"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Cambiamenti climatici

Val Visdende

Va ripresa la coltivazione/gestione della montagna: boschi e pascoli

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Con questo documento Mountain Wilderness Italia non intende fornire linee guida selvicolturali o entrare nei particolari dei temi ambientali che troverete solo accennati. Né tanto meno fare una disamina degli effetti dei cambiamenti climatici sulle montagne. Certo è che i due temi sono le fondamenta che ispirano questa presa di posizione. Il documento vuole essere un invito alle popolazioni delle montagne italiane, agli amministratori pubblici, dalle regole alle ASUC, dai Comuni alle Provincie, dalle Regioni allo Stato, a riprendere la gestione giornaliera del territorio investendovi risorse economiche, umane, scientifiche con una particolare attenzione a diversi
fenomeni sociali e naturali in atto:

- lo spopolamento delle montagne ritenute periferiche o – peggio – marginali;

- il consumo di suolo sempre più diffuso fino alle alte quote: non ci si pone più alcun limite;

- la grande fragilità dei boschi che se da un lato aumentano invadendo per esempio pascoli abbandonati, dall’altro diminuiscono in seguito ad attacchi di insetti, incendi e tempeste di vento;

- la perdita di biodiversità nei boschi e sugli alpeggi;

- l’abbandono della cura di sentieri e aree vicine a malghe e piccoli borghi montani;

- l’arrivo in montagna di nuovi soggetti che fuggono dalle città (chi ne ha possibilità economiche e lavorative) sempre più bollenti e al limite della vivibilità. 

Il documento è nato dalle sollecitazioni ricevute, sempre più frequenti, e a seguito di collaborazioni e condivisione dei problemi dell’associazione con enti pubblici proprietari di boschi, enti sconvolti dalla velocità di propagazione del degrado forestale, associazionismo volontaristico attivo.

Non vi è dubbio alcuno: la tempesta Vaia, i sempre più ravvicinati fenomeni meteorologici estremi con effetti disastrosi, l’impressionante accelerazione dello scioglimento dei grandi ghiacciai alpini, l’emblematico crollo di un pezzo di ghiacciaio della Marmolada, la siccità che ha caratterizzato l’intera primavera ed estate 2022, la grande frana di Stromboli, gli incendi diffusi, la devastazione forestale causata dall’attacco di parassiti alle piante sono situazioni fra loro diverse ma inserite in una sola causa scatenante: l’aumento delle temperature medie del pianeta e di conseguenza, con una incidenza di danni moltiplicati, nelle aree montane.

La concatenazione degli eventi, il ripetersi di questi fenomeni con frequenze sempre maggiori ci deve portare da subito a superare gli interventi di emergenza, la cultura dell’emergenza: questa cultura chiama in causa commissari straordinari e affida alla comunque benemerita ed efficiente Protezione Civile le operazioni di pronto intervento, appunto emergenziali.

Emergenza significa lettura della situazione nel breve periodo, isola il contesto dalla complessità del territorio, porta attenzione alla soluzione del problema specifico. a tutti evidente come sia necessario rivedere, in ogni realtà, le analisi del territorio, quindi modificare le pianificazioni in atto ponendo attenzioni inderogabili, fino ad oggi sottostimate, nei campi del consumo di suolo, delle carte dei rischi, della difesa delle biodiversità, della valorizzazione delle aree protette, delle gestioni idrauliche dei corsi d’acqua e delle foreste nazionali.

Riguardo le gestioni forestali, da più parti e con sempre maggiore insistenza si invoca la necessità di aumentare i tagli dei boschi (utilizzazioni) adducendo il fatto che i boschi italiani sono in continua espansione (vedi inventario forestale 2015). Non si tiene presente che la riconquista del bosco di superfici abbandonate o mal gestite (pascoli di alta quota o vicinanze di abitati) impiega decenni a strutturare un vero e proprio insieme, una associazione forestale strutturata. In Italia saremo anche ricchi di alberi, ma con una diffusione preoccupante di boschi fragili, poveri, generalmente monospecifici, monoplanari e coetanei.

