"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Il cavallo di Santiago

Plaza Dignidad

 

Plaza Dignidad - lettere dal Cile. La newsletter sul processo costituente cileno

di Federico Nastasi

(28 marzo 2021) È stato dipinto, bruciato, coperto di bandiere, incappucciato. Ripulito. E poi di nuovo dipinto e bruciato. E infine rimosso. Salutato con onori militari da alcuni, con un grido di liberazione da altri. Questa è la storia del cavallo di Santiago, simbolo della transizione tra un vecchio ordine che resiste e un nuovo che stenta a nascere. E qui siamo a Plaza Dignidad – Lettere dal Cile.

Il 2020 è stato l’anno delle statue buttate in acqua, decapitate, dipinte: negli USA con Black Lives Matter contro le statue di Colombo e degli schiavisti, con Francisco Franco a Barcelona, con Indro Montanelli a Milano. E anche in Cile, il processo costituente in corso non si limita a superare la Magna Charta imposta dalla dittatura militare, ma punta a cambiare i nomi ai luoghi, ai titoli dei libri che si leggono nelle scuole, ai colori delle bandiere. Di questo - e delle elezioni costituenti che si terranno tra due settimane - ho parlato con Arelis Uribe, una «delle eccellenze della nuova generazione di scrittrici cilene» secondo El País.

Statue ed alberi

L’anno scorso, nel sud del paese, a Temuco, regione ad alta concentrazione mapuche - il popolo originario più grande del paese - è stata decapitata la statuta di Pedro de Valdivia, conquistatore spagnolo che guidò le campagne militari contro gli indigeni. La sua testa è stata poi messa in mano ad un’altra statua, quella di Caupolicán, capo militare mapuche, eroe della resistenza contro gli spagnoli.

Alcuni giorni fa, nella capitale cilena, è caduto un altro simbolo: il monumento equestre del Generale Baquedano, “rimosso per restauro” nelle intenzioni del Consejo de Monumentos Nacionales. Baquedano a lungo è stato considerato eroe nazionale, per le sue gesta nella Guerra del Pacifico e nella “pacificazione della Araucania”, il nome che la storiografia ufficiale dà all’espansione del Cile a danno dei mapuche. Per lui era stata eretta una statua e intitolata una piazza, che tutti però chiamavano Plaza Italia. È stata quella piazza ad accogliere i milioni di manifestanti che hanno dato vita alla rivolta del 2019, innesco del processo costituente in atto. Ed è stata ribattezzata Plaza Dignidad (si trova così anche su Google Maps) e il Baquedano a cavallo è diventato il simbolo del conflitto tra il vecchio e il nuovo ordine.

«Plaza Dignidad, ex Plaza Italia, a un certo punto si è trasformata nel luogo di esposizione della statua di un militare, protetta da altri militari. Il cavallo è stato rimosso per essere restaurato, cioè per continuare a proteggerlo. Il messaggio è che l’ordine, le istituzioni protette con le armi, sono più importanti del libero flusso del cambio sociale» commenta Uribe.

Adesso nel centro di Plaza Dignidad campeggia un piedistallo vuoto, simbolo di un paese in cerca di identità. Sul piedistallo c’è chi vuole metterci una statua di Violeta Parra, chi propone di farci una rotonda. «Che ci metterei io? Niente! Toglierei il piedistallo e tutte le statue di militari in Cile e nel mondo. E al loro posto pianterei alberi. Gli alberi e le montagne sono le statue di madre natura» afferma Uribe.

Quiltros e cuicos

Arelis Uribe è nata in un quartiere popolare di Santiago nel 1987, di recente ha pubblicato Las Heridas, ma è con il suo libro di racconti Quiltras che si è fatta conoscere al grande pubblico, ha vinto un premio del Ministero della Cultura del suo paese e il suo testo è stato ripubblicato anche in Spagna.

Se l’America del Sud fosse un quartiere, il Cile sarebbe il vicino arrivista che si compra un’auto grande e un cane piccolo e usa spesso assegni e carta di credito (Quiltras, 2016)

Uribe si definisce una “scrittrice della classe operaia”, una quiltra. «Quiltro è un concetto cileno che viene dal mapudungún (la lingua dei mapuche), si riferisce ai cani di strada. Una quiltra è una cagna mezzo sangue, orfana e vaganonda, senza casa né pedigree» spiega Uribe, raccontando così un po’ del classismo cileno, un paese che discrimina non solo in base al reddito, ma anche al cognome, al colore della pelle, alla scuola superiore. «La mia adolescenza è stata molto quiltra. Il mio mondo non assomiglia a quello cuico (delle élite cilene) descritto da Jose Donoso, assomiglia a Pedro Lembel» (“l’unico scrittore cileno che si truccava e usava i tacchi alti, cresciuto vicino ad una discarica, uno degli autori di maggior successo del nostro paese” lo descrive una nota della Biblioteca Nazionale Cilena). Uribe racconta di essersi sentita smarrita quando cominciò a leggere i grandi classici cileni, tutti scritti da cuicos «erano belli, ma parlavano di luoghi che non conoscevo. Non sapevo che la letteratura potesse arrivare anche dalla periferia» afferma.

