su un aspetto relativo ai pronunciamenti del Papa durante le diverse tappe del suo viaggio.

Esso è di natura politica e riguarda la critica alla pratica della guerra, in quanto causa principale delle gravi condizioni in cui vivono molte delle popolazioni del mondo. Il Papa ha più volte sottolineato come la guerra sia un atto di sopraffazione. Ciò trova una dimostrazione chiara e drammatica in Iraq. Un paese strategico ricco non solo di materie prime bensì anche di risorse umane e di un immenso patrimonio storico culturale che ha subito due guerre scatenate in base a delle eclatanti e ignobili bugie quali la storia dei neonati nelle incubatrici gettati a terra dai soldati iracheni in Kuwait nel 1991. Episodio raccontato da una presunta infermiera, rivelatasi successivamente la figlia quindicenne dell’ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti, addestrata da un’agenzia americana di pubbliche relazioni. Anche per la guerra del 2003 si è fatto di nuovo ricorso ad una menzogna ovvero la storia delle armi di sterminio di massa, riportato con tanto di provetta tenuta in mano dall’allora segretario di stato Colin Powell. Queste sì che possono essere definite la madre delle fake-news. Tali bugie sono ormai ammesse perfino da diversi esponenti delle Nazioni Unite coinvolti nei fatti dell’epoca quali Denis Halliday, coordinatore degli aiuti umanitari ONU e Hans von Sponeck, coordinatore del piano sanitario ONU in Iraq. Il risultato di tale disinformazione è stato da un lato l’appoggio di alcuni settori dell’opinione pubblica mondiale all’intervento militare e dall’altra la popolazione irachena terrorizzata e brutalmente devastata. I responsabili di questi crimini di guerra, non solo rimangono fino ad oggi impuniti, bensì continuano a diffondere le loro menzogne e i loro successori proseguono perpetuando le medesime azioni distruttrici in altri contesti.

 

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La Convenzione di Istanbul e la scomparsa di Nawal Al-Sa’adawi
Nawal al Sa'adawi

di Adel Jabbar

(30 marzo 2021) Due avvenimenti consecutivi - il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul e la scomparsa della scrittrice e intellettuale nonché medico Nawal Al-Sa‘adawi - hanno suscitato diverse discussioni e tanti interrogativi.

Il primo avvenimento si riferisce alla decisione di Erdogan in data 20 marzo che sancisce l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul. Questo evento ha scatenato aspre polemiche da parte della stampa e delle organizzazioni femministe e altrettanto dure reazioni a tali critiche da parte di componenti del mondo islamico. Molte delle reazioni sono state delle prese di posizione difensive e poco argomentate, sovente, espresse con un tono accusatorio nei confronti di coloro che avevano espresso un parere critico al ritiro dalla convenzione. Il trattato in questione, mira essenzialmente a sollecitare le autorità dei paesi aderenti a prendere provvedimenti a sostegno delle donne che subiscono violenze e discriminazioni. Quindi i suoi contenuti non sono norme di legge che portano, come qualcuno vuole fare credere, alla distruzione della famiglia tradizionale. Gli stessi che lo affermano, sorvolano invece sul fatto che la famiglia spesso si distrugge proprio a causa della violenza che le donne subiscono da parte degli stessi famigliari.

Un’altra posizione riportata dai sostenitori di Erdogan è quella di considerare la convenzione come incentivo ad intraprendere altre scelte sessuali. Invece l’obiettivo della convenzione è quello di stimolare gli attori pubblici a mettere in essere interventi atti a garantire il rispetto di tutte le persone al di là degli orientamenti sessuali e a tutelarne la dignità.

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Vaccini e ultraottantenni
Emilio Molinari

di Emilio Molinari

(21 marzo 2021) Ho 81 anni, sono invalido al 100%, ho patologie cardiovascolari molto gravi e pure oncologiche, tanto per non farmi mancare nulla.

Non mi hanno ancora vaccinato e non mi hanno mai contattato. Non sono estraneo alla politica e ai media e quindi mi sono trattenuto da proteste. Mi sembrava di cercare una soluzione per me. Inoltre non sono nei social. Aspetto.

Aspetto cosa? Aspetto il vaccino o aspetto il Covid? Chi arriva primo?

Due giorni fa è morto un caro amico di 88 anni Carlo Rossi, una persona amata da molti a Milano. Un poliziotto pistolero gli uccise il figlio e lui con la moglie Adele non hanno mai smesso l'impegno civile. Carlo aspettava il vaccino. E' arrivato prima il Covid e la morte. Quanti morti per ogni ritardo e silenzio della Regione Lombardia?

