"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Non alla servitù, non all'assedio né all'autocrazia

L'onda verde del 2009

di Michele Nardelli

(9 gennaio 2018) L'Iran è un paese cruciale. Lo è per la sua vastità (più di cinque volte l'Italia) e per collocazione geografica (fra mondo arabo e lontano oriente), per la ricchezza del suo territorio e per le sue risorse naturali. Lo è infine per la sua storia che affonda le radici nell'antica Persia e per la cultura che tradizionalmente ha saputo esprimere. Aspetti che, malgrado colonialismo, dittature e guerre, fanno di questo paese un riferimento che va anche oltre lo scacchiere mediorientale.

A ben vedere è dalla rivoluzione del 1979 che depose lo Scià Reza Pahlavi, uno dei peggiori dittatori che la storia moderna abbia conosciuto, che l'Iran è al centro di strategie di destabilizzazione a carattere internazionale. Perché quella rivoluzione rappresentò – dopo la sconfitta del Vietnam – il secondo grande scacco alla politica nordamericana e coloniale nella regione. Tanto da armare l'Iraq in una guerra d'aggressione che durerà nove anni (1980 – 1988) nella quale complessivamente persero la vita un milione e mezzo di persone, con l'unico esito di militarizzare entrambi i paesi e favorire così la formazione di due blocchi di potere che avranno in Saddam Hussein e Mahmud Ahmadinejad la loro espressione. Il primo, da alleato fantoccio diverrà il satrapo da abbattere con due guerre a carattere globale quali furono la prima e la seconda guerra del Golfo. Il secondo, un conservatore fanatico sostenitore del radicalismo religioso da contrapporre al corso riformatore della Repubblica islamica proposto da Kathami e Rafsanjani.

Se ne occuperanno gli elettori e le elettrici iraniani a liberarsi democraticamente di Ahmadinejad nel 2013 dando vita ad un nuovo corso che, pur fra le mille contraddizioni di una repubblica teocratica, ha rappresentato un'importante apertura in un certo senso simboleggiata dall'accordo perseguito con tenacia dall'ONU e dall'Unione Europea (forse l'atto politico più importante in politica estera dell'Unione) nel 2015 con il quale venivano progressivamente eliminate le sanzioni economiche imposte all’Iran a fronte della limitazione del programma nucleare attraverso un sistema di controlli da parte dell’ONU alle sue installazioni nucleari civili. E che il nuovo corso della Casa Bianca e il governo israeliano vorrebbero far saltare.

Stati Uniti e Israele non nascondono affatto l'idea di una radicalizzazione della tensione con l'Iran fino allo scontro militare, in primo luogo per alimentare il potere delle lobby militar-industriali che pesano in maniera decisiva sull'orientamento dei governi e poi immaginando che questa sia la strada per il controllo e l'eterodirezione di quel paese. Una politica che abbiamo già conosciuto nelle guerre in Iraq e in Afghanistan, con le tragiche conseguenze che sappiamo. Ma se non ci sono riusciti in questi paesi, figuriamoci in Iran.

Il fatto è che in questi anni l'Iran è diventato un paese chiave nelle dinamiche del vicino Oriente e non solo per essere il riferimento della componente sciita nel panorama dell'islamismo politico, quanto piuttosto per aver rappresentato l'opposizione più netta sia alla strategia dell'Isis che al dominio di uno dei blocchi politico/militari che giocano sullo scacchiere della regione.

Tre sono infatti i soggetti che qui si confrontano a suon di guerre (Siria e Yemen in primo luogo), conflitti a bassa o media intensità (Palestina), terrorismo, servizi segreti, destabilizzazione dei singoli paesi nella regione. Il primo blocco è quello che fa capo a Israele e agli Stati Uniti, consolidatosi dopo il cambio della guardia alla Casa Bianca, e di cui sono parte integrante l'Arabia Saudita del principe Mohammed bin Salman, l'Egitto del generale al-Sisi e i paesi del Golfo (escluso il Qatar). Il secondo blocco è quello che vede la Turchia (la vera potenza crescente della regione) in alleanza con i Fratelli Mussulmani presenti in tutti i paesi, cui guarda con interesse la Giordania scaricata dagli USA per effetto della troppo stretta relazione fra Trump e Netanyahu. E infine il terzo blocco espresso nell'alleanza fra la Russia di Putin, la Siria di Assad, il Libano di Hezbollah, l'attuale governo iracheno e l'Iran.

