"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Della leggerezza dell’amicizia, note sparse e pensieri meditati

Praga

Report sul 14° viaggio nella solitudine della politica "Dal meriggio alla mezzanotte" (6-14 settembre 2023)

di Micaela Bertoldi

Anziché seguire l’orma di Milan Kundera con il suo libro del riso e dell’oblio, o di quello sulla leggerezza dell’essere, voglio annotare i passaggi disimpegnati di questo nostro macinare chilometri su chilometri. Al posto di un libro solo “un report” dal titolo “Report dell’amicizia e del pensiero condiviso”, potrei dire.

Parto con il racconto delle avventure del pulmino Volkswagen di Michele, da lui guidato con Claudio ed Enzo. Tre autisti, ottimi tutti. Meno ‘ottima’ la macchina che ci ha riservato alcuni grattacapi, per dirla con eufemismo. Basti pensare alla faccia sconsolata di Michele a ogni nuovo problema incontrato.

Per iniziare, poco dopo Innsbruck, la ruota davanti a destra è saltata: letteralmente stracciato il copertone. Per fortuna che nei pressi c’era un provvidenziale slargo e che la ruota fosse quella davanti a destra: in autostrada fra Tir ed auto che sfrecciano l’operazione di cambio già difficile di suo, sarebbe stata pericolosissima. Grande Enzo, nello svitare i bulloni stretti e arrugginiti, grande il lavoro di squadra fra lui e Claudio. Il resto di noi, se ne stava perlopiù attonito a osservare cosa sarebbe successo.

Giunti infine a Regensburg, l’officina provvidenziale ha dato soluzione al primo degli acciacchi della macchina (ce ne sarebbero stati degli altri nel proseguo). Ma la visita della città è saltata: troppi i chilometri per giungere a Praga.

Nel tardo pomeriggio si arriva a Praga, trovando proprio in centro, vicinissimo al ponte Carlo, un appartamento ospitale, con le finestre che di notte mostrano luci diffuse della città che s’alzano oltre i tetti e le cupole delle chiese immediatamente prospicienti al palazzo in cui siamo.

Il giorno successivo permane l’emozione sperimentata la sera attraversando l’animato ponte in cerca di un posto per la cena: l’acqua della Moldava scorre tranquilla e ci si inoltra nel centro, anzi nei centri antichi di quella che fu una stupenda capitale asburgica e che oggi è capitale sfarzosa e moderna della Repubblica Ceca: la piazza dell’orologio con la sua meccanica d’arte, la piazza San Venceslao, la visita al monumento a Jan Palak, l’aperitivo nella suggestiva cantina medievale – suggestiva per i turisti, ma non da disprezzare –, la visita alle sinagoghe e al cimitero ebraico (quello del romanzo di Umberto Eco) e poi i giardini sull’isola della Moldava.

Graziano è instancabile e sprona a camminare quasi senza sosta. Poi è la volta della salita al Castello che mozza un po’ il respiro. Discesi è un ristorante vicino a ponte Carlo ad accoglierci.

In mezzo a tutto ciò, il nostro soffermarci soprattutto sulla figura di Jan Palak, sul suo sacrificio in nome della libertà. I ricordi dell’impatto subito quando era giunta in Italia la notizia dei suoi tre giorni di agonia si sommano all’ammirazione e alla riflessione circa la responsabilità di assumere consapevolezza dei tempi in cui si vive e al dovere di fare delle scelte. Per alcuni anche estreme, per altri di portata minore: in ogni caso scelte che interpellano le coscienze, in controcorrente con il disinteresse comune diffuso.

Di fronte al monumento ricordo, una specie di croce con la coda, appoggiata sul marciapiede fra due piccoli dossi, ovvero rigonfiamenti e avvallamento in cui si ‘inciampa’, ci pare di constatare l’umiltà del gesto tutt’altro che celebrativo, bensì ispirato al senso della memoria. Mimetizzata nelle incrinature del ‘legno’ sta la data, con il nome, che si stenta a leggere. Si deve osservare accuratamente. Se non si sa che esiste, si può passare oltre senza rendersi conto. Non c’è nessun cartello o lapide segnaletica nei pressi. Del resto il nome di Jan Palak – un tempo etichettato semplicemente come suicida, per svalorizzarne il gesto –, era stato rimosso, perché non rimanesse traccia. Solo parecchi anni dopo si è fatto largo l’impegno di testimoniarne la vicenda.

