"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Oltre il feticismo del paesaggio

Acquerello di Nicola Magrin

di Ugo Morelli

Riprendo la riflessione che l'amico Ugo Morelli ha scritto per la rivista online “Doppio Zero” (www.doppiozero.com) attorno al nostro “Inverno liquido”

A un ospite è richiesta la cortesia di domandare. Non è così che noi, ospiti del pianeta Terra, ci siamo comportati e ci stiamo comportando, da un certo momento in poi della nostra storia evolutiva. “Bastava fermarsi un momento, alzare lo sguardo, ragionare e uscire dai cliché”. Così scrive Maurizio Dematteis in Inverno liquido, (DeriveApprodi, Roma 2022), il libro scritto con Michele Nardelli, per cercare di riportare al paradigma dell’Antropocene e della crisi climatica la questione del declino di un intero modello di sviluppo, quello dello sci di massa come fattore caratterizzante dell’economia alpina. Ecco, la domanda da porsi allora diventa: ma perché è così difficile fermarsi un momento a riflettere e uscire dalla forza della consuetudine conformista nonostante le evidenze, cambiando finalmente punto di vista e comportamenti?

Un crogiolo di resistenze, rinvii, ritorni alla consuetudine; insieme a saturazione ed occlusione delle prospettive di cambiamento e trasformazione necessarie, attraversa tutto il libro e si connette strettamente a uno dei problemi principali posti da Augustin Berque nel suo Pensare il paesaggio, appena pubblicato da Mimesis Edizioni (Milano-Udine 2022). Scrive Berque: “Non si è mai parlato così tanto di paesaggio come nella nostra epoca, non si sono mai avuti così tanti paesaggisti (nel senso qui di professionisti della pianificazione paesaggistica), non si sono mai pubblicati così tanti libri di riflessione sul paesaggio (e questo è l’ennesimo), in breve, non c’è mai stato un così intenso fiorire di pensiero del paesaggio…e, al contempo, non si sono mai devastati così tanto i paesaggi. Siamo dei gran chiacchieroni, sappiamo parlare molto bene del paesaggio, ma siamo anche in totale contraddizione con i nostri stessi discorsi; i nostri atti vanno in un senso opposto. Più si pensa il paesaggio e più lo si massacra” [Berque, p. 44].

La contraddizione tra dire e fare richiama il rapporto tra consapevolezza e azione, che si mostra per nulla automatico. Possiamo essere consapevoli dell’inefficacia o delle conseguenze indesiderabili di un certo comportamento ma non per questo cambiare quel comportamento. Sarebbe importante fermarsi a riflettere, appunto, ma è proprio quello che non facciamo rassicurandoci con la forza dell’abitudine. Alla base di tutto questo, secondo Berque, vi è una metafisica della rappresentazione il cui asse portante è la distanza radicale che intercorre tra soggetto e oggetto. Rimuovere l’insostenibilità del nostro modo di vivere e abitare la Terra, misconoscendo il valore del limite, induce a cercare rassicurazione in quello che non solo ha funzionato nel tempo, ma ha anche garantito un modello di sviluppo dominante e ritenuto l’unico possibile. Quel modo di vivere, lavorare e usare le risorse è evidentemente distruttivo delle stesse condizioni della vivibilità, e la sua insostenibilità è allo stesso tempo ecologica, etica (perché produce sempre più elevate disuguaglianze) ed estetica. Rompe cioè la struttura di legame che tiene insieme il sistema vivente e mette in discussione la vivibilità delle specie, compresa la nostra che ne è la principale responsabile. Se in ognuno di noi si coniuga un corpo animale individuale e un corpo collettivo, eco-tecnologico-simbolico, che rappresenta il nostro mondo, l’unico che abbiamo, noi siamo paesaggio, in quanto il paesaggio è interno e intorno a noi.

Basterebbe un’immagine, che però mostra di non bastare, proposta da Dematteis e Nardelli, per riflettere e cambiare: quella degli impianti di risalita arrugginiti e in disuso che tempestano le vallate alpine intorno ai mille metri di altitudine. “Sono il simbolo di un sistema di crescita infinita che oggi è ormai al tramonto, un sogno interrotto che ha cullato e illuso le comunità nelle terre alte”. Potremmo parlare di quello che accade con la previsione progressivamente in aumento dell’innalzamento delle acque dei mari che minacciano la vivibilità nelle isole e nelle città costiere. Michele Nardelli, riprendendo un monito di Laura Conti, si domanda se non siamo già nel territorio dell’irreversibilità e come mai non siamo riusciti e non riusciamo a riconoscere che: «Da qui in avanti il momento in cui fermarsi più facile è ora. Ora è più difficile di ieri, ma è più facile di domani. Ora è più difficile che un anno fa, ma è più facile che tra un anno» [Laura Conti].