Di queste morti non c'è un conto e non c'è rendiconto di responsabilità. Solo oggi è arrivata un po' di indignazione dei media.

 

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L'attualità del monito della ninfea. E un confronto che vorremmo riprendere
Vaia

Care amiche e cari amici,

neve e freddo ci dicono che la primavera sembra ancora lontana. La crisi climatica ci avrebbe dovuto insegnare che i passaggi di stagione avvengono repentinamente e che i picchi di calore hanno eroso quelle di mezzo. Ma intanto l'inverno non intende mollare la presa, siamo tutti più stanchi e nervosi e la fine del tunnel non si vede.

No, non intendo proporvi alcuna metafora politica. Mi piace solo immaginare che a primavera e con il necessario distanziamento per una sindemia con la quale dovremmo convivere ancora a lungo, sarebbe bello poter riprendere le presentazioni del nostro libro Il monito della ninfea.

Nei giorni scorsi, sfogliandone le pagine, mi sono reso conto di quanto quel lavoro – uscito esattamente un anno fa a ridosso del primo diffondersi del Covid-19 – mantenga intatto il suo valore, ben oltre l'ambito di inchiesta (la tempesta Vaia) che si proponeva. E di come quel monito risulti quanto mai attuale.

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L'importante appello di un gruppo di scienziati sul PNRR
Il gatto e la luna

Al Presidente del Consiglio dei Ministri del Governo Italiano

Prof. Mario Draghi



Egr. Prof. Draghi,

Desideriamo condividere con Lei e i Ministri impegnati qualche elemento di valutazione generale e avanzare raccomandazioni e suggerimenti sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Siamo un gruppo di docenti, ricercatori ed esperti afferenti a diverse discipline accomunate dalle finalità di protezione sia degli ecosistemi e dell’ambiente in cui viviamo sia della salute umana e degli organismi viventi. Stiamo seguendo e studiando la pandemia dal suo arrivo e siamo preoccupati per il presente e per il futuro. Per questo, oltre a contribuire allo studio dei fenomeni collegati alla pandemia, siamo interessati alle elaborazioni ed alle scelte per la ripresa economica e sociale1.

Siamo consapevoli della necessità di affrontare la sfida di una ripartenza che non sia basata sugli stessi modelli che hanno determinato la grave situazione in cui ci troviamo. Per imboccare una traiettoria diversa c’è bisogno di un cambio di paradigma del modello di sviluppo e di consumo oggi prevalente, ed è necessario che molte scelte siano fatte con immediatezza. Trattandosi di una profonda crisi sanitaria, sociale, economica, perfino esistenziale, un piano di ripresa post-pandemica deve necessariamente confrontarsi con una miriade di problemi, come illustrato dal Green Deal europeo. Osserviamo con grande interesse l’evoluzione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ed apprezziamo gli sforzi fatti in molte direzioni, seguendo le indicazioni di quello europeo.

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Il paesaggio mancante *
Michelangelo Pistoletto, Terzo paradiso – Trincea della pace, Arte sella.

di Ugo Morelli

 

Il paesaggio corpo

Quali effetti inattesi può generare la mancanza! Uno si ritrova in contatti sociali deprivati per la pandemia ed ecco che fa scoperte inaudite.

Prima di tutto ha tempo per riflettere. All’inizio ha un effetto di vertigine, si sente spaesato. Poi è forse proprio quello spaesamento che diventa produttivo.

Del resto, se non ci si spaesa è difficile riconoscere il paesaggio. Non lo sappiamo, ma è probabile che è quando lo tiri per un momento fuori che il pesce si accorge dell’acqua.

Allora un’intera stratificazione di paesaggi, come matrioske, si propone, con la pandemia. A cominciare dal paesaggio corpo.

