"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Campi impraticabili?

campi impraticabili

«La maledizione di vivere tempi interessanti» (66)

di Michele Nardelli

Tutti temevano la tornata di elezioni amministrative di domenica scorsa. Tanto è vero che nessuno, almeno prima del voto, ha voluto politicizzarne più di tanto il valore. La complessa decifrabilità del risultato permette ora ai leader nazionali di partito ti tirare acqua al proprio mulino, chi per dire di aver registrato una controtendenza positiva dopo una fase di progressivo ridimensionamento (centrodestra), chi per mascherare nelle liste civiche un risultato non proprio lusinghiero confidando nei ballottaggi (PD), chi per affermare che la competizione amministrativa è altra cosa rispetto alle elezioni politiche (M5S) e così via.

Di certo questa tornata amministrativa una cosa l'ha messa in evidenza: nessuno può far da sé. Non è cosa da nulla, soprattutto a sinistra. Perché l'idea che il PD fosse autosufficiente era una tentazione maggioritaria ben prima del renzismo. Tentazione morta e sepolta dopo l'esito referendario ed ora confermata anche dal risultato elettorale per quanto parziale.

Ne viene una movimentazione politica a 360 gradi di cui danno ampia cronaca i giornali e nella quale anche i partiti minori sembrano rinascere. Persino il M5S sta ragionando attorno ad una possibile alleanza post elettorale con la Lega, tanto che spregiudicatamente fa esercizio di abbracciarne alcuni contenuti (per altro non nuovi nelle uscite di Grillo) su immigrati e rom.

In questo quadro in movimento si distingue il “Campo progressista” di Giuliano Pisapia che si propone di ricostruire lo schema ulivista a partire dalla convention prevista il primo di luglio a Roma, quasi un altro centrosinistra che potrebbe anche prescindere dallo stesso PD. Uno schema ampio tanto che lo slogan proposto per l'incontro romano in Piazza Santissimi Apostoli è “nessuno escluso”. Immaginando un bagno di folla capace di ridurre Renzi a miti consigli e ad accettare le primarie per il candidato premier del centrosinistra.

Se ragionassimo a prescindere dalla sconfitta culturale e politica che ha segnato la fine del Novecento lo schema potrebbe sembrare perfetto. Finisce la boria dell'autosufficienza maggioritaria, il partito di Renzi non può permettersi di rilanciare l'accordo del Nazareno, prende corpo l'idea di un'area di centrosinistra plurale ed europeista, tenendo fuori solo gli impresentabili.

Ma è possibile prescindere da quella sconfitta storica? Si può eludere il nodo cruciale della natura della crisi della politica? Credo di no, e per due ragioni di fondo. In primo luogo perché quello che abbiamo non è il migliore dei mondi possibile. E perché la crisi della politica è di “sguardo”, investe le sue categorie interpretative come i paradigmi del passato.

Partiamo dalla prima. La necessità di sconfiggere i populismi che s'aggirano per il mondo non può legittimare il sistema che ha contribuito in maniera determinante a produrli. Questo mondo che ha messo in conto di poter escludere 3 o 4 miliardi di esseri umani per permettere agli altri di continuare nella loro insostenibilità è lo stesso che ha dichiarato la guerra di cui parla Papa Francesco, è lo stesso che sostiene come non negoziabili gli stili di vita connessi al modello di sviluppo fondato sul primato del mercato, nelle sue forme postmoderne della finanziarizzazione e della guerra permanente. Insomma, questo modello di sviluppo non è il nostro.

La seconda ragione è che se vogliamo cambiare questo mondo lo dobbiamo saper leggere con occhiali diversi da quelli otto/novecenteschi, lo dobbiamo saper descrivere attraverso paradigmi diversi da quelli del progresso, dello sviluppo senza limiti, della guerra come levatrice della storia, dell'uomo signore della natura, del lavoro che rende liberi, dello stato/nazione come forma di organizzazione della società, della sovranità nel tempo dell'interdipendenza e così via.

L'una e l'altra sono ragioni profonde che mi portano a considerare impraticabili (pur non sullo stesso piano) tanto il campo renziano come quello progressista. Quello di cui c'è bisogno è un lavoro di ricostruzione di un nuovo pensiero di liberazione che necessita di un tempo disteso, non condizionato da un'agenda politica a sua volta dettata dalle emergenze e dalle scadenze, che sappia guardare oltre ed esprimere nuove visioni, capace di far tesoro delle esperienze che – per quanto ancora limitate – di questo cambio di paradigma sono espressione.

Questo lavoro non si sviluppa a prescindere dalla necessità di abitare i processi del reale. Perché è proprio la realtà a richiedere chiavi di lettura diverse, in assenza delle quali non faremo altro che riproporre strade già percorse e risposte inadeguate.

In questo passaggio, caratterizzato da un “non più” che ci attarda e un “non ancora” che fatica ad emergere, è possibile il prendere corpo di uno spazio di innovazione politica originale. Per il quale vale la pena re-immaginare l'impegno personale e collettivo che del “viaggio nella solitudine della politica” è l'essenza.

 

1 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Pier il 02 luglio 2017 00:04
    La cronaca politica italiana non rassicura, fa paura. Il partito è diventato personale e la cecità sul voto delle ultime elezioni non pone problemi al segretario PD. (vedi il pensiero di Simone Veile 1909-1943 che ho voluto conoscere brevemente questa sera) Ben vengano le iniziative per re-immaginare l'impegno personale e ... per ricostruire un SETIMENTO per il bene COMUNE e non solo personale. Spero che al prossimo voto molti prendano coscienza che qualcosa deve cambiare e sappiano premiare chi s'impegna per l'innovazione.
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