«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene
di Federico Zappini *
Ho visto crescere l'”Operazione sciabolata” da vicino, dentro una delle zona della città di Trento (il quartiere di San Martino) che frequento di più. Nel biennio del Covid ho visto crescere la presenza di uno dei gruppi protagonisti nelle dinamiche di spaccio, di riciclaggio di denaro e di tentativi di corruzione nei confronti di società pubbliche.
Non posso dirmi stupito. I comportamenti sopra le righe erano visibili. Se c’è un sentimento che ha attraversato questi anni (lunghi e faticosi, soprattutto per alcuni e alcune in quartiere) di convivenza forzata è la frustrazione, sostituita solo in parte oggi dal sollievo per l’emersione di un quadro accusatorio ampio e circostanziato. Chi si occupa della cosa pubblica non può accontentarsi della cronaca giudiziaria, ma deve trarre da essa qualche insegnamento più generale.
Il nostro sguardo strabico sulla droga
Nei confronti dello spaccio e del consumo di sostanze stupefacenti corriamo il rischio di vivere dentro un pericoloso corto circuito interpretativo. Ciò che ogni giorno viene denunciato è lo “spaccio a cielo aperto” che coinvolge nello spazio pubblico chi si occupa soprattutto della vendita delle cosiddette droghe leggere, oltre il 60% del traffico globale secondo vecchie stime. Si tratta in genere di fasce marginali della società, manodopera precaria dentro un pezzo di mercato che si potrebbe – e dovrebbe – asciugare con interventi di legalizzazione progressiva, capaci di sviluppare in parallelo processi di controllo e di cura, di gestione trasparente e di educazione all’uso consapevole.
Si tace spesso invece della presenza di reti ben strutturate che fanno riferimento ad altri tipi di sostanze – solo in questa operazione si sono intercettati chilogrammi di cocaina – che hanno a che fare con l’adesione a una certa parte di comunità benestante, protagonista di una ricorrente ostentazione del proprio status di ricchezza eccedente. Un pezzo di società che allude al “degrado” altrui utilizzandolo per nascondere il proprio.
La minaccia come linguaggio
Chi ha avuto a che fare con i soggetti in questione sa che l’unico linguaggio da loro conosciuto è sempre stato quello della minaccia, sulla base di una presunta impunità di cui fino a ieri mattina sembravano beneficiare.
Mi fa ancora rabbia pensare alle pressioni (con la collaborazione anche di alcuni rappresentanti politici locali) messe in campo per fare propria l’intera area del Parco della Predara, intesa come troppo “mal frequentata” per ospitare una struttura di “alto livello” come quella da loro acquistata e ristrutturata a tempo di record.
Aver resistito a quell’aggressione ha oggi tutto un altro significato e valore, perché lo spaccio e la criminalità organizzata (ri)scopriamo si accoppiano bene con il mercato immobiliare, che basa la sua forza, la sua pervasività e le sue distorsioni sulla capacità di piegare agli interessi privati anche quelli che dovrebbero rimanere spazi pubblici, aperti e a disposizione di tutti e tutte.
L’epoca della rendita nell’economia del mattone e del turismo
I protagonisti di queste storia sembrano aver fatto di tutto per non nascondere il loro ascendente criminale pubblicando ripetutamente video molto espliciti delle loro “imprese” a base di bottiglie sciabolate e di corse con automobili di lusso. Eppure – come nella più classiche storie di criminalità organizzata – l’architettura del loro business passava per la sedimentazione dei profitti in beni immobili. Investimento questo, nella forma di alberghi, ristoranti e bar, appartamenti inseriti nella filiera degli affitti brevi, capace di far sparire la liquidità in eccesso e di produrne altra. Un metodo vecchio ma sempre buono.
Le mani sulla città – lì dove le economie di riferimento restano il turismo e l’edilizia e mancano traiettorie imprenditoriali credibili di altro tipo – sono quindi quelle che si “occupano” del mattone come moltiplicatore della rendita e approfittano di una diffusa fragilità imprenditoriale per acquistare a poco e far crescere via via il valore. Un meccanismo non nuovo che riguarda (un report della Guardia di Finanza nel 2021 parlava di oltre 100 milioni di euro da riciclare “atterrati” in Trentino) tanto la città Trento che le valli a vocazione turistica del nostro territorio e che sa interagire – estraendo tutto ciò che c’è da estrarre – con gli investimenti in infrastrutture pubbliche e le pianificazioni urbanistiche che da esse derivano.
Faremo bene a ricordarcene nell’accompagnamento delle prossime fasi del progetto della Funivia del Bondone per non avere spiacevoli sorprese in un secondo momento.
Un’altra idea di potere?
E’ qui che entra in campo il rapporto di imprese e denaro – buono, cattivo o tossico a seconda dei casi – con il potere politico. Come già sperimentato altrove, il rischio è quello che amministratori e dirigenti pubblici invece che svolgere il proprio ruolo di indirizzo e controllo si facciano attrarre – dimostrando la propria inadeguatezza prima ancora della loro connivenza – da piccole o grandi regalie, benefit di diversa natura in cambio di rapporti di facilitazioni applicate a procedure di assegnazione o vendita, concessione o autorizzazione.
Il caso “Patrimonio del Trentino” e del suo ex presidente Andrea Villotti (e di tutta la filiera a monte e a valle della sua figura, da Maurizio Fugatti ad Andrea Merler) è da questo punto di vista paradigmatico – per quel che si può leggere nelle carte fin qui rese pubbliche – di un uso spregiudicato e privatistico di una posizione di responsabilità pubblica. Il patrimonio di una comunità messo a disposizione di speculatori (nel “migliore” dei casi) o di bande criminali è un’onta gravissima per la stessa cultura autonomistica, fondata su autogoverno e responsabilità collettiva. Un segnale allarmante e che deve attivare una reazione.
Chi intende offrire un’alternativa a questo tipo di classe dirigente politica ed economica deve necessariamente partire da un rinnovato patto per la legalità e per la democrazia, per la partecipazione diffusa, creando le condizioni per uno sviluppo economico e sociale equilibrato e non dopato dalla rendita finanziaria.
L’idea di risocializzare i “beni confiscati”
E allora ecco una provocazione che può trasformarsi in un’idea simbolica e concreta. Se dovesse essere confermata la natura associativa della condotta degli imputati, prepariamoci a livello provinciale e comunale per un’eventuale risocializzazione dei “beni confiscati”, sulla base dei modelli già utilizzati sotto la spinta dell’Associazione Libera per reagire alla penetrazione di meccanismi criminali dentro il tessuto economico locale e per rimetterne in circolo le proprietà tornando a dedicarle a un uso collettivo. Ho in mente un albergo – pronto all’uso – che tornerebbe buono per far fronte almeno a un pezzo della crisi abitativa che colpisce anche la città di Trento.
Dalle mani sulla città alla città che riprende in mano il suo futuro è un attimo. Se lo vogliamo davvero.
* da https://pontidivista.wordpress.com/
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