"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Una chiave di lettura della nostra insostenibilità

Val Visdende (particolare)

di Michele Nardelli

(giugno 2020) Avevamo appena iniziato le prime presentazioni del libro “Il monito della ninfea” quando a febbraio lo scoppio della pandemia Covid-19 ci ha costretti a cancellare una dopo l'altra le numerose presentazioni che avevamo in calendario.

Un libro non è niente di fronte alla morte di migliaia di persone, oltre tutto in un contesto dal quale non sappiamo quando e come si uscirà. Malgrado ciò la legge del mercato impone la fine del lockdown, nella speranza di una regressione della pandemia ma imboccando di fatto la strada dell'immunità di gregge.

Eppure proprio quel libro, quel monito della ninfea1 cui è ispirato il suo titolo, rappresenta una chiave di lettura del nostro tempo. Non solo una buona occasione per parlare della tragedia che nell'ottobre del 2018 ha spazzato via 42.535 ettari di foreste dolomitiche, ma di quel che accade intorno a noi, dell'insorgere di una peste moderna che, come per il surriscaldamento del pianeta, il cambiamento climatico, lo sciogliersi dei ghiacci, la frequenza degli eventi estremi, l'invasione delle locuste ed altro ancora, affrontiamo come emergenza senza comprendere che è l'esito della nostra insostenibilità. E dunque per riflettere, scorgere i nessi, imparare dagli avvenimenti.

«Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe» scrive profeticamente Walter Benjamin nel suo frammento filosofico dedicato all'Angelus Novus di Paul Klee. Era il 1921, la prima guerra mondiale aveva seminato di morte il pianeta ma il peggio doveva ancora arrivare. Vedeva la tempesta, «quel che chiamiamo il progresso».

Ne “Il monito della ninfea” parliamo proprio della catena di eventi di questo tempo, delle crisi scambiate per emergenze, delle fonti di inquietudine che lo attraversano.

L'insorgere di nuove patologie come la pandemia in corso non è affatto estraneo a tutto questo. Pensiamo forse che la vita in agglomerati urbani di decine di milioni di persone in assenza di adeguate strutture di servizio e di controllo della salute pubblica non abbia nulla a che fare con le mutazioni virali? Che il peso epidemiologico dell'inquinamento (PM 10 e PM 2,5) nella diffusione delle malattie polmonari e delle allergie non centri nulla?

Sempre più numerose ma ancora poco ascoltate sono le voci che s'interrogano sulla natura di quel che accade, come se ognuno di questi eventi fosse a sé stante oppure una maledizione caduta dal cielo. Non era così per la peste che nel tardo Medio Evo fece morire un terzo della popolazione europea, per l'epidemia spagnola che all'inizio del secolo scorso fece cinquanta milioni di morti, per le guerre che hanno decimato il Novecento. Come ben poco si riflette su un modello fondato sulla crescita senza limiti che ha portato il pianeta nel territorio dell'insostenibilità.

Nell'emergenza ci si affida al ritorno alla normalità, quando il problema è proprio questa normalità, ovvero il modello di sviluppo che ci ha portati oltre il limite. Non mi piaceva quel rassicurante “tutto andrà bene” e non mi pare sia andato tutto bene.

Mentre ancora siamo alle prese con il Covid 19, il pianeta ha vissuto un'altra grande sciagura, un'invasione di locuste che per dimensione non ha precedenti negli ultimi settant'anni. Ed anche in questo caso – come ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres – non si può non vedere «il legame tra il cambiamento climatico e la crisi dell'invasione di locuste. Mari più caldi significano più cicloni che generano il terreno fertile ideale per le locuste». Se ne parla poco ma, secondo la FAO, l'effetto di tale invasione in Africa e in Asia mette in pericolo la sopravvivenza alimentare di 25 milioni di persone.

Crisi che si sovrappongono: alla tempesta Vaia è seguita l'acqua alta a Venezia, i roghi in Amazzonia, nelle foreste siberiane e in quelle australiane, la progressiva perdita di biodiversità. L'inverno che abbiamo appena trascorso è stato il più caldo in Europa da quando vengono svolte le rilevazioni e i livelli idrometrici nelle stazioni di controllo dei bacini italiani sono largamente al di sotto delle medie stagionali.

Se fossimo delle Cassandre potremmo dissertare su come l'emergenza stia cambiando la vita sociale, culturale e democratica. Temo il frastuono delle padelle, gli eroi, gli inni e l'orgoglio delle nazioni. Prima ancora temo il carattere verticale dell'emergenza, l'incrinarsi dell'equilibrio fra i poteri, il paternalismo degli uomini soli al comando e l'occultamento della verità. E, in tutto questo, l'incrinarsi del già debole progetto politico europeo.

Non è sufficiente valorizzare le pratiche di solidarietà delle tante persone che in questi mesi hanno messo in gioco la propria vita per fermare la pandemia, è urgente prendere coscienza che occorre una forte discontinuità rispetto al passato. Non è un passaggio semplice, perché il delirio delle magnifiche sorti e progressive, l'idea della signoria dell'uomo sulla natura, ha segnato l'antropocene ed è alla radice dell'incapacità di far nostra la cultura del limite.

Serve un nuovo sguardo sul mondo, un cambio dei paradigmi sui quali si è fondata la modernità: la consapevolezza del limite, delle risorse come delle nostre esistenze; l'insegnamento che – contrariamente alla scritta che campeggiava ad Auschwitz – il lavoro non rende liberi; la comprensione che la forma dello stato-nazione è la negazione dello stato di diritto e che il nazionalismo è stata la peste che ha fatto del Novecento il secolo degli assassini; la coscienza che la pace si prepara con il disarmo e l'educazione alla nonviolenza.

L'ultima parte de “Il monito della ninfea” è proprio dedicata alla necessità di tornare sui propri passi, di riconsiderare il valore delle cose e dei comportamenti, di come rientrare nella sostenibilità: un cambio di paradigma che possiamo sintetizzare nell'espressione “fare meglio con meno”. Non la crescita infinita, dunque, né la decrescita come idea di rinuncia, bensì la scelta di ripensare questo nostro stare al mondo.

Questo è l'intento de “Il monito della ninfea”, un modo per leggere questo passaggio di tempo e per immaginare un cambiamento del nostro modo di pensare, di agire e di vivere.

E' un invito alla lettura, ma non solo. Durante l'estate e preferibilmente all'aperto, compatibilmente all'evolversi della pandemia, con Diego Cason vorremmo riprendere le presentazioni del libro. Per questo non esitate a contattarmi.

“Il monito della ninfea” si può richiedere nelle librerie oppure ordinarlo direttamente alla casa editrice (https://www.bertellieditori.it/). Si può trovare anche su Amazon o altre piattaforme di vendita online.

1 «... resta pur sempre valido il monito espresso dall'immagine della ninfea che raddoppia quotidianamente le sue dimensioni, di modo che, il giorno che precede la copertura dell'intera superficie dello stagno la metà ne resta ancora scoperta, per cui quasi nessuno, alla vista di tanto spazio libero, è portato intimamente a credere all'imminenza della catastrofe».

 

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