La differenza tra quiltros e cuicos «una tensione di classe che riconosco nella letteratura, non è superata. Al contrario, oggi più che mai, le contraddizioni del capitalismo sono in crisi. Per questo è scoppiata la rivolta nel 2019: sono le braccia del popolo, sfinite nel sostenere la piramide sociale, che usano la loro energia per costruire qualcosa di nuovo, a partire da un cambio radicale, dal disordine, dal caos» ragiona Uribe.

Il Cile tra dieci anni

Camminando per le strade di Santiago, costeggiando il centro culturale GAM, si possono vedere foto, murales, installazioni artistiche che raccontano di un nuovo paese. La bandiera cilena tutta nera, la bandiera mapuche, il volto di Victor Jara o di Violeta Parra, gli occhiali di Allende, il perro matapaco: sono i simboli del nuovo Cile che sostituiscono quelli attuali.

Il sorgere del nuovo Cile è conflittuale, caotico, sono “i dolori del parto” secondo il giornalista Matamala. Una delle espressioni sociali di questa rabbia viene dai giovani della primera línea, l’avanguardia dei manifestanti che si confronta con fionde contro i carrarmati dei militari «sono giovani che non hanno paura dei carabineros, che sanno che la polizia è un lebbrosario, che vogliono che tutto bruci perché non trovano la felicità nel capitalismo» li descrive Uribe.

La quale è scettica rispetto al cammino costituente in atto e alle elezioni dell’assemblea costituente previste per il prossimo 10 e 11 aprile «Dopo il 18 ottobre 2019, avevo creduto al cambio sociale, alla rivoluzione. Adesso, vedo come le istituzioni stanno assorbendo la crisi sociale, come la sottomettono, attraverso le elezioni di una specie di assemblea costituente. Mi delude che la democrazia sia una sfida tra élite, organizzata con formule matematiche incomprensibili. La vita pubblica è sempre più organizzazione di corporazioni e sempre meno assemblee spontanee» afferma Uribe, ricordando i cabildos, riunioni di quartiere, dove migliaia di persone hanno discusso di Costituzione, forme di educazione civica a cielo aperto che hanno animato il paese fino all’arrivo della pandemia.

Tutti meno Neruda

La nostra conversazione si conclude parlando di libri. «Cosa leggere della letteratura cilena? Tutti meno Pablo Neruda» afferma senza incertezze Uribe. Attorno alla figura del premio Nobel cileno è in corso una riconsiderazione dei meriti, umani più che letterari. Negli ultimi tempi, infatti, è sorta un’ombra nella luminosa vita del poeta: l’abbandono della prima moglie e della figlia Malva, affetta da idrocefalia, che aveva “il corpo come un punto e virgola” scrisse Neruda, che mai rispose alle richieste di aiuto della ex moglie, neanche quando lei lo supplicò «ti scrivo questa lettera con gli ultimi soldi che ho: abbiamo bisogno di aiuto». E continua Uribe: «bisogna leggere Violeta Parra più che suo fratello Nicanor, più Pedro Lembel che Roberto Bolaño. E poi Gabriela Mistral, Paulina Flores, Juan Pablo Roncone. Leggeteli tutti, sopratutto le donne». E leggete anche lei, la quiltra Arelis Uribe. E che qualcuno la pubblichi anche in Italia.

Da leggere.

Prima di salutarci, un consiglio di lettura: un reportage sulle bambine suicide de El Salvador. Tutti abbiamo visto le immagini delle carovane di migranti che attraversano il Centroamerica a piedi e bussano alle porte degli USA. Questa è la storia di chi rimane, di chi non si mette in cammino, delle donne, delle bambine che vivono in un paese talmente violento - il più violento nella regione più violenta del mondo - che è stato il primo a inserire il reato di suicidio-femminicidio. Il reportage multimediale è grande giornalismo, è un racconto terribile e necessario.

Per oggi da Plaza Dignidad - Lettere dal Cile è tutto, alla prossima!

 

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