Per riconoscere come le comunità locali stanno rispondendo alla situazione in atto gli autori attivano un dialogo con i protagonisti realizzando un itinerario denso di esperienze e di vissuti, di tentativi e di fallimenti. Ne emerge un’umanità che si dimena di fronte a cambiamenti rapidissimi che avvengono nel breve spazio delle proprie vite in cui si vivono processi che in altri tempi si sarebbero manifestati in ere geologiche.

Abbiamo tagliato il legame tra soggetto e oggetto, tra noi e la natura di cui siamo parte, supponendo un modello di vita ammaliante che ci ha portato a sentirci sopra le parti e senza limiti di cui tenere conto. Per quella via i paesaggi delle nostre vite sono diventati gli sfondi del nostro agire, trattati come scontati o come feticci da fotografare e celebrare, ma non come mondi con cui coevolvere, da curare e generare.

Che fatica si fa a portare il paesaggio nella posizione di figura nella nostra esperienza, sottraendolo al ruolo di sfondo, dove tenacemente continuiamo a relegarlo! Eppure non mancano riflessioni come quella di Augustin Berque, il quale sostiene che “il nostro essere comune è in gran parte il paesaggio”. Ma che significa? Che io sono acqua, aria, suolo, energia? E che le comunità a cui appartengo sono in gran parte i contesti della nostra esperienza di vita? Beh! Sì. In buona misura significa proprio questo: pensare il paesaggio significa pensarsi. Lo spazio e il contesto della nostra vita non se ne stanno là fuori, ma li interiorizziamo come condizione stessa per la nostra individuazione e per la nostra vivibilità. Una cosa così scontata deve essere dimostrata per essere riconosciuta. Del resto, quante volte abbiamo riflettuto sulla più esistenziale e più scontata delle nostre esperienze, il respiro? Eppure, se non respirassimo un certo numero di volte in un minuto non riusciremmo a sopravvivere. Lo verifichiamo nelle situazioni traumatiche in cui abbiamo difficoltà a respirare per qualche ragione.

Utilizzando un paradosso possiamo sostenere che se non disponessimo del sistema sensorimotorio combinato con il nostro pensiero simbolico, per noi il paesaggio non esisterebbe. La trasformazione necessaria nel nostro rapporto con la vivibilità e il paesaggio richiedono perciò un paio di premesse necessarie. La prima riguarda l'esigenza di definire con una certa precisione di cosa parliamo quando parliamo di paesaggio. Ci portiamo dietro una visione idealizzata del paesaggio che lo considera soprattutto come aspetto esteriore degli ambienti in cui viviamo a partire da una considerazione che potremmo definire “romantica”, che ne idealizza il contenuto, il senso e il significato. La seconda premessa riguarda le forme narrative con cui il paesaggio viene descritto, analizzato e raccontato. Se proviamo a fare un salto di qualità giungendo a definire il paesaggio come l'esito del nostro accoppiamento strutturale con gli spazi della nostra vita, possiamo riconoscerne la natura esistenziale che lo connette alla nostra stessa vivibilità e, più strettamente, alla nostra biologia evolutiva. In questo senso il paesaggio è il nostro spazio di vita possibile, inteso concretamente come acqua, aria, suolo, energia, fattori necessari o meglio indispensabili per la nostra esistenza. Dal punto di vista educativo ne consegue che noi giungiamo a creare l'idea stessa di paesaggio muovendoci negli ambienti della nostra vita fin dalla nostra origine ed estendendo il paesaggio corpo al paesaggio stanza, al paesaggio casa, al paesaggio esterno che sia un cortile o una via o un quartiere, al paesaggio paese o città, al paesaggio mondo. Come abbiamo mostrato in un ampio percorso di ricerca il paesaggio, dal punto di vista del nostro rapporto e del nostro accoppiamento strutturale con gli ambienti della nostra vita, tende ad assumere le stesse caratteristiche della lingua madre. Così come noi non possiamo non imparare la lingua madre dal momento in cui partecipiamo a una comunità di parlanti nel contesto della nostra vita fin dalla nascita e ancor prima, alla stessa maniera noi non possiamo non elaborare un'idea di paesaggio come interiorizzazione dei contesti di vita e proiezione di noi stessi in quei contesti (U. Morelli, Paesaggio lingua madre, Erickson, Trento 2014).

