"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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mercoledì, 23 marzo 2016Con i ragazzi e gli insegnanti al Tambosi Battisti 8-22 marzo 2016

Nel giorno in cui la capitale di quel che rimane dell'Unione Europea viene colpita dagli attacchi terroristici sono all'Istituto Tambosi Battisti di Trento a parlare, fra Europa e Mediterraneo, di uno “scontro di civiltà” che non esiste e che pure sembra auto avverarsi.

L'inquietudine per le notizie ancora frammentate sul numero delle persone colpite a casaccio nel cuore di Bruxelles si assomma al dolore per quanto accaduto ai ragazzi della generazione Erasmus il giorno precedente lungo l'autostrada fra Valencia e Barcellona. Un incidente, certo, nulla a che vedere con la volontà di seminare terrore, ma le due tragedie in qualche modo si tengono. In questo mondo interdipendente è sempre più frequentemente così.

Il programma Erasmus è una delle poche cose che, in questi anni di ripiegamento nazionale, ha contribuito a far vivere un “sentire europeo” e quel vecchio pullman accartocciato che un autista stanco in una notte insonne ha fatto deragliare rappresenta qualcosa di più che un drammatico incidente. Ci parla di una competitività che produce deregolazione e, volendo, di altro ancora. Di certo non aiuterà ad orientare le famiglie a guardare oltre il proprio orizzonte.

Sono giovani ragazzi anche quelli che si fanno saltare in un aeroporto o nella metropolitana a due passi dalle istituzioni europee, insieme carnefici e vittime di un rancore così profondo che con la religione non centra proprio nulla. E sul quale forse varrebbe la pena di indagare, malgrado chi ancora pensa che il terrorismo si può vincere bombardando qualcosa o qualcuno. “Siamo in guerra”, dicono, senza nemmeno accorgersi che siamo noi, con le “nuove guerre” e l'insana idea dello “scontro di civiltà” ad averla voluta.

Così in un martedì pomeriggio di primavera, con i ragazzi delle quinte classi e i loro insegnanti, siamo sul pezzo. Voglio pensare che sia proprio questo il senso di un percorso formativo che s'interroga sulla “contemporaneità”.

In questo percorso ho proposto due temi, l'elaborazione del Novecento, “il secolo che nasce e muore a Sarajevo” e una storia “non raccontata” dai libri di testo malgrado riguardi 737 anni della vicenda europea e che ci aiuta a comprendere come la tesi dello “scontro di civiltà” sia priva di ogni fondamento.

Tanto nell'incontro precedente come in questo l'attenzione è molto alta. Angela, l'insegnante del Dipartimento di Lettere che ha voluto più di altri questo percorso, mi dice che non è affatto scontato. Per chi è nato negli ultimi anni del Novecento quel secolo è stato davvero breve, ma soprattutto troppo ingombrante per quanto ancora incombe sul presente, troppo coinvolte in prima persona le generazioni precedenti per non volerlo rimuovere, troppo vicino e controverso per diventare materia di studio nelle scuole. Eppure, prendere il Novecento per mano è imprescindibile, un po' come la paura che segna questo tempo.

Non ho alcuna intenzione di riproporre in questa rubrica i miei racconti sul “secolo degli assassini” o sul Mediterraneo come spazio d'incontro di ogni forma del sapere, ma avverto quanto le mie parole rappresentino per chi mi ascolta uno sguardo inedito e curioso. Spero effettivamente, come mi dice una delle insegnanti presenti, che questi incontri generino un diverso accostarsi critico alla storia e al presente come suo esito.

Spero di aver acceso in loro qualche lampadina. Nella speranza che nel loro percorso di formazione (e perché no, esistenziale) possano reincontrare qualcuna delle immagini che ho loro proposto. Di certo in questi due incontri siamo stati “presenti al nostro tempo”.

lunedì, 7 marzo 2016Paul Klee

 

... Negli stessi contesti cittadini, nella stessa fascia d'età, nello stesso passaggio di tempo... registro in queste tre occasioni d'incontro nelle scuole trentine modi d'essere, approcci e sensibilità anche molto diverse. Rispecchiano condizioni sociali e stimoli culturali che pure ci raccontano molto di questa nostra terra. In realtà tutti a loro modo (e a saperli prendere) attenti ed incuriositi, a testimonianza di quanto ci sia da investire nella conoscenza e nel senso critico di questi ragazzi. Una lezione di geografia, anche per me.

di Michele Nardelli

Devo ringraziare l'associazione “Il Gioco degli Specchi” per avermi coinvolto nell'attività di formazione rivolto ad insegnanti e studenti nell'ambito del progetto “La cassetta degli attrezzi”. Perché entrare in contatto con i ragazzi delle scuole medie superiori di Trento (Istituto professionale Pertini e Liceo Da Vinci) e di Rovereto (Istituto d'arte Depero) è sempre un'esperienza che ti permette di avere uno spaccato sociale tutt'altro che scontato e perché non è affatto vero che i giovani sono refrattari al sapere, ovviamente purché si abbia qualcosa da raccontare loro.

