«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene
José Alberto Mujica Cordano è morto a 89 anni per le complicazioni di un cancro all’esofago, il 13 maggio. Parte del movimento di guerriglia uruguaiana Tupamaros, finì in carcere per dodici anni, due dei quali chiuso in un pozzo. Deputato, senatore, poi ministro dell’Agricoltura e nel 2010 presidente della Repubblica. Lascia un segno profondo e un’organizzazione politica che va oltre la personalizzazione
di Federico Nastasi
(15 Maggio 2025) Al Palacio legislativo di Montevideo c’è la fila. Le persone aspettano pazienti, col volto serio, chi con un fiore in mano, chi con la bandiera del Frente amplio (la coalizione di centrosinistra che governa l’Uruguay) sulle spalle.
“Non ho mai visto tanta gente piangere per un politico. Quando ho saputo la notizia, mi sono sentita orgogliosa per una figura così. E ho sentito paura: chi raccoglierà la sua eredità? Ha introdotto la parola amore in politica, amore per la vita, la natura, la semplicità. Speriamo di essere all’altezza”, dice Vanessa, mentre aspetta il suo turno per salutare José Alberto Mujica Cordano, Pepe come lo chiamavano tutti, morto a 89 anni per le complicazioni di un cancro all’esofago.
“Mio padre l’ha incontrato in carcere”; “L’ho visto sul bus sulla Avenida 18 de Julio”; “Veniva a mangiare alla trattoria dietro la facoltà”; “Era più amato fuori che dentro il Paese”; “Un vecchio pazzo.” Durante gli anni trascorsi in Uruguay ho sentito parlare di Pepe Mujica da molte persone. Tanti avevano un ricordo, un aneddoto, una critica. Non avevo mai cercato di entrare alla chacra, la sua casa nella zona rurale della capitale, le cui porte erano aperte a tutti: capi di Stato e persone comuni. Li viveva con la sua compagna Lucia Topolansky, in una casa cosi piccola “che si puliva in un lampo”, la loro cagnolina Manuela a tre zampe, un trattore e poco altro.
Non riuscivo a trovare un’idea per un’intervista che non fosse l’ennesima ripetizione dell’uguale. E anche oggi alcuni ricordi che si fanno di lui sono retorici e già sentiti. Soprattutto dei politici che dicono di rimpiangerlo, di prenderlo ad esempio, ma non sembra abbiano imparato molto da lui. Lui che era il contrario di una messa cantata.
Era un antidivo. Disinteressato al suo aspetto fisico, la barba tagliata male, non nascondeva la pancia, non era trasandato per un comportamento imposto. Aveva rinunciato alla residenza e allo stipendio da presidente della Repubblica, riceveva l’equivalente di 900 dollari, più che sufficiente per vivere, diceva. E girava col maggiolino Volkswagen celeste perché era quel che aveva. Certo, sapeva che era un messaggio politico: la frugalità come scelta di vita.
Era un anticapitalista in cerca di alternative. Diceva che si potevano fare tutte le riforme per migliorare le case, i salari, l’educazione. Ma quel che doveva cambiare era la testa dell’essere umano. “Nel mio Paese ci sono tre milioni di persone e importiamo 28 milioni di paia di scarpe l’anno, nemmeno fossimo dei millepiedi”. Conosceva i limiti delle riforme sociali, ma credeva nella loro importanza. “Ci sono intellettuali che parlano di socialismo e criticano le riforme ma non riescono a fare nemmeno una scorreggia, sanno solo criticare. Ciò non significa che dobbiamo accontentarci di ciò che facciamo. In queste circostanze, potremmo non essere in grado di fare altro”.
Usava la parola come arma. Ma aveva usato armi vere: era entrato in una banca con una pistola 45 semiautomatica, “una bella sensazione” disse, “tutti ti rispettano”. Trentenne, entrò a far parte del movimento di guerriglia uruguaiana Tupamaros, che prendeva il nome dal capo Inca Tupac Amaru. I Tupa erano una guerriglia urbana che distribuivi i proventi dei propri furti tra i quartieri poveri di Montevideo. I “Robin Hood della guerriglia”, come li definì il New York Times, godevano dell’appoggio di una parte importante della popolazione. È grazie a questo appoggio, ad esempio, che nel 1971, 111 tupamaro, tra cui lo stesso Mujica, scapparono dal carcere di Punta carretas, realizzando l’evasione di detenuti politici più grande della storia.
