"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

23/03/2016 -
Il diario di Michele Nardelli
Con i ragazzi e gli insegnanti al Tambosi Battisti 8-22 marzo 2016

Nel giorno in cui la capitale di quel che rimane dell'Unione Europea viene colpita dagli attacchi terroristici sono all'Istituto Tambosi Battisti di Trento a parlare, fra Europa e Mediterraneo, di uno “scontro di civiltà” che non esiste e che pure sembra auto avverarsi.

L'inquietudine per le notizie ancora frammentate sul numero delle persone colpite a casaccio nel cuore di Bruxelles si assomma al dolore per quanto accaduto ai ragazzi della generazione Erasmus il giorno precedente lungo l'autostrada fra Valencia e Barcellona. Un incidente, certo, nulla a che vedere con la volontà di seminare terrore, ma le due tragedie in qualche modo si tengono. In questo mondo interdipendente è sempre più frequentemente così.

Il programma Erasmus è una delle poche cose che, in questi anni di ripiegamento nazionale, ha contribuito a far vivere un “sentire europeo” e quel vecchio pullman accartocciato che un autista stanco in una notte insonne ha fatto deragliare rappresenta qualcosa di più che un drammatico incidente. Ci parla di una competitività che produce deregolazione e, volendo, di altro ancora. Di certo non aiuterà ad orientare le famiglie a guardare oltre il proprio orizzonte.

Sono giovani ragazzi anche quelli che si fanno saltare in un aeroporto o nella metropolitana a due passi dalle istituzioni europee, insieme carnefici e vittime di un rancore così profondo che con la religione non centra proprio nulla. E sul quale forse varrebbe la pena di indagare, malgrado chi ancora pensa che il terrorismo si può vincere bombardando qualcosa o qualcuno. “Siamo in guerra”, dicono, senza nemmeno accorgersi che siamo noi, con le “nuove guerre” e l'insana idea dello “scontro di civiltà” ad averla voluta.

Così in un martedì pomeriggio di primavera, con i ragazzi delle quinte classi e i loro insegnanti, siamo sul pezzo. Voglio pensare che sia proprio questo il senso di un percorso formativo che s'interroga sulla “contemporaneità”.

In questo percorso ho proposto due temi, l'elaborazione del Novecento, “il secolo che nasce e muore a Sarajevo” e una storia “non raccontata” dai libri di testo malgrado riguardi 737 anni della vicenda europea e che ci aiuta a comprendere come la tesi dello “scontro di civiltà” sia priva di ogni fondamento.

Tanto nell'incontro precedente come in questo l'attenzione è molto alta. Angela, l'insegnante del Dipartimento di Lettere che ha voluto più di altri questo percorso, mi dice che non è affatto scontato. Per chi è nato negli ultimi anni del Novecento quel secolo è stato davvero breve, ma soprattutto troppo ingombrante per quanto ancora incombe sul presente, troppo coinvolte in prima persona le generazioni precedenti per non volerlo rimuovere, troppo vicino e controverso per diventare materia di studio nelle scuole. Eppure, prendere il Novecento per mano è imprescindibile, un po' come la paura che segna questo tempo.

Non ho alcuna intenzione di riproporre in questa rubrica i miei racconti sul “secolo degli assassini” o sul Mediterraneo come spazio d'incontro di ogni forma del sapere, ma avverto quanto le mie parole rappresentino per chi mi ascolta uno sguardo inedito e curioso. Spero effettivamente, come mi dice una delle insegnanti presenti, che questi incontri generino un diverso accostarsi critico alla storia e al presente come suo esito.

Spero di aver acceso in loro qualche lampadina. Nella speranza che nel loro percorso di formazione (e perché no, esistenziale) possano reincontrare qualcuna delle immagini che ho loro proposto. Di certo in questi due incontri siamo stati “presenti al nostro tempo”.

 

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