"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Ripensare la cooperazione

di Giulio Marcon (apparso su Il Manifesto, 21 novembre 2008)

La manovra finanziaria di Tremonti taglia del 56 per cento i fondi alla cooperazione allo sviluppo. A questa drastica riduzione va aggiunta la cancellazione dei finanziamenti all'educazione allo sviluppo e la vergognosa scelta di privilegiare per la cooperazione quei paesi che collaborano al rimpatrio dei loro immigrati dall'Italia. 

Gli impegni internazionali del nostro paese continuano a essere disattesi. Una vera devastazione, che però discende dall'onda lunga della débâcle che la cooperazione allo sviluppo ha subito in questi decenni. È una crisi di vecchia data. L'avvento del neoliberismo, la fine della guerra fredda e la mutazione delle relazioni geopolitiche hanno cambiato radicalmente uno scenario che porta con sé la crisi del vecchio paradigma dell'«aiuto allo sviluppo». Su questa crisi si interrogano Michele Nardelli e Mauro Cereghini in Darsi il tempo, in uscita in questi giorni con le edizioni della Emi. La sfida che ci propongono è quella dell'alternativa a un modo di fare cooperazione ormai fallito e quindi radicalmente inadeguato di fronte alle trasformazioni della globalizzazione economica e delle relazioni politiche internazionali. Darsi il tempo è il provocatorio messaggio di un nuovo paradigma dove cooperazione e modello di sviluppo si sostengono reciprocamente e in cui alla rapacità, la voracità e la velocità della crescita economica della globalizzazione liberista vengono contrapposte la sobrietà, la qualità, la sostenibilità di una società conviviale, di cui Illich e Latouche ci hanno parlato in questi anni. Per dirla con Langer anche per la cooperazione vale l'antimotto olimpico: lentius, profondius, suavius invece di citius, altius, fortius. Ai «paesi in via di sviluppo» il tempo è stato rubato sull'altare di una visione onnivora dell'economia e dello sviluppo: il tempo - come in tutte le moderne economie della conoscenza e dei segni - è divenuto «fattore produttivo» anche nel rapporto con i paesi del Sud del mondo. La cooperazione (un certo modo di farla) con la sua invasività, inostenibilità e incoerenza è stata strumento di questa idea produttivistica, colonialista e militarizzata delle relazioni sociali e umane nei paesi «aiutati». Infatti, oggi la cooperazione italiana è ancora dominata dall'«aiuto legato» (cioè dall'obbligo dei paesi beneficiari di acquistare beni e servizi dalle imprese italiane), dalla sudditanza alla politica commerciale e del Ministero dell'economia e all'export del made in Italy. E magari - come in Afghanistan - dall'intreccio con l'interventismo militare. È una cooperazione «di servizio», subalterna a una logica di un mondo che nel frattempo è radicalmente cambiato. Tale logica trova - ricordano Michele Nardelli e Mauro Cereghini - proprio nell'aiuto umanitario la conseguenza più sbagliata e strumentale: invasiva, assistenziale, militarista, dall'alto. Invece la strada è un'altra: quella della solidarietà dal basso fondata sul partenariato e l'orizzontalità. «In un mondo interdipendente non può esserci più cooperazione unilaterale: o si cambia insieme o non si cambia». E' nell'idea di sviluppo locale che si trova un concetto chiave di un modello diverso di fare cooperazione, che diventa pratica della relazione. «Cooperazione come relazione, cambiamento reciproco tra comunità e persone», continuano Michele Nardelli e Mauro Cereghini. Non c'è più chi aiuta e chi è aiutato, chi fa cooperazione e chi ne beneficia, un Sud (dove ci sono molti Nord) diverso da un Nord (dove ci sono molti Sud): in questa epoca le carte si sono rimescolate. Il Brasile vuole essere attore e non solo beneficiario di cooperazione e sono settecento mila le badanti immigrate in Italia che fanno cooperazione con noi permettendoci di tappare la falla dell'assenza di politiche e soldi per la non autosufficienza. Questa consapevolezza - che gli Autori approfondiscono con cura - ci serve per affrontare nel modo migliore il «qui e ora» delle attuali emergenze: i tagli alla cooperazione della finanziaria, l'interventismo militare-umanitario in Afghanistan, le politiche sicuritarie e ricattatorie sull'immigrazione degli ultimi mesi. Il guaio è che le Organizzazioni non governative (Ong) di casa nostra - troppo prese dalla gestione e dalla quotidianità - non fanno bene nessuno dei due mestieri (oltre a quello prioritario di fare buoni progetti e interventi): non hanno la forza ostinata della radicale opposizione alle scelte del governo di centro-destra, né il coraggio di una dura riflessione critica e autocritica sul modo di fare cooperazione. Vivacchiano. E intanto Tremonti taglia tutto quello che può tagliare alla cooperazione per poi magari inventarsi in futuro una international social card (dopo quella national per gli anziani) anche per i reietti dei paesi più poveri. «Aiutiamoli a casa loro», insomma. Con la beneficenza. Proprio il contrario di una solidarietà fondata sui diritti e la giustizia.

 

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