Osserviamo i passanti: molti arrivano e proseguono, indifferenti. Qualche gruppo turistico si ferma. Sono per lo più anziani. O stranieri. Per fortuna vediamo anche una scolaresca. Ma l’impressione generale è che l’animazione della grande città sia diretta altrove.

Anche la visita al cimitero ebraico ha sortito un suo effetto su di noi: le tante lapidi vicine una all’altra – meno sbilenche rispetto a quando io le vidi anni fa, in segno di maggiore cura dell’antico luogo – hanno rimesso l’accento sulla secolare ostilità antisemita e riportato alla grande tragedia del Novecento, che affronteremo il giorno successivo quando ci troveremo ad Auschwitz.

Si parte con un cielo perfetto, pulito, sole abbondante secondo suggestione shakespeariana: non sa da quale opera teatrale mi proviene questa suggestione, apparentemente banale che, associata all’idea della meta che ci attende, suscita un sommovimento indefinito: il rimosso si muove? Chissà.

Lungo il tragitto l’auto dà segni di malessere: odore di gasolio, frenata lenta. Si dovrà cercare un’officina. Raggiungiamo in tempo Auschwitz per la visita guidata.

E' l’otto settembre. Per me questo numero è evocativo di varie cose: non solo per via della Storia – e l’Italia ne sa qualcosa – ma anche per il ritorno di mio padre dalla prigionia l’otto settembre del 1946, per coincidenze varie, personali: frammenti di storie di guerra e di vita che tornano in superficie. Con oggi sono 18 mesi che Francesco non è più con me. Ho portato in viaggio con noi dei testi su Mozart scritti da lui.

Dopo la visita al campo, con le lugubri baracche, il cortile delle esecuzioni, le celle di tortura, i forni crematori, le vetrine con gli effetti personali, i capelli, gli oggetti di vite bruciate, ognuno è pensoso a modo suo. Quasi sotto shock al pensiero che l’ottanta per cento di chi raggiungeva il campo, dopo agonie di giorni nei vagoni strapieni e disumani, viveva solo un’ora prima di finire sotto le docce di gas e nei forni.

Troveremo il tempo per parlarne e succederà a Cracovia, dove ci dirigiamo. Appena arrivati i sensi unici delle vie ci disorientano. Un gentile signore ci accompagna fino alla strada in cui sta l’hotel. Bellissimo, due appartamenti di lusso, ma la iper-tecnologia rende difficile accedervi e constatiamo la scarsa esperienza circa le novità della rete di ospitalità alberghiera. La stanchezza consiglia di fermarci in casa per la cena. Michele prepara una pasta. Poi si conversa circa la nostra storia politica: uno dei momenti più conviviali, finora. Effetto casa? Forse sì, un momento di accoglimento reciproco intorno a un piatto confezionato per noi. Sembra evidenziare la voglia di viaggiare e quella di fermarsi: spinte apparentemente in contraddizione che si rafforzano a vicenda.

Il mattino dopo ‘regala’ la brutta sorpresa di una multa e dello specchietto retrovisore rotto. Col dubbio se spostare o meno l’auto, si va verso il centro: la multa c’è già per sosta vietata in zona pedonale, quindi …

L’immensa piazza ci lascia senza parole: sembra svolgersi come un tessuto intorno al mercato coperto, fitto di bancarelle, che fu realizzato entro un’antica sinagoga cui furono collegati dei porticati laterali. Dall’altra parte, la chiesa o meglio, le chiese, che sono zeppe di ori, quadri e icone circonfuse di oro in stile cristiano ortodosso.

Ma il nostro passo è di fretta. Lo sguardo e la mente sono inquieti: ci sarà ancora il pulmino? Dopo il regalo della multa per l’accesso in zona destinata ai soli residenti, si è insinuata una certa preoccupazione. Si decide di andare al quartiere ebraico in auto ma al nostro arrivo, nuova sorpresa: hanno posto le ganasce al van.

Sconcerto o sconforto? Tutte due le cose, specie per Michele, ma non solo. Finalmente l’arrivo della polizia locale, le spiegazioni, la soluzione per il pagamento immediato delle multe e il rilascio.

E così arriviamo infine al quartiere ebraico, di qua e di là dal fiume, la Vistola, che vediamo dall’alto del ponte con i suoi battelli pieni di fascino.