Una critica al feticismo del paesaggio idealizzato e, quindi, dell'identificazione del paesaggio con il “bel paesaggio”, è perciò una condizione essenziale per sviluppare azioni efficaci che vogliano trasformare i modi di occuparsi del paesaggio e della vivibilità. Quest'ultima è intesa come l'insieme delle condizioni proprie di un ecosistema di cui noi finalmente ci sentiamo parte, non essendo in alcun modo e per nessuna ragione sopra le parti di quell’ecosistema, ma riconoscendo di essere una parte del tutto che non ha alcuna condizione di vita possibile se non dipendendo da quell'ecosistema.

Appare necessario intraprendere un percorso multidisciplinare, seguendo percorsi non solo di storia del territorio e dell’arte ma anche di filologia, filosofia e storia delle religioni, per lavorare sul paesaggio; occorre soprattutto porre al centro il sistema sensorimotorio umano, dalla percezione alla sensibilità; occorre, inoltre, considerare i contributi delle scienze della vita e della complessità dei sistemi ecologici. Questi percorsi possono portare ad avvicinarsi a concepire il paesaggio come una delle molteplici espressioni di una civiltà, prendendo le distanze dalla concezione feticistica del paesaggio come eccezione o veduta eccezionale, come panorama o come cartolina, o ancora come immagine da postare sui social media. Partendo da queste premesse, l’educazione si focalizzerà non solo sulle varie manifestazioni riconoscibili di una data cultura paesaggistica – in quanto ogni realtà sociale ed economica nel proprio contesto esprime nei fatti e con le azioni una cultura del paesaggio –, bensì sulla ricerca antropologica di costanti trasversali a diversi luoghi ed epoche, muovendosi quindi a livello spaziale e temporale, cercando collegamenti tra oriente e occidente, tra antichità e contemporaneità. Ne deriverà un ampliamento metodologico dell’analisi del paesaggio e dei suoi confini tematici e geografici: un superamento sia della concezione formalista del paesaggio sia della semplice decifrazione iconografica delle sue immagini, in favore di una scienza della natura e della cultura che interpreti l’espressione del paesaggio innanzitutto come esigenza biologica.

Questa sfida alla diffusa concezione puramente estetizzante del paesaggio pone in relazione il paesaggio con le azioni e le scelte estetiche e materiali dell’epoca, in un’ottica quindi di ricostruzione della storia della cultura della vivibilità e del modello di sviluppo di un dato luogo e periodo, al fine di chiarire in che modo e a quale scopo l’eredità delle generazioni sia stata fatta propria e utilizzata dai contemporanei. Ne emerge un aspetto più che decisivo della riflessione sulla vivibilità e sul paesaggio, quello della responsabilità che ognuno ha come costruttore di fatto, insieme agli altri, del paesaggio della propria vita. Pur incentrandosi sul rapporto tra linguaggio, azione poetica – da poiesis che vuol dire fare, noi facciamo di fatto il nostro paesaggio – e linguaggio visivo, il confronto tra parola e narrazione non ricopre quindi solo un obiettivo filologico, volto a rintracciare le rappresentazioni e le raffigurazioni, bensì ha lo scopo di mettere in luce il valore espressivo che il modello di azione individuale e collettivo assume nel creare i paesaggi delle nostre vite [cfr. U. Morelli, I paesaggi della nostra vita, Silvana Editoriale, Milano 2020].