Riconvertire questa situazione verso foreste più resistenti e resilienti è impegnativo, anche nella visione temporale, perlomeno un secolo: si tratta di un percorso che non va sostenuto solo con le utilizzazioni, dove previste e normate, ma anticipato da una programmazione, anche locale, basata su ricerche approfondite, su studi ecosistemici e che abbia come obiettivo basilare il potenziamento e il recupero della biodiversità vegetale ed animale con l’aumento della fertilità dei suoli. Ancora più grave, si evita di dire che mentre da un lato il bosco aumenta perché va ad occupare pascoli abbandonati o aree prossime ai paesi, dall’altro è drasticamente diminuito per tempeste di vento (non solo Vaia), incendi e attacchi di parassiti. La propaganda nazionale che sostiene le utilizzazioni sempre più spinte anche a causa delle nuove necessità energetiche evita di fare i conti in modo corretto: se dall’incremento (560.000 ha) togliamo le superfici boscate (160.000 ha bruciati nel 2020, 150.000 quest’anno ad agosto, 50.000 ha devastati da Vaia più le zone bostricate che stanno aumentando, solo per citare gli esempi più eclatanti) il risultato non è certo così positivo da consentire un incremento dei tagli, che devono rimanere contenuti e fatti in modo oculato per preservare i boschi che ancora resistono. Non si dice infine che se il bosco sembra avere una estensione maggiore è mediamente molto al di sotto della massa ottimale, 156 mc/ha invece dei 300 mc/ha che sono il minimo per un bosco evoluto e resiliente. Non ci soffermiamo ad elencare i valori della foresta: sociali, economici e di sicurezza. Va però evidenziata la strategicità delle superfici forestali e delle singole piante nell’assorbimento dall’aria dell'anidride carbonica e la fissazione di questa nel prodotto legno. Come va sottolineato che la biodiversità è insita nella complessità di un sistema naturale, non certo nella sua semplificazione.

Le ultime catastrofi che hanno colpito per lo più le aree orientali delle foreste delle Alpi italiane, la tempesta Vaia e il successivo attacco del bostrico (Ips typographus), ci hanno trovati impreparati. Eppure in tutta Europa catastrofi simili con schiantate da vento di dimensioni molto superiori si susseguono dagli anni ’90 del secolo scorso al ritmo medio di due all’anno. Come del resto le schiantate da neve sono all’ordine del giorno ogni stagione invernale. I maggiori danni colpiscono foreste monospecifiche, coetanee, ad un certo livello di maturità e specialmente le conifere (peccete in particolare). Il problema non va letto in una realtà locale, seppure ampia, ma continentale. Bisogna inoltre tener conto che nell’ultima estate caratterizzata da estrema siccità e temperature elevate il bostrico ha attaccato l’abete rosso ovunque, non solo dove ha infierito Vaia, ma anche in Valle d’Aosta, in Piemonte, Lombardia e negli Appennini, segno che di fronte al cambiamento climatico le specie in sofferenza saranno sempre più preda dei parassiti.

In Europa dal 1958 al 2001 si aveva una media di schiantate di 2,9 milioni di mc/anno (esclusi i danni da piogge acide). In tre soli anni, 2019 – 2021 si sono avuti una media di oltre 200 milioni di mc/anno di schianti: una fragilità accentuata in modo particolare da due annate consecutive siccitose (dati delle ricerche della Fondazione Edmund Mach del Trentino).

La previsione nel breve e medio periodo, per tutta Europa, è quella di una drastica riduzione delle popolazioni di Picea al di sotto delle quote di 1200 – 1500 m.s.l.m. Questo sarebbe un problema relativo pensando ad una successione di piante più adatte come abete bianco, larice, faggio ed altre latifoglie, ma il timore è che anche le altre specie stiano soffrendo a causa del riscaldamento globale.

Anche l’attacco del bostrico era un fenomeno preventivato e documentato dalla letteratura scientifica. Generalmente ad una schiantata da vento o da neve segue un quasi analogo danno da attacco da bostrico. Eppure anche in questo caso in Italia ci siamo fatti trovare impreparati, pubbliche amministrazioni e attori della filiera del legno. Ora la diffusione del parassita da endemica è nella fase epidemica. I danni alle foreste di abete rosso causati dallo scolitide possono arrivare fino al 200% degli schianti subiti, in situazioni specifiche si possono raggiungere percentuali ancora più spaventose, fino al 500%, specie laddove non si sono rimossi con prontezza gli schianti. Il ciclo dell’attacco di bostrico varia dai 5 ai 7 anni: alte temperature e situazioni siccitose aumentano la virulenza dell’insetto nell’attacco a piante in sofferenza e quindi incapaci di resistenza.

Pochi dati per illustrare una realtà campione e ben studiata: quella trentina. Dal 1990 al 2020 si è avuta una media di attacco da bostrico di 2200 mc/anno. Dal 2021 si superano i 200 mila mc. Nelle trappole di cattura del bostrico a ferormoni nel 2019 vi era una media di catture annuali per singola struttura di 3.380 insetti, nel 2020 si è passati a 26.753, nel 2021 a 22.315, al 10 agosto 2022 siamo a 23.111; ad oggi si registrano diffusi attacchi del parassita anche a quote prossime i 2000 metri e vengono interessati anche larici. Gli ettari di superficie forestale ad oggi colpiti nella Provincia sono 2953 (giugno 2022), in costante aumento.