Quando mi è stato chiesto di portare il mio contributo ad una proposta formativa sulle “nuove geografie” ho insistito sulla necessità di coinvolgere in primo luogo gli insegnanti, affinché questo percorso non diventasse un episodio estraneo alla normale attività didattica, bensì parte integrante dell'itinerario di studio delle classi coinvolte.

Così prima ancora di entrare nel merito delle aree oggetto di indagine con gli studenti – Nicaragua, Afghanistan e Siria – ho parlato agli insegnanti della necessità di uno sguardo “presente al proprio tempo”, capace cioè di cogliere i segni di un passaggio di tempo difficile da interpretare attraverso categorie analitiche che oggi appaiono inadeguate a comprendere il nuovo contesto che si è aperto con la fine di una storia, quella del Novecento che ancora fatichiamo ad elaborare.

Agli insegnanti si chiede oggi il compito per nulla banale di introdurre i ragazzi in un contesto carico di incognite, segnato dall'inedito intrecciarsi di crisi (ecologica, economico-finanziaria, demografica, politica...), che investono il nostro pianeta tanto da metterne in discussione i precedenti equilibri. Tutto questo richiederebbe un lavoro di formazione permanente ben oltre il normale aggiornamento professionale, che semplicemente non c'è. L'autonomia scolastica avrebbe dovuto servire anche a questo, ma la riforma provinciale del 2006 è stata avversata tanto da svuotarla progressivamente.

Gli incontri con gli studenti sono stati davvero molto interessanti. Se il concetto di frontiera assume un significato sociale, allora l'istituto professionale Pertini di Trento rappresenta davvero una scuola di frontiera. L'impatto con questi ragazzi testimonia di un'umanità variopinta che vive sulla propria pelle la fatica del vivere, le contraddizioni sociali, le vicissitudini famigliari, l'esclusione e la violenza che questa porta con sé. Parlare in questo caso del Nicaragua con la testimonianza di Elia, una giovane donna originaria di quel paese, sembra una scusa per parlare di diversità e migrazioni, di paesi ricchi resi impoveriti, di saperi e culture che s'intrecciano lungo il corso della storia e che si scontrano con i processi di omologazione. Temi che forse la precocità delle esperienze di vita di molti di loro tendenzialmente distolgono dal desiderio di approfondire, fin quasi a sfidarti sul valore da assegnare alle parole. Eppure, dai volti di questi ragazzi dal futuro più incerto di quello dei loro coetanei liceali potresti ricostruire una geografia parallela della nostra stessa comunità. Qui si dovrebbe investire di più.

Al liceo artistico Depero di Rovereto la frontiera si avverte un po' meno. Il numero dei ragazzi coinvolti è maggiore (quattro classi) e l'impressione è che il percorso formativo pecchi di estemporaneità.

Sono qui con gli amici Razi e Soheila a parlare del loro paese, l'Afghanistan. Meno esotico del Nicaragua, più intrecciato con le vicende di guerra che hanno coinvolto anche il nostro paese, più esposto allo stereotipo e alla riduzione dell'altro a nemico. Stereotipi che cerchiamo di far emergere dall'immaginario di questi ragazzi: guerra, terrorismo, talebani, oppio, deserto...

Con Razi e Soheila abbiamo fatto un percorso durato anni e che ancora prosegue per cercare di superare questa riduzione e associare questo paese ad immagini diverse da quelle proposte da un mondo occidentale che, peraltro, ha contribuito non poco affinché si misurassero qui la forza muscolare delle superpotenze, lo scontro (presunto) di civiltà, gli interessi geopolitici e quelli più prosaici.

Per questi ragazzi che studiano fra l'altro tecniche di comunicazione, l'idea di associare la condizione di rifugiato a quella di regista (la professione di Razi e Soehila) non è affatto scontata e anche solo questo aspetto dà al confronto con loro un certo significato, come a pensare diversamente il loro stesso agire professionale in questo campo. Uscire dallo stereotipo, appunto. E cercare un approccio critico verso la realtà che ci viene presentata dai media.