Analizzando i modi di intendere il paesaggio nei linguaggi dominanti non è difficile riconoscere le cifre dell’eccezionalità, dell’autentico, del meraviglioso. Una sorta di sindrome celebrativa che esalta il paesaggio nel momento in cui continua a distruggerlo. Si pensi solo al consumo di suolo che prosegue a un ritmo forsennato, speculativo e ingiustificato. Laddove sarebbe particolarmente importante, prestare attenzione al valore e al fascino del piccolo, dell'infinitesimale, del frammento, senza il clamore del gigantismo. Oggi è tendenzialmente tutto orientato all'eccezionale e all'ossessione del cosiddetto autentico, all'insegna del nostro consumismo dominante che continua a insegnarci che di più è meglio, creando continui vincoli a riconoscere che il piccolo e il minimo sono straordinari. Il frammento contiene tutto se si hanno i passi per avvicinarlo e gli occhi per guardarlo, se si attivano le orecchie e le emozioni per ascoltare e il tatto per toccare. Il piccolo contiene tutto se si favorisce l'attivazione del sentire e del riconoscere che nel paesaggio c'è lo spazio di vita e c'è la proiezione dell'interiorità, tutto condensato. Ci sono la memoria e i millenni di vita in qualsiasi espressione di ogni piccolo posto perché ogni luogo è paesaggio a saperlo riconoscere.

Le narrazioni del paesaggio finiscono per proporsi come una sorta di ekphrasis del paesaggio ideale, invece che concentrarsi sull’insistenza dei fattori che emergono dal movimento nello spazio e dall’ascolto degli eventi prodotti dal vento sugli alberi e dalle azioni degli umani sull’ambiente. Questa convenzione rappresentativa non trova un riscontro nell’esperienza e si traduce in una ulteriore idealizzazione separata. Mentre sarebbe necessario procedere a una descrizione densa generata dall’osservazione partecipe e dall’ascolto, a una thick description, come la definisce Clifford Geertz, caratterizzata appunto da un “movimento intensificato” nell’ambiente per sviluppare una codificazione originale del paesaggio, approfondita e non superficiale, connettendola alla vivibilità e alla sua crisi odierna. Un’educazione così impostata individua quindi nel principio del movimento l’origine della messa a punto di una teoria della vivibilità sufficientemente buona e adatta al presente [cfr. U. Morelli, Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011].

Il cambiamento attraverso l’educazione può essere così innanzitutto un’occasione e uno strumento espressivi, che miri ad infondere, attraverso il movimento, vitalità e realismo alle sue raffigurazioni, andando quindi a improntarne lo stile tanto quanto il contenuto di un riconoscimento del rapporto tra paesaggio e vivibilità.

Il paesaggio non sarà, allora, ridotto all’invenzione di un programma iconografico o contemplativo, anche se la contemplazione è una delle caratteristiche della nostra competenza simbolica ed estetica. Il paesaggio è concepito come esperienza e simbolo della natura che nel tempo si rinnova. Ogni volta che viviamo un paesaggio è come se fosse la prima volta: si crea un legame tematico tra ogni volta che vediamo il paesaggio e noi; così come quel legame è diverso per ognuno di noi. Se la definizione di simbolo come connessione tra immagine e significato tramite un punto di comparazione, in cui la creazione e la fruizione del paesaggio si collocano in una posizione intermedia, in un precario equilibrio tra l’atto rituale del camminare e dell’osservare e il concetto puro, dal secondo, cioè dal significato, assimila la concezione secondo cui ciascun evento esperienziale agisce sulla materia cerebrale lasciando su di essa una traccia: in questo modo si può arrivare a ipotizzare una trasmissione delle immagini, e in particolare di alcune immagini simboliche, basata sulla nozione di memoria culturale collettiva. Il paesaggio è di fatto memoria culturale ed esperienziale collettiva. Questa trasmissione ha un fondamento antropologico-espressivo. Per questo motivo Aby Warburg conierà il termine pathosformel (formula di pathos) al fine di indicare questa particolare tipologia di immagini, in grado di travalicare i confini geografici e cronologici della storia dell’arte e del paesaggio, proprio in virtù del loro contenuto connesso alla passione.

Il paesaggio diviene al tempo stesso simbolo e testimonianza non solo della progressiva emancipazione nei confronti dei vincoli della tradizione e del modello di sviluppo dominante, così pervasivo e distruttivo, ma anche il fondamento proprio nella carica vitale che il paesaggio custodisce. La lettura del paesaggio ci può così restituire un quadro incredibilmente complesso e sfaccettato, capace non solo di arricchire la nostra percezione del mondo, spesso quasi interamente assorbita da sterili nozioni esteriori, ma anche di spiegare perché una modalità di vivere innovativamente il paesaggio può trasformare il nostro immaginario condiviso e, soprattutto, la nostra vivibilità sostenibile.

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