Poi ci accoglie una danza nella piazza del mercato. Due passi fino ad un locale (forse una ex sinagoga) con botti e cisterne di rame per la birra poste sul soppalco.

E qui pranziamo e raccontiamo le emozioni di Auschwitz. Si fa approfondito il discorso sulla rimozione, si ribadisce l’importanza di trovare il modo giusto per fare la differenza rispetto all’acquiescenza e al disinteresse generale, imparando ad assumere responsabilità personale ed anche collettiva, quella cioè che assume il peso della Storia come qualcosa che ci riguarda, responsabilità anche nostra di colpe non da noi commesse. Con la domanda: come si può cercare di sottrarsi alle derive autoritarie e liberticide nei momenti estremi di tragedia, ma anche nella normale vita di tutti i giorni. Che cosa ci è dato come ‘spazio decisionale’, sempre che lo si voglia gestire? Si tratta di agire la facoltà di scelta, anche se e quando sembra essere impedita ogni possibilità. A volte lo spazio è ridotto al minimo, come ha ricordato Primo Levi, tuttavia può assumere grande valore anche la scelta di chiamarsi per nome, anziché accettare di subire l’essere solo un numero.

Discutiamo fra noi sul modo in cui la guida ci ha presentato la storia e sul valore della testimonianza. O meglio, della trasmissione di ciò che è stato e di ciò che abbiamo o non abbiamo capito. Qui ha cominciato ad affiorare il nodo della colpa storica, della responsabilità, individuale e collettiva, e del perdono.

Sfoglio il libro di Jaques Derrida1. Esiste incompatibilità fra perdono e oblio delle colpe commesse? Io penso che esista quando si tratta di colpe e crimini collettivi, come nel caso della Sohah, ma può (e forse deve) essere superata in caso di torti e colpe subite a livello individuale. Secondo un certo modo di pensare, prevalentemente di derivazione cristiana, il perdono va accordato “solo se richiesto esplicitamente, se è domandato”. A differenza di questa visione, il filosofo Derrida sostiene che un perdono degno di questo nome non deve attendere che ci sia chi lo chieda.

Derrida ricorda le parole di Jankelevitc: “Il perdono è morto nei campi della morte”. Ovvero se “il crimine supera la linea del male radicale, addirittura dell’umano, quando diventa mostruoso, non si tratta più di perdonare: il perdono infatti deve restare per così dire, tra uomini, a misura dell’umano.” (p. 39) E ciò comporterebbe il fatto “che la soluzione finale equivarrebbe alla fine della possibilità storica del perdono.” (p.40) In altro passo si avanza un’obiezione, per cui nel perdono esiste “una forza, un desiderio, uno slancio, un movimento che esige che il perdono sia accordato.” Perfino a chi non lo chiede.

Io penso che ciò ha senso nella singola scelta di coscienza, a livello individuale. Eppure anche la Storia presenta il problema della necessità/opportunità di voltare pagina dopo le tragedie barbare e disumane… Ma come si fa a voltare pagina? Come contenere la collera e l’indignazione sociale delle vittime che hanno patito o ereditato le sofferenze? Tacitando i ricordi, rimuovendo dalla memoria? Nascondendo le colpe? Coltivando la memoria, nella speranza/determinazione a che non si ripetano le tragedie, nonostante la banalità del male che si presenta nella quotidianità? Il perdono come cosa umana è sempre correlato alla possibilità di punire, non di vendicarsi: perdono finché c’è possibilità di espiare la colpa: cosa che non vale per l’olocausto. E dunque l’irreparabile non è perdonabile? Secondo Derrida perdonare ciò che è perdonabile non è perdonare.

Le generazioni successive ad Auschwitz, sono anagraficamente incolpevoli perché all’epoca non esistenti; hanno comunque ereditato il peso storico del dramma e ‘devono’ sentirne il dolore, il disagio per quello che è stato commesso. Specie se concorrono a mantenere in vita disvalori di tipo suprematista, violento e razzista, aggressivo e marginalizzante.

Parlando di come la guida ci ha introdotto alla visita, si è detto che una certa vena recitativo/retorica per noi è risultata non gradevole, anche se per visitatori digiuni della questione, può essere utile, soprattutto per i richiami alla responsabilità delle scelte che spettano alle persone che vivono oggi, in questo tempo: si pensi ai drammi che assomigliano alla vicenda di violenza contro gli ebrei, contro le minoranze etniche, contro gli oppositori dei regimi autoritari. In più riprese si è fatto cenno all’indifferenza di fronte alla tragedia dei flussi migratori, dei lager di contenimento, delle migliaia di morti ogni anno, per dire solo dello scenario europeo.