Crimini violenti e la reazione della dittatura militare (1973-1985) spensero l’aura del movimento guerrigliero, che venne smantellato, i leader uccisi o arrestati. Mujica finì in carcere per dodici anni, come racconta il film “La noche de 12 años”. Due dei quali chiuso in un pozzo. Senza luce, senza potersi muovere, sentiva voci minacciose nella sua testa, parlava con le formiche, lo lasciarono quasi senza acqua, beveva la propria urina. Perse molti denti, quasi tutta la speranza e il senno. Quando uscì dal buco in cui l’avevano rinchiuso, aveva cinquant’anni e non cercava vendetta contro i carcerieri.
A proposito ferocia del tempo e della memoria: l’ex carcere di Punta carretas oggi è un mall. C’è una piccola targa, poco visibile, su una delle colonne dell’entrata principale, che ricorda il passato di quel che oggi è un centro commerciale pieno di luci, adolescenti che bevono milk-shake di Starbucks e negozi di marca, in un quartiere esclusivo della capitale.
Dopo il carcere Mujica scelse come propria arma la parola. Le sue metafore, le sue battute arrivavano a tutti e trasportavano messaggi di libertà. Portavano a riflettere sulle scelte di fondo e sul tran-tran quotidiano: lavoriamo per ottenere soldi per comprare cose di cui non abbiamo bisogno. E le paghiamo non semplicemente col denaro ma con la nostra vita. Vita sottratta ad altre cose. A parlare, a passeggiare, a stare con le persone che amiamo. Merci in cambio di vita, diceva Pepe. E tutti lo capivano. Alternative? “Non so. Si può fallire. Però se rinunciamo all’idea di una civiltà distinta non usciremo mai dal capitalismo”.
La parola e la grandezza morale - colui che aveva resistito alla pazzia nel pozzo, la vittima che non cercava vendetta, l’uomo dal linguaggio chiaro e la vita semplice - lo accompagnarono nella sua vita di militante politico ai tempi del ritorno alla democrazia in Uruguay. Venne eletto deputato, senatore, poi ministro dell’Agricoltura e nel 2010 Presidente della Repubblica. Con la fascia presidenziale, adottò il matrimonio egualitario, l’interruzione volontaria della gravidanza, che era stata ostacolata dal suo predecessore e compagno politico Tabaré Vásquez, e la legalizzazione della marijuana. Non riuscì a riformare il sistema educativo, né a migliorare la struttura produttiva del Paese.
Anche come dirigente politico della sinistra era controcorrente. L’attuale presidente dell’Uruguay, Yamandú Orsi, un professore di Storia, ex sindaco, 57 anni, è un suo allievo. Mujica, a differenza degli altri leader latinoamericani, ha lavorato per la continuità nel suo campo politico. “Per tutta la vita ho detto che il miglior dirigente non è quello che fa di più ma chi lascia un erede che lo superi con vantaggio. Non volersene andare e non aprire la porta perché altri entrino è una malattia.”
Il suo Movimiento de participación popular (Mpp), il partito fondato dagli ex guerriglieri Tupamaros che hanno aderito alla democrazia liberale, è la forza principale del Frente amplio. Mpp si conosce come “Espacio 609”, una sigla dipinta con la vernice sui muri di Montevideo, dove alle ultime elezioni ha ottenuto 36 dei 48 parlamentari e nove dei 16 senatori eletti dal Frente amplio, oltre che il presidente della Repubblica. “Gli ultimi 40 anni della mia vita li ho spesi per fare un’organizzazione politica. E va bene. È stato il premio più grande che mi ha dato la vita” ha detto Mujica in una delle sue ultime interviste.
Nel libro intervista con la giornalista uruguaiana María Esther Gilio c’è un promemoria per noi che oggi che lo rimpiangiamo: “L’importante non è che rimanga il nome, ma alcune idee. Che le usino come proprie, senza sapere da dove vengono”.
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