Ci accorgiamo delle mani: non possiamo usarle liberamente; dalla loro centralità nelle nostre vite e nella nostra evoluzione, una centralità tacita e addirittura scontata, diventano fonte di rischio e pericolo: per toccare gli altri e le cose e per toccare persino se stessi. Le guardiamo e le sentiamo con una certa diffidenza. Averle rimane indispensabile ma è anche preoccupante. Ce ne dobbiamo prendere cura più del solito e persino il vecchio monito del galateo diventa una disposizione sanitaria e normativa: lavarsi e disinfettarsi le mani continuamente. Scoprendo che non basterà mai: dopo averle lavate bisogna chiudere il rubinetto! Poi bisogna aprire la porta del bagno con la maniglia, e poi…e poi… Quella che era un’indicazione di buona educazione, salutare stringendo la mano all’altro, è divenuta un’offesa da untori, da superficiali irresponsabili che non si curano del rischio di contagiare un altro. Per non parlare del respiro, altro atto costante e necessario per vivere, e dato altrettanto per scontato. Ci accorgiamo della sua importanza per vivere perché sentiamo di rischiare ad ogni inspirazione e di mettere a rischio gli altri ad ogni espirazione. E vogliamo parlare delle labbra e di un bacio?! Il paesaggio corpo si presenta a noi come se fosse la prima volta che lo viviamo.

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Pensare e agire altrimenti
Inverno 2020

di Federico Zappini *

 

Agitu è morta.

Tutto intorno la montagna buia d’inverno, ancora più silenziosa sotto la spessa coltre di neve fresca e dentro un tempo che al distanziamento ci ha drammaticamente abituati. Ci sentiamo – inutile negarlo – disorientati come nel bosco fitto nel bel mezzo di una bufera. Persa un’esperta e attenta compagna di viaggio, una guida per molti versi, le tracce del sentiero per attraversare la selva si fanno meno chiare. Il nostro passo è incerto, il pensiero confuso, la vista sfocata.

Agitu è stata uccisa.

Spaesati ci troviamo a fare i conti con un atto brutale che interrompe il flusso denso e multiforme di un’esistenza, quella di Agitu, posta nel mezzo di una costellazione composita di centinaia di uomini e donne, attivate e partecipi dentro un campo energetico che in lei aveva il fulcro più vitale e contagioso.

Spazi interrotti.

Si è incrinato uno spazio di possibilità che aveva nell’ibridazione – culturale e imprenditoriale, di genere e di identità – il suo valore aggiunto di innovatività, la sua anima concretamente utopica, la sua quotidiana e faticosa – e perché no, talvolta anche incoerente – prassi operativa e trasformativa. Un margine abitato e reso abitabile, per dirla con Bell Hooks, che non è confine che separa ma soglia verso ciò che potrebbe essere. Resistenza e desiderio, che devono confrontarsi con la natura imperfetta e mai pacificata della natura umana. Essere molteplice e non statico, in costante trasformazione. Un ridefinirsi che gode degli incroci tra diversità e non nega la dimensione conflittuale.

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L'altro 'Gigante dello Stretto'
Acquarello di Gianfranco Neri

(17 novembre 2020) Se riconosciamo questo tempo come cupo e interessante, non possono che accadere cose così, cupe e interessanti. Di quelle cupe (ahimè prevalenti) ne parliamo – più o meno a dovere – in ogni momento.

Oggi vi voglio parlare di una bella storia che mi riempie di gioia e che mi dice che malgrado le avversità ne vale la pena, che quel che si fa sul piano dell'impegno insieme esigente e disinteressato, così estraneo alle cose di questo mondo, può essere riconosciuto. Anche là dove forse meno te lo aspetti, considerato che si è sempre un po' stranieri in patria e che il rapporto fra società civile, politica e istituzioni è spesso segnato da condizionamenti di potere.

Il fatto è che la realtà talvolta ci sorprende, nella sua complessità e nella ricchezza di sfaccettature. E così può accadere che a Reggio Calabria vinca le elezioni comunali la coalizione guidata da Giuseppe Falcomatà e che nella formazione della Giunta comunale venga chiamato come vicesindaco una persona come il professor Tonino Perna, un amico con il quale ho condiviso idee, valori e una parte importante del nostro sguardo sul mondo.

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Preparare il tempo
Cammino

di Francesco Picciotto

(11 novembre 2020) Si approssima la stagione invernale. E per la prima volta nella mia vita ho la sensazione che questa possa rappresentare l'inverno del cuore e dell'anima ancora prima di essere l'inverno del corpo. Neanche l'apice solstiziale costituisce più una consolazione e una speranza di luce e apre semmai ad un tempo che non riusciamo a decifrare né a prefigurare e che per questo ci lascia spaventati ed attoniti.