Parlando della visita da me fatta nel 2009, quando c’era un diverso allestimento del luogo, ho accennato all’emozione forte dovuta alla vetrina con i giochi dei bambini, oggi non presente. Avevo scritto due brevi poesie, che riporto qui, come promesso.

Auschwitz

Anche il tuo limone

ha spremuto la sua goccia

acida

tributo dovuto al rito

del ricordo ufficiale

emozioni di viscere

lasciate senza cocchiere

la mente in sciopero

ha incrociato le braccia.

Anche tu hai abdicato

alla pietà della ragione.

In cambio porti a casa

la fotografia scattata

sotto l’arco diabolico

-Arbeit macht frei-

La scritta irride. I morti

oggi muoiono di nuovo.



Occhi umidi

No, la bambola

non la voglio vedere.

Solo scarpe scarpe scarpe

pettini rasoi spazzole

vestiti capelli capelli capelli

capelli fatti tessuto,

le trecce bionde troncate

ogni ciocca lo stesso colore.

Tanto basta. E avanza.

Il tempo ha livellato tutto

la morte ha sepolto i respiri.

Solo il lutto a noi è rimasto.


Molte riflessioni appena accennate in quel significativo momento di pensiero, sono rimaste in sospeso e saranno riprese da chi vorrà scriverne.

Poi si è presa la decisione di saltare la tappa per Przemysl – fortezza più volte nei secoli assediata e infine presa dopo mesi di assedio durante la prima guerra mondiale: un luogo che quasi all’incrocio fra Polonia, Slovacchia e Ucraina, fu spesso oggetto di confronti a suono di cannoni, di affamamento e di morti, come ben raccontato da Paolo Rumiz.

Si va direttamente a Szentendre, non lontano da Budapest, dato che la macchina ha bisogno di revisione ed è fine settimana, con scarsa probabilità di avere riparazione in officina. Meglio arrivare fino lì, e poi col battello o col treno si andrà a Budapest, demandando al lunedì la soluzione di problemi meccanici. Quindi via, per strade di montagna, curve e saliscendi. Arriva la notte e si è ancora lontani, a causa di molte interruzioni stradali.

Al mattino dopo la bellezza di Szentendre, lungo il Danubio abbaglia, con un sole bellissimo. Nei pressi di una chiesa, sotto l’ombra dei tigli, con un praticello e una croce vicino, sostiamo seduti a conversare: uno spazio di parole sotto lo sguardo del Cristo e dei suoi discepoli che dall’alto dell’affresco sulla facciata sembra osservare il nostro discorrere.

Nel pomeriggio preso il battello, l’aria in viso accompagna i pensieri, che sembrano scivolare sulla scia d’acqua. Si sbarca a Budapest e poi via, verso il Parlamento, la zona pedonale di Pest, la chiesa di santo Stefano.

Poi pausa informativa sulla storia della città e sulla guerra di oggi in Ucraina. Quindi si va verso la stazione dei treni, attraversando il ponte delle Catene, un capolavoro di ingegneria in ghisa e acciaio, tecnologia simile a quella impiegata per realizzare la torre Eiffel di Parigi. Ed è un’esperienza unica il sentirsi sopra e nel bel mezzo della grande strada d’acqua del Danubio, mentre sotto di noi viaggiano le navi.

Il giorno successivo lo si dedica a Buda, la parte alta della città. Si sale attraverso vari gradini fino ad uscire nella grande piazza circondata dalle Torri dei pescatori. In mezzo il monumento a Mattia Corvino e la grande cattedrale a lui dedicata, dove si sono verificati i suoi due matrimoni. Grande scenario!

Ripreso fiato, sotto il sole di mezzogiorno siamo andati a scoprire la parte alta, col museo di cultura magiara e le mura che chiudono un’ampia terrazza. Da lì lo sguardo si spinge verso la periferia che appare verde, zona evidentemente residenziale. Di lusso, si direbbe. Un’infilata di cannoni – le canne appoggiate e disposte una a fianco dell’altra, segnala la funzione difensiva delle mura.

Poi attraverso le vie del centro, si va al Baltazàr, per un pranzo a base di insalata Caesar e Baltàzar, appunto.Verso le quindici arrivano gli altri con l’auto riparata e dopo la visita all’interno della chiesa, scendendo, ci si dirige verso il ponte delle Catene per un pomeriggio a Pest.