Strategie ed interessi diversi, anche mutevoli, dove in realtà la divisione del mondo islamico fra sunnismo e sciismo sembra centrare ben poco, tanto che un fattore pericoloso agli occhi di chi vorrebbe esercitare una politica di influenza sulla regione potrebbe rivelarsi l'avvicinamento fra due soggetti tradizionalmente lontani ma di crescente peso politico e che più si sono caratterizzati per dinamismo, la Turchia (in larghissima parte sunnita) e l'Iran (sciita). Con, ma anche senza, il benestare di Putin.

E' contro questa possibile alleanza, che metterebbe oltremodo fuorigioco gli Stati Uniti, che Trump e Natanyahu hanno alzato il tiro e non è affatto casuale che i bersagli di questa ricostruita intesa dopo la parentesi Barack Obama siano Gerusalemme (ovvero la questione palestinese) e l'Iran.

Gerusalemme capitale dello Stato d'Israele è una provocazione atta a far saltare ogni residua ipotesi di dialogo e comunque a spostare ancora una volta il quadro di un eventuale negoziato sempre più a favore dei falchi israeliani che proseguono nella loro strategia di erosione delle condizioni minime per immaginare la nascita di uno stato palestinese (se così si può chiamare un territorio privo di ogni livello anche solo formale di sovranità). Ma anche ad impedire che possa crescere fra i palestinesi come fra gli israeliani un possibile (e quanto mai necessario, a mio avviso) confronto oltre il paradigma dei “due popoli per due stati” in una triplice prospettiva, quella di una confederazione araba regionale, quella di un progetto politico euromediterraneo o, infine, quella di uno stato bi-nazionale secondo la proposta avanzata dall'antropologo israeliano Jeff Halper.

Per quanto riguarda l'Iran, fa specie la tempestività con la quale l'amministrazione nordamericana e i media internazionali hanno soffiato sul fuoco delle manifestazioni che per alcuni giorni hanno infiammato una parte di questo paese. Non voglio affatto dire che le persone che hanno affollato le piazze delle città iraniane siano provocatori al soldo di interessi israelo-americani, ma che la realtà è sempre più complessa di quel che appare. Non deve sfuggire la natura diversa delle proteste delle scorse settimane rispetto all'“Onda verde” che attraversò questo paese nel 2009 (e che vedeva protagoniste le grandi città e le Università), il loro coinvolgere soprattutto le aree più periferiche (e povere) del paese dove è più forte l'opposizione tradizionalista e militarista, come l'eterogeneità degli slogan e delle rivendicazioni. Contraddizioni reali si sovrappongono a motivi strumentali per indebolire il governo di Hassan Rouhani ed ogni lettura semplificata non aiuta a comprendere la portata e il significato degli avvenimenti.

E' quel che scrive Soheila Mohebi, regista di origine iraniana che vive da dieci anni a Trento. Con la sua straordinaria sensibilità, Soheila affida ad un racconto “Il signor Guardia” che poi altro non rappresenta che una metafora sulla natura tormentata di questo paese sospeso – per usare vecchi paradigmi – fra tradizione e progresso, o forse più propriamente fra neofeudalesimo e stato di diritto. In un contesto globale più incline al carattere postmoderno del primo che alla faticosa ricerca del secondo.

Paese a forte rischio sismico, l'Iran, non solo per effetto delle placche tettoniche che l'attraversano, ma perché né la servitù, né l'assedio e tanto meno l'autocrazia religiosa possono aiutare a trovare strade diverse di giustizia e di libertà. Per l'Iran, ma non solo.

 

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