In questo tempo senza precedenti in un'ottica generazionale veniamo spinti collettivamente al di sotto del livello di bisogni al quale la maggior parte di noi era abituata e questo ci catapulta in una nuova condizione in cui paure e certezze, gioie e dolori, nella loro contrapposizione agli estremi di una forbice molto più ampia, hanno un'intensità nuova. Non sono più impregnati da quel tepore proprio di un'umanità che si situa molto in alto nella piramide di Maslow, ma sono semmai caratterizzati da temperature estreme che ci sottraggono dalla fascia temperata del nostro pianeta e ci gettano, senza alcuna preparazione, in un angolo del nostro universo, stretti fra la temperatura di Plank e lo zero assoluto delle nostre nuove emozioni.

 

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venerdì, 17 luglio 2020 ore 17:30

Conversazione sulle elezioni comunali di Trento
Le Camalghe

Care amiche e cari amici,

come sapete il 20 e il 21 settembre prossimi (salvo imprevisti) si vota a Trento per il rinnovo del Consiglio Comunale. Queste elezioni – che avrebbero dovuto tenersi nello scorso mese di maggio ma che la pandemia ha fatto slittare – sono un passaggio importante per la nostra città e non solo.

Trattandosi di elezioni comunali il voto ci dirà quel che i nostri concittadini pensano della loro città, di come è stata amministrata, del suo essere stabilmente ai primi posti delle classifiche sulla qualità del vivere in Italia ma anche delle sue contraddizioni e di come potrebbe cambiare.

Il voto nel capoluogo porta con sé anche altre implicazioni. Non possiamo non cogliere che si tratta del primo test elettorale locale dopo il voto che nell'ottobre 2018 ha consegnato il Trentino nelle mani della destra. E che saranno le prime espressioni di voto “dopo” (ma occorre prudenza considerato che a livello globale siamo nel periodo della sua massima espansione) la tragedia del Coronavirus.

Cadine (Trento), via delle Camalghe 9

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Pensieri per un cambio di paradigma
il logo dell'incontro

Care amiche e cari amici,

questa nota viene inviata a tutte le persone che in vario modo hanno partecipato agli itinerari / incontri del “Viaggio nella solitudine della politica” (www.zerosifr.eu).

Un viaggio iniziato nella primavera del 2017 con l'intento di indagare pensieri e politiche attraverso i tanti limes europei e mediterranei che hanno segnato e segnano la storia e il nostro tempo.

C'eravamo ripromessi di concludere questa navigazione nel corso del 2020 ma l'insorgere della pandemia ci ha costretti ad interrompere la programmazione che prevedeva gli ultimi quattro itinerari (Apulia, il ponte verso il vicino Oriente; Andalusia, lungo le tracce del califfato e del Don Quijote; il tratto di mare fra la Sicilia e la Tunisia; I luoghi simbolici del delirio del Novecento, da Verdun e la Ruhr, ad Auschwitz per giungere a Chernobyl). Non sappiamo se nei prossimi mesi ci saranno le condizioni per realizzarli, ma in ogni caso – realmente o in maniera virtuale – quelle strade e quei luoghi rientreranno nelle riflessioni di questa nostra piccola comunità di pensiero.

Perché è forse questo – una piccola comunità di pensiero – l'esito di questo viaggio senza meta. Non necessariamente un pensiero comune, ma un comune interrogarsi sulle categorie con cui leggiamo il nostro tempo e la curiosità verso i percorsi individuali e collettivi che lo abitano. E poi il viaggio, come una forma politica collettiva che, a pensarci bene, ha segnato la storia dell'umanità ma che si è andata smarrendo nei rituali come nella metamorfosi della politica.

 

Dieci pensieri per dieci nodi

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Cittadini adulti, sudditi bambini
Paternalismo

L'amica Daniela di Modena mi segnala questo suo intervento intorno alla vicenda Covid 19 e ai rischi che l'epidemia si porta appresso. Che volentieri riprendo.

di Daniela Tazzioli *

Fin dal primo giorno di questa epidemia, mentre il governatore della mia regione, Stefano Bonaccini era indeciso se chiudere le scuole o no il 24 febbraio e rimandava dal venerdì al sabato, dalla mattina al pomeriggio, da un'ora all'altra, il suo annuncio in merito, avevo la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato nella comunicazione, che non faceva altro che alimentare confusione e panico. Questo stile poi si è ripresentato non solo in Regione, ma soprattutto a livello centrale nella gestione della comunicazione sull'epidemia e se, nella prima fase, era comprensibile per via dell’impreparazione, della confusione alimentata dall’incertezza, nelle settimane successive è diventato, prima per chi come me ha qualche strumento interpretativo e una certa sensibilità linguistica, poi anche per chi è meno attrezzato, davvero insopportabile.