Il giorno successivo ci si rimette in viaggio, leggendo brani informativi e qualche poesia di Wislava Szymborska. Arriviamo a Bratislava intorno alle 14. Sistemati in alloggio, si va a pranzo attraversando il centro di questa città sostanzialmente asburgica nell’architettura, più simile a Praga che a Budapest, sicuramente. Ne parliamo fra noi, comparando i tipi di architetture e le impressioni che ne ricaviamo. L’onnipresente birra riempie i bicchieri.

Dopo pranzo visita alla chiesa di san Martino dove il suono di un organo all’improvviso irrompe forte. Non è antico come la chiesa che presenta delle particolari vetrate e degli altari lignei. Quindi sosta nel bar vicino per scambio di idee e poi si gironzola per le vie, scattando foto ai tombini trasformati in sculture, alle figure bronzee appoggiate alle panchine.

Finché Michele si accorge di non aver più con sé il telefono: affannosa corsa nei luoghi già percorsi per tentare di trovarlo. Infine il parroco della chiesa rassicura: hanno già recapitato il cellulare alla polizia. E aiuta anche a mettere in contatto. Un taxi preso al volo e la brutta avventura è risolta. Durante l’attesa, osserviamo i passanti, scopriamo angoli e negozi, ascoltiamo le numerose performance musicali di strada. Una città ricca e stimolante.

Il giorno successivo la partenza per Vienna, un percorso di pochi chilometri punteggiati di pale eoliche. Alla città si dedica tutta la giornata: si entra dal Ring diretti a Santo Stefano. Colazione al bar Mozart, poi l’Hofburg, il Parlamento, il Rathaus, i giardini della corte con delle scene bucoliche che fanno pensare alla colazione sull’erba di Manet o a un quadro di Renoir. Poi i cavalli che escono dalla scuola di equitazione e dalle scuderie. Ancora migliaia di passi che ci conducono nelle strade del centro, presso la casa dove per tre anni abitò Mozart, o anche al quartiere ebraico, passando davanti alla sede dell’Istituto Wiesentahl.

Il tempo accenna a cambiare. Si va verso un temporale annunciato. Partiamo per Melk, ospitati all’Hotel Stadt, in un punto centrale della bella città medievale, su cui campeggia la immensa Abazia, da cui era partito il giovane Adso personaggio de Il nome della rosa, di Umberto Eco.

Dopo un’ottima cena, un giro in notturna della città, salendo i gradini che portano al pianoro dove si apre la proprietà dell’Abazia. Poi la pioggia riprende, forte ma calma, così da favorire il sonno.

Al mattino il cielo è nuovamente sereno. Gli animi anche, conciliati dalla migliore colazione di tutta la settimana (secondo il parere di tutti).

Quindi via, verso Salzburg. La visita alla città mostra l’antica presenza e i legami con le grandi famiglie trentine: i Lodron, in particolare. Chiese, collegi, l’Albertino, la splendida chiesa dei francescani: una dovizia di ingegno.

In piazza, dietro a delle bancarelle di mercato, si scorge la facciata di quella che fu la casa natale di Mozart. Ma non c’è tempo di fermarsi troppo: il pranzo, allegramente consumato in un bel locale tipico, e poi si parte per il ritorno.

La stanchezza prevale, così molte delle letture e delle cose che avremmo voluto trattare vengono accantonate: sarà per un prossimo incontro: ciascuno con il proprio bagaglio di curiosità e conoscenze contribuirà a tenere alta la voglia di pensare.

In ogni caso non si scorderanno alcune frasi famose: della serie: “Sono senza potassio”, detta da Graziano all’improvviso, per spiegare un silenzio di ore, con la successiva caccia all’acquisto di banane, oppure: “Mi manca di lavare i piatti della colazione”.

Su tutto campeggia la gentilezza dei gesti, l’intraprendenza di Claudio per gli aspetti logistici, la cura di Gabriella per le sistemazioni e i conti, l’abilità di Enzo nello smontaggio della ruota, la guida di Iva quale navigatrice, gli apporti informativi di Raffaella e la cortesia di cui sono stata testimone. Un’amicizia corale, umana e politica.

21 settembre 2023

1Jacques Derrida, Perdonare. Raffaello Cortina editore, 2004

Viaggiatrici e viaggiatori

 

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