Nel Veneto la situazione sembra ancora più difficile. Se il valore soglia di allerta è stimato in 7/8.000 insetti per trappola la media nel bellunese nel 2021 è stata di 38.355, 44.045 nell’Agordino, 41.524 nel Feltrino fino ai 43.998 nel Longaronese e nello Zoldano. Se nel 2020 le superfici colpite dall’insetto erano stimate in 153 ha, nel 2021 si è passati a 975 ha. Il 2022 sarà ancor più disastroso.

Che fare? Dal punto di vista selvicolturale, accompagnando il lavoro dello sviluppo naturale degli insetti antagonisti, più che asportare grandi superfici di piante morte o intervenire sui margini è consigliabile intervenire sulle piante appena colpite ed asportare fin da subito il legname dalle superfici forestali, scortecciando quanto prima il tronco. Con il tempo si dovrà accompagnare la crescita naturale dei boschi del domani favorendo, laddove possibile, l’incremento di resistenza e la resilienza delle strutture forestali. Quindi boschi misti e disetanei, attivare un impegno coerente e costante rivolto allo sviluppo della selvicoltura naturalistica, una selvicoltura che risulti essere meno funzionale possibile alle tecnologie meccaniche di esbosco e soprattutto seguire le indicazioni ed i tempi della natura piuttosto che voler accelerare tutto magari con scelte sbagliate.

necessario diffondere da subito una comunicazione sociale corretta, efficace e diffusa, ovviamente forte di basi scientifiche e di ricerca. Va superato il consolidato, diffuso ma devastante concetto di “estetica forestale”, l’idea che il bosco pulito sia quello senza materiale legnoso a terra, che è invece prezioso per la rinnovazione e la fertilità del bosco.

Da subito si deve bloccare l’avanzante frammentazione delle superfici forestali dovuta alla costruzione invasiva di nuova viabilità forestale, sempre più ampia, alla presenza di viabilità statale e provinciale diffusa, di infrastrutture per il trasporto dell’energia – elettrodotti, di altre reti di servizio, di impianti sciistici e nuove piste di sci sempre più vaste con aggregazione di parchi divertimenti e altre attrattive che favoriscono antropizzazione, una revisione culturale e degli interventi nelle regimazioni idrauliche che ad oggi rispondono quasi unicamente a criteri ingegneristici.

Rafforzare la diffusione di nuovi equilibri forestali prestando le finora trascurate, minimali attenzioni rivolte alla fauna selvatica, alla microfauna, al mondo dei funghi, dei licheni, alla fertilità dei suoli forestali. Occorrono da subito nuove condizioni ecologiche con linee guida prescrittive che seguano il più possibile e in modo diffuso l’evoluzione naturale dei nuovi boschi, potenziando le aree di protezione, preparando anche la strutturazione nel tempo di foreste vetuste.

Come ci ha lasciato scritto Francesco Bacone “Non possiamo comandare alla Natura se non obbedendo a Lei”. Senza trascurare il lavoro legato alla produzione di legname si dovrebbe avere sempre presente che il bosco naturale viene da solo e che i tempi della natura non sono i nostri. Certo, in una lettura di breve periodo possiamo affermare che i boschi sono entità naturali fragili e tali risultano essere. Lo documentano i recenti accadimenti, la loro fragilità ci dovrebbe imporre maggiori attenzioni e delicatezza nell’intervenire. Ma sappiamo anche che ogni ecosistema naturale vive un perenne disequilibrio, è un’associazione di vite in mutamento, che si adattano a quanto succede attorno per resistere meglio ai cambiamenti, per garantire nuova vita, per incrementare biodiversità. I cambiamenti climatici in atto rendono questi mutamenti violenti e sempre più ravvicinati nei tempi, situazioni che ci colgono sempre di sorpresa. Noi esseri umani, rispettando i mutamenti dei sistemi forestali, possiamo accompagnarli, forse anche rafforzarli. Dovremmo avere ben presente che costruendo sicurezza naturale sulle alte quote rendiamo un servizio straordinario e trasferito sul lungo periodo a quanti sono costretti a vivere nelle grandi pianure europee e nelle aree urbane.

Alcuni obiettivi sociali e politici 

Nell’accompagnare questi mutamenti possiamo investire in lavoro, recuperando quanto abbiamo trascurato nel recente passato e affrontando nuove sfide. Il documento è stato ispirato da questa necessità, ormai al limite dell'urgenza. I lavori che proponiamo partono da investimenti nel campo scientifico e della ricerca per arrivare a consolidare sui territori lavoro manuale. Con investimenti pubblici sobri, costanti nel tempo e con la diffusione di fiducia sui territori, arriveremo ad invertire una situazione di abbandono che non solo ha danneggiato o degradato nel tempo suoli e soprassuoli forestali e pascolivi, ma anche a recuperare lavoro, cura, gestione corretta, costruzione identitaria e culturale del vivere la montagna.