 

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Perché proprio qui?
Bergamo. La colonna di camion dell'esercito per trasportare le salme dei defunti

Raccolgo dal sito www.rivistailmulino.it questa “Cartolina da Bergamo” che mi è stata segnalata dall'amica Luisa.

di Paolo Barcella*

(18 marzo 2020) Vivo nell'epicentro del contagio, a pochi chilometri dall'ospedale di Alzano, cuore del disastro bergamasco. Mi limito a fornirvi qualche dato sul presente in cui vivo, molto materiale, qualora non vi fosse giunto proprio tutto, da Bergamo.

I morti – come sostiene anche il sindaco Giorgio Gori – sono molti più di quelli che vengono conteggiati, perché non tutte le persone che muoiono hanno avuto un tampone. Infatti, già da domenica 8 marzo, gli ospedali della città non riescono più a ricoverare tutti, quindi c'è chi resta – o viene fatto rimanere – a casa a curarsi l'infiammazione fino a quando può. I morti sono così tanti che il crematorio di Bergamo non regge i ritmi e sono terminate le scorte di urne funerarie. Il padre di un fraterno amico rianimatore è morto il 13 marzo e ha avuto come data per la cremazione il 23 marzo. Ci vogliono oggi dieci giorni o più per cremare un uomo, nonostante il crematorio lavori a ritmo serrato. Le bare rimangono nelle case per 4 giorni, perché anche le pompe funebri e gli spazi cimiteriali sono al limite. Nel cimitero di Bergamo accumulano bare su bare, e le piazzano dove possono, in tutti gli spazi coperti a disposizione.

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Quell'uomo buono, libero e senza parole.
Matteo Di Menna

In ricordo di Matteo Di Menna


Le nostre vite sono di corsa, crediamo che il nostro tempo sia infinito e che possa esserci sempre un'altra possibilità. Capita che prendiamo strade che ci portano lontano da persone che ci sono care, oppure che si spezzi qualcosa, che magari ci ripromettiamo di ricomporre senza che poi se ne faccia nulla. Sappiamo che ciò che rimane sono le relazioni profonde e l'amicizia, ma presi come siamo dalle nostre piccole o grandi autoreferenzialità, nemmeno ci accorgiamo di smarrire le cose che contano di più. Insomma, il mestiere di vivere non lo impariamo mai.

Poi all'improvviso una telefonata. “Non ti ho visto al funerale” mi dice Claudio. “A quale funerale?” rispondo io. “Ma come, non lo sai? Davvero non sai niente? Matteo...”.

Mi viene un groppo alla gola. “E' stato nei giorni caldi di luglio, quasi un mese fa. Un infarto, in casa. Eravamo in tanti a salutarlo, il giro dei vecchi amici, i Camei” continua Claudio. “Pensavamo che tu lo sapessi”. Invece non sapevo nulla. L'effetto è quello di una lacerazione, che ti strappa un pezzo della tua stessa vita.

Matteo Di Menna era parte di una generazione di meravigliosi sgangherati, irregolari forse, ma che c'erano sempre dove occorreva esserci e che hanno segnato il tessuto sociale e urbano della città di Trento. C'è stato un tempo in cui con Matteo trascorrevamo giornate intere, giorno e notte, nelle occupazioni che avrebbero cambiato il volto dei nostri quartieri popolari. Una su tutte, quella del vecchio ospedale Santa Chiara che nelle intenzioni dell'amministrazione comunale avrebbe dovuto diventare la copia del centro direzionale “Europa”. Era il mese di giugno del 1975 e l'occupazione sarebbe durata almeno sessanta giorni. Si faceva sempre il mattino, in attesa che arrivasse qualcuno a darci il cambio. E la vincemmo quella partita, anche se poi la dimensione sociale di quel luogo è andata via via scemando. Oggi non c'è nemmeno una piccola memoria che ricordi come quel vecchio ospedale (e prima ancora Monastero di Santa Chiara) e il suo parco debbano la loro destinazione sociale alla lotta di una città, cosa che peraltro avevo richiesto scontrandomi con l'aridità di chi ne aveva la gestione. Senza memoria di sé, una città muore. Beh, se c'è una persona che meriterebbe un ricordo in quel luogo sarebbe proprio Matteo.

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