«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene
di Nicoletta Dentico*
Da Gaza allo Yemen fino in Sudan: l’assenza di viveri divora milioni di persone. E svela le nostre ipocrisie sui diritti umani. Dalla rubrica di Nicoletta Dentico su Altreconomia
Fame è una parola ambigua, impersonale eppure materica. Un processo di lotta del corpo. In queste settimane la pronunciamo per denunciare il genocidio impunito che si mangia i bambini a Gaza, sotto gli occhi del mondo.
La parola è buona anche per i conflitti oscurati: vale per il Sudan, dove il congelamento dei fondi umanitari americani ha smantellato l’80% delle cucine comunitarie mettendo sotto scacco la vita di due milioni di persone, esposte alla penuria di cibo più grave e diffusa al mondo. Vale per lo Yemen: in nove anni di conflitto la fame qui si è incistata come una piaga cronica, mentre i tagli all’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid) hanno chiuso il programma per identificarne i focolai più gravi tra i bambini.
Fame è una parola che abbraccia numerose vite e significati. Parliamo di fame ma non abbiamo veramente idea di che cosa sia, noi che ne parliamo.
Fame è ormai una parola sfibrata, deprecabile. Politici da strapazzo ed esperti prezzolati hanno impiegato a cuor leggero questo concetto, neutralizzandolo. La fame nel mondo, lottare contro la fame: sono frasi fatte, variazioni di un’espressione, talvolta persino sarcastica, per ridicolizzare come risibili certe aspirazioni. Il problema con termini così svuotati è che un giorno, all’improvviso, tornano con esplosiva novità di manifestazione. Oggi li vediamo nell’azione irreversibile che svuota i corpi, raggrinzisce le persone, paralizza le membra.
Fame è una parola conturbante. Tecnici e burocrati del mestiere solitamente la evitano, forse per coscienza professionale, forse non reputandola sufficientemente esatta. E così si sperticano a coniare locuzioni astratte, asettiche, come denutrizione, malnutrizione, o l’eufemismo triste di un mondo che ha ceduto i diritti umani in cambio della sicurezza: insicurezza alimentare. La sfida estrema della sopravvivenza per milioni di persone si traveste in capillari misurazioni di fasi di deperimento per rapporti comprensibili solo a pochi. Del resto la terminologia tecnica ha l’indubbio vantaggio di non suscitare emozioni e i termini finiscono per confondersi, e per confondere.
Perché la fame non esiste al di fuori delle persone che la soffrono. La fame è quelle persone. Donne, bambini e anziani sono le fasce più vulnerabili, con un impatto di lunga gittata che dirotta le generazioni future, il destino di un Paese. Israele lo sa bene. Ancora prima dell’emergenza dei mesi scorsi, ancora prima della crisi acuta di queste settimane senza viveri, ha sempre usato la distribuzione del cibo come forma vile e sofisticata di controllo della popolazione palestinese, “nutrita solo quel tanto che basta”, come racconta l’esperto sul diritto al cibo delle Nazioni Unite, Michael Fawkri. Le proiezioni del 2025 non lasciano scampo.
La fame nei primi mille giorni di vita non finirà mai. Un bambino sotto i tre anni che non mangia a sufficienza avrà perduto per sempre la sua occasione di sviluppare i neuroni e crescere come avrebbe dovuto. Il suo cervello non potrà avere uno sviluppo cognitivo compiuto. Il suo corpo, o quello che resta, sarà facile preda di malattie, a vita. Così la fame come arma di guerra, stratagemma antico ed economica tattica bellica per sfibrare definitivamente popolazioni disarmate, è la tempesta perfetta. La forma del genocidio che uccide tutti noi, la nostra falsa coscienza, le nostre ipocrisie sui diritti umani, le nostre vuote pretese di civiltà.
* Nicoletta Dentico è giornalista ed esperta di diritto alla salute. Già direttrice di Medici senza frontiere, dirige il programma di salute globale di Society for International Development. L'articolo è tratto da https://altreconomia.it
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