Il terzo incontro formativo si è svolto sabato scorso al liceo Da Vinci di Trento. L'area oggetto di studio e di riflessione è stata la Siria, paese che questi ragazzi hanno iniziato a conoscere attraverso le drammatiche immagini televisive degli ultimi mesi. Tutti o quasi con il loro quaderno di appunti, a prendere nota diligentemente del racconto proposto da Nibras e delle immagini proposte da chi scrive.

Oggi se ne parla molto in Italia per effetto dei flussi migratori e del sangue che scorre. Ben poco di ciò che questo paese rappresenta nella storia dell'umanità, di città come Damasco e Aleppo che sono considerate gli aggregati urbani più antichi del mondo, dell'età dell'oro del mondo arabo che prese il via proprio a Damasco con il “movimento di traduzione” a partire dal VII secolo, estendendosi poi a Baghdad e in Andalusia. Così come ben poco si parla, per quanto riguarda la storia meno lontana, della Nahda (la rinascita del XIX secolo) e dell'ancora più recente “non allineamento” seguito alla dominazione coloniale, oppure della stessa primavera araba del 2011, quando le vie di Damasco vennero percorse da un grande movimento di protesta proseguito in forma nonviolenta per quasi due anni (nonostante le persecuzioni e gli arresti) senza che nessuno (tranne qualche piccola eccezione) in Occidente si degnasse di sostenerne le sorti.

Sono così stanco di correre appresso alle emergenze... Come a dover seguire l'effetto condizionato dei sensi di colpa. Ma quando c'era bisogno di sostenere politicamente (e sul piano formativo) le primavere arabe, nel creare quel tessuto di conoscenza e di relazioni che avrebbero potuto impedire la degenerazione violenta del conflitto, dov'erano i media? Dov'erano la politica e le istituzioni (comprese quelle religiose)?

L'insegnante che ha promosso l'incontro mi chiede quel che oggi si può fare. Rispondo che la cosa più importante sta proprio nel favorire la conoscenza e nella costruzione di relazioni che poi sono alla base di una buona cooperazione. Ciò che in realtà avremmo dovuto fare prima che parlassero le armi, quelle che abbiamo venduto e quelle che siamo tentati di usare quando pensiamo che la soluzione per sconfiggere il terrorismo sia la guerra, senza capire che quello è il loro terreno preferito. E che è necessario fare anche ora, oltre all'accoglienza, per guardare al futuro nel creare le condizioni affinché il ritorno di queste persone non avvenga all'insegna di un contesto dominato dai “signori della guerra”. L'attenzione è molto forte, si potrebbe proseguire con le molte domande rimaste nei quaderni degli appunti. Spero che questo lavoro prosegue, dunque.

Negli stessi contesti cittadini, nella stessa fascia d'età, nello stesso passaggio di tempo... registro in queste tre occasioni d'incontro nelle scuole trentine modi d'essere, approcci e sensibilità anche molto diverse. Rispecchiano condizioni sociali e stimoli culturali che pure ci raccontano molto di questa nostra terra. In realtà tutti a loro modo (e a saperli prendere) attenti ed incuriositi, a testimonianza di quanto ci sia da investire nella conoscenza e nel senso critico di questi ragazzi.

Una lezione di geografia, anche per me.

martedì, 1 marzo 2016I partecipanti

Fra il non più e il non ancora... Nel tardo pomeriggio di venerdì 26 febbraio ha preso il via il percorso “Fra il non più e il non ancora” proposto dall'associazione “territoriali#europei”, percorso che ci accompagnerà per tutto il 2016 attraverso la ricerca di uno sguardo lungo sulle contraddizioni del nostro tempo.

Si tratta di tre itinerari (“Alle radici della paura” - “Tra passato e futuro” - “Cambi di paradigma”), nell'intento di offrire alla nostra comunità, impegnata in un un difficile passaggio del suo cammino, una diversa narrazione sul presente.

Il primo appuntamento (il programma completo sarà disponibile non appena avremo definite le disponibilità dei relatori e dei luoghi) è stato dedicato alla necessità di sviscerare il concetto tragicamente moderno di “scontro di civiltà”, evocato come possibile cornice della fine dell'umanesimo.

Perché di fronte ad un mondo alle prese con una combinazione senza precedenti di crisi (ecologica, demografica, economica, culturale...), sempre più forte sembra essere l'idea che una parte dell'umanità possa essere condannata alla deriva come effetto del “diritto naturale” (la logica del più forte).