- Ricostituire il Corpo Forestale dello Stato, dotato di sua autonomia e capace di lavorare in sinergia con gli altri corpi di polizia dello Stato, smilitarizzandolo. O, in alternativa, costruire dei Corpi Forestali Regionali anche nelle Regioni a Statuto ordinario.

- Assieme agli attori interessati, proprietari terrieri, industria e artigianato, commercio, strutturare in Italia una filiera del legno certificata e capace di lasciare sui territori di montagna il maggiore valore aggiunto prodotto.

- Rafforzare l’azione di controllo sul territorio. Grazie all’apporto del Corpo Forestale dello Stato, o Regionale, grazie al supporto di una sempre più diffusa vigilanza territoriale dei comuni e comunità.

- Recuperare ed avviare al lavoro nelle Regioni e nelle Province autonome personale stagionale specializzato nel lavoro in bosco. Si tratta di squadre diffuse sui territori con gli scopi di intervenire nella manutenzione delle superfici boschive, provvedere laddove ritenuto necessario alla piantumazione, alla gestione di queste superfici nel corso del tempo. Intervenire con diradamenti selettivi, interventi di emergenza su schianti o attacchi da parassiti, manutenzione regolare della viabilità forestale e delle strutture forestali (baite, ricoveri, rifugi), la sentieristica e relativa tabellazione informatica. Non va relegato come secondario aspetto la manutenzione dei pascoli di alta quota e delle superfici aperte in bosco. Tale personale va gestito da tecnici di adeguato profilo
professionale e da una specifica struttura burocratica. Potrà disporre di mezzi di lavoro non solo manuali (accette, badili, picconi, motoseghe), ma anche di mezzi di trasporto, di trattori, di verricelli, di gru a cavo laddove si ritenga opportuno e lo si reputi necessario (medio-grandi proprietà). Avendo ben presenti i problemi di gestione di un simile investimento è necessario mantenere e rafforzare un adeguato percorso formativo sulla sicurezza del lavoro e sulla gestione tecnologica dei mezzi.

- Chiedere alle Regioni e alle Province autonome di investire adeguate, sostanziose, continue risorse economiche rivolte al sostegno di analoghe squadre di operatori forestali dei comuni proprietari di boschi, delle ASUC, delle Regole, con la garanzia che questi investimenti vengano strutturati su tempi di impiego lunghi. Consapevoli delle difficoltà burocratiche presenti negli enti pubblici causa la scarsità di personale, la copertura economica negativa di simili lavori, è auspicabile che gli enti proprietari o si associno fra loro, o lavorino a livello di comunità di valle o di bacino, o investano in cooperative di servizio “verde” legate alla gestione delle superfici silvopastorali.

- Vanno poste attenzioni specifiche al lavoro di recupero di superfici silvopastorali nelle aree protette, siano questi parchi nazionali, regionali, provinciali, zone di Rete Natura 2000. In queste aree va garantita la massima attenzione rivolta alla conservazione dei beni, al recupero di biodiversità, alla trasformazione delle foreste da produttive ad aree di protezione e conservazione integrale. I parchi devono rimanere luoghi di eccellenza per la sperimentazione scientifica.

- In ogni situazione la nuova pianificazione, oltre che indirizzata all’incremento cospicuo di massa legnosa, dovrà prestare maggiori attenzioni alla gestione della fauna selvatica, dell’avifauna, della microfauna, ai processi di modifica del patrimonio micologico e dei licheni, all’incremento della fertilità dei suoli, alle dinamiche relative ai temi della sicurezza idrogeologica e valanghiva.

- Infine urgente e sempre più necessario è investire nella conoscenza, educazione ambientale e comunicazione corretta, passaggi che stanno alla base di un uso corretto delle risorse e di comportamenti individuali di rispetto e di risparmio delle risorse, anche da parte dei singoli proprietari.

Questo breve documento vuole essere un forte richiamo rivolto agli enti pubblici ad un ritorno ad investire nel lavoro dei boschi, parliamo sia di lavoro di alto profilo scientifico, sia nell’ambito privato che pubblico, ma anche in manodopera specializzata. Su tutti noi pesa una domanda alla quale va data risposta: fra un solo decennio chi sarà rimasto a lavorare in foresta? Chi gestirà il 50% del territorio nazionale? Con quali mezzi e quali risorse? Qualora i territori delle alte quote venissero definitivamente abbandonati a sé stessi, come sta accadendo, quali sarebbero le conseguenze nelle vallate di montagna, nella qualità dell’offerta turistica dei territori, della conoscenza delle montagne da parte dei residenti stessi? E quali sarebbero le conseguenze di un totale abbandono dei lavori in montagna per le aree urbane di fondovalle o nei centri industrializzati delle grandi pianure?

*** Mountain Wilderness Italia - 23 agosto 2022

 

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