Lo “scontro di civiltà” altro non è che la narrazione di cui ha bisogno il neoliberismo per giustificare la guerra (quella che si combatte nelle tante aree di crisi acuta come quella che entra nelle nostre case attraverso la paura dell'altro), l'espropriazione delle risorse in nome di stili di vita non negoziabili, la privatizzazione dei saperi e la distruzione delle biodiversità, lo sfruttamento selvaggio nei sempre più diffusi contesti deregolati del pianeta, l'omologazione culturale e il controllo dell'informazione.

Richiede la non elaborazione del passato, la cancellazione degli intrecci che la storia ha prodotto nel suo percorso di continua contaminazione, l'affermarsi di interpretazioni culturali manichee e di stereotipi funzionali alla divisione del mondo fra inclusione ed esclusione.

Andare “alle radici della paura” significa, ad esempio, confutare l'idea stessa dello “scontro di civiltà” nel Mediterraneo e proprio questo è stato il focus dell'incontro di venerdì scorso, laddove l'apporto umanistico e scientifico della cultura araba, greca, persiana ed indiana è stato decisivo al rinascimento culturale europeo.

Soffermarsi sull'età dell'oro della cultura araba e sul “movimento delle traduzioni” che fra il VII e l'VIII secolo si espanse da Damasco a Baghdad fino in Andalusia non è dunque solo riconducibile al piacere della conoscenza ma alla necessità di comprendere come le identità siano cose vive e in divenire che si nutrono degli apporti che le relazioni (pur nella loro conflittualità) pongono in essere, lungo la storia e nel presente.

Descrivere la vita che si svolgeva a Baghdad negli anni '70 del secolo scorso, dove nei luoghi di cultura ma anche nelle strade si parlavano le lingue moderne e quelle arcaiche, dove la letteratura di tutto il mondo era diffusa nelle biblioteche e nelle università, dove pullulavano le sale cinematografiche e i teatri... ci fa comprendere come si potesse sentire un giovane studente iracheno esule in un contesto come quello italiano dove invece si guardava al mondo arabo come a qualcosa di profondamente estraneo.

E questo malgrado il fatto che i classici della letteratura europea, da Dante Alighieri a Miguel de Cervantes, fondassero le loro radici negli intrecci della cultura mediterranea, che le acquisizioni sul piano dell'alchimia come dell'astronomia, della matematica come della medicina, fossero fondate sui testi degli studiosi arabi e indiani, che gran parte della filosofia greca sia giunta a noi attraverso le traduzioni dall'arabo al latino (e successivamente nelle vulgate nazionali). I manoscritti che frate Guglielmo di Baskerville cercava nell'abbazia del venerabile Jorge – come mirabilmente narrato da Umberto Eco ne “Il nome della rosa” – non erano forse in arabo?

E che persino la poesia e la canzone d'amore siano l'esito dell'attraversamento di quel mare che oggi è diventato un immenso cimitero di disgraziati provenienti da luoghi diventati inospitali grazie alle guerre e ai cambiamenti climatici dei quali siamo in una certa misura responsabili.

Basterebbe leggere “Breviario Mediterraneo” dell'amico Predrag Matvejević per aver contezza che ciò che siamo, le parole che usiamo, il cibo di cui ci nutriamo … lo dobbiamo all'incontro di civiltà che spesso ignoriamo, saperi che hanno seguito, lungo il cammino della storia, le rotte che oggi sono dei profughi. Quelle stesse rotte che in molti vorrebbero oggi costellare di filo spinato.

Nell'indagare la storia possiamo trovare alcune delle chiavi che ci possono aiutare a comprendere il presente. Allo stesso modo dovremmo leggere gli avvenimenti del nostro tempo con la profondità dello sguardo sulla storia, consapevoli che il richiamo alla supremazia di una civiltà, di una nazione o di una razza non potrà che riportarci nel cuore di tenebra delle pagine più oscure che il Novecento ci ha consegnato.

Di tutto questo abbiamo parlato in una delle aree archeologiche della città vecchia a Trento, dove ora si trovano i locali della Volksbank. Lungo le strade in marmo rosso dove un tempo sorgeva la bottega dei vinai, una sala per quanto piccola comunque gremita di persone in un percorso di ricerca, approfondimento e di formazione che vorremmo sapesse interagire con i luoghi inariditi della politica.

Ai partecipanti abbiamo fornito una ricca bibliografia che potete trovare nella home page. Il secondo e ormai prossimo appuntamento sarà l'11 marzo con la parlamentare europea Cecile Kyenge (ore 20.30, Social Store di Via Calepina 10, a Trento). In quell'occasione proseguiremo nell'indagare i fenomeni migratori in Europa, provando ad osservarli sul piano delle opportunità culturali (e non solo) che possono venirne alle nostre comunità.