«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene

Le verità di questa COP (e qualche pagella)

Immagine Belem

di Ferdinando Cotugno *

(24 novembre 2025) La COP30 è finita nel pomeriggio, il suo anticlimax ci ha privato del terzo atto, ci ha tolto una sintesi politica ed emotiva che desse un senso ai suoi risultati.

La conferenza sul clima di Belém è finita portando a casa quello che si poteva, cioè così poco da rasentare il nulla, con l'illusione di aver protetto il multilateralismo, ed è da qui che sento il bisogno di partire, prima di analizzare i risultati, i dettagli, i pacchetti e le decisioni sancite col martelletto.

Il commento quasi unanime della società civile, quelli che ci tengono e che sputano il sangue e producono idee e politica ogni settimana dell'anno, è che il compromesso finale è sì al ribasso, ma almeno abbiamo salvato il processo multilaterale, mandando un segnale a Trump. Io, pur rispettando questa posizione, e pur comprendendo quanto questa posizione provi a essere costruttiva, non sono proprio d'accordo.

Il multilateralismo esce invece a pezzi dalla COP30, molto simile all'idea che ne ha il presidente degli Stati Uniti: paralizzato, cerimoniale, lontano dalla realtà sulla quale vuole incidere. Abbiamo un problema se pensiamo di poter tirare un sospiro di sollievo, perché non c'è nessun sollievo in uno strumento che ha perso il potere di cambiare la realtà e ha solo conservato quello di salvare se stesso.

Questo multilateralismo è diventato parte del problema, ed è da qui che si deve ripartire, dal senso di realtà, perché se questa è la COP della verità, una verità ce la dobbiamo, per l'affetto e il rispetto che io e voi proviamo per le conferenze sul clima: il miracolo del multilateralismo ha smesso di funzionare, non è più adatto alla sfida, è diventato troppo facile da sabotare. Ho visto la negoziatrice saudita intervenire nella plenaria di chiusura e ho pensato sì, certo, che brava, che preparati sono i sauditi, ma anche: gli stiamo rendendo proprio facile il compito. 

La verità di COP30 è che la riforma radicale, profonda, veloce della COP è la prima questione da mettere in agenda. È difficile? Certo che è difficile, ma è difficile tutto, anche stare nella frustrazione di questo processo in questa forma, e allora meglio mettere energie politiche e intellettuali in qualcosa di più utile.

Si parla tantissimo di «realismo» nel palazzo delle COP: il realismo delle policy, dell'incrementalità dei processi, degli interessi economici in ballo, della difficoltà della diplomazia e della transizione: tutto vero. Ma c'è un altro realismo che le COP si stanno dimenticando: quello della scienza.

La fisica, la termodinamica, l'oceanografia, la biologia, la glaciologia, la geologia: questo è il realismo per cui le COP sono state create.

Dov'è finito quel realismo?

L'altra verità della COP30 è che ormai nessuno parla di più di un grado e mezzo come obiettivo raggiungibile, rimane nei documenti come un calco fossile di speranze che furono, mentre è stato certificato e normalizzato il suo imminente superamento, e allora dobbiamo essere realisti con i sistemi energetici ma anche con quelli fisici: ci lasceranno pochissimo tempo nella finestra di overshoot andata e ritorno sotto il grado e mezzo prima di smettere di funzionare. Questa è la chiesa da rimettere al centro del villaggio.

L'International Cryosphere Climate Initiative ha fatto uscire un comunicato dolente ed equilibrato sui risultati della COP30: riconosciamo il valore degli sforzi, ma questi sforzi non possono non includere lo strumento più importante, la transizione dalle fonti fossili. «Apprezziamo il riferimento alla scienza, ma quel riferimento, senza azioni concrete, è senza significato».

È tutto quello che ho da dire anche io.Questo è il 272 di Areale, l'ultimo da COP30 in Brasile, vediamo dunque come è andata!

I risultati della COP30, dunque

Il pacchetto più politico, importante e discusso della COP30 era il Global Mutirão, quello con i temi non entrati nell'agenda iniziale, che la presidenza brasiliana ha scelto di accorpare per puntare al massimo dell'ambizione. È stata la decisione di COP30 che più ci ha illuso e deluso, quella che avrebbe dovuto rispondere alla scarsa ambizione degli NDC collettivi presentati quest'anno, che ci portano oltre due gradi e mezzo di aumento della temperatura, e che avrebbe dovuto includere la famosa roadmap di uscita dalle fonti fossili.

La roadmap era diventata l'argomento più controverso e politicizzato di questa COP, la bandiera della speranza che alla fine è stata ammainata. Non solo non c'è alcuna roadmap dentro cui i paesi possano confrontarsi e misurare i progressi, ma non c'è stata nemmeno la menzione delle fonti fossili. Una resa totale, altro che compromesso.

È un arretramento rispetto al «transitioning away» di Dubai, di cui finalmente stiamo riscoprendo il valore proprio mentre lo perdiamo. È per questo che parlo di omertà fossile: alla fine il blocco dei paesi produttori ha fatto passare la sua linea, quella percolata anche nelle parole di Ursula von der Leyen al G20: «Noi siamo contro le emissioni, non siamo mica contro i combustibili fossili».

A questo punto possiamo parlare di ipocrisia istituzionalizzata, al G20 come alla COP. Se per il G20 ce lo possiamo aspettare, per la COP era lecito chiedere di meglio.

La soluzione proposta da COP30 al posto della roadmap è in due strumenti vaghi, blandi e volontari: il Global Implementation Accelerator e la Belém Mission to 1.5, che ricalca la Baku to Belém Roadmap, che non aveva portato esattamente risultati brillanti sulla finanza. Avevamo bisogno di strumenti di implementazione, ne abbiamo portati a casa due di procrastinazione. Sulla finanza, altro argomento delicato, è stato istituito un work programme per triplicare la finanza per l'adattamento entro il 2035, dentro il quadro dei 300 miliardi di dollari decisi a Baku.

L'altro tema geopoliticamente controverso nel Mutirão è quello delle misure unilaterali sul commercio (come il CBAM europeo, anche se l'Europa dice che non lo è): la COP invita a favorire un sistema economico internazionale aperto e solidale, con le misure climatiche che non devono diventare strumenti di discriminazione arbitraria o restrizioni mascherate al commercio.

Sull'adattamento, gli indicatori del GGA (Global Goal on Adaptation) sono stati adottati formalmente, sono poco più di cinquanta, ma con l'idea che siano volontari, non comparabili, non condizionabili, rispettosi della sovranità. Un testo di passaggio che dovrà portare a completare il lavoro sull'adattamento nella COP africana di Addis Abeba nel 2027. Anche questo è un brutto segnale: i paesi africani, pur di intestarsi il GGA, fanno perdere a tutti due anni di implementazione. La COP sta diventando questo: una fiera delle vanità.

Un buon risultato del negoziato è la creazione di un meccanismo per la giusta transizione, che provi a mettere al centro i diritti dei lavoratori nei processi di cambiamento. È il pezzo della decisione finale maggiormente frutto della pressione della società civile e della sua proposta di BAM (Belém Action Mechanism). Non è esattamente la stessa cosa del BAM (è normale che non lo sia, ovviamente), ma è un meccanismo a cui bisogna fornire gambe e struttura, e fondi, e fondi per ora si è deciso di non darne.

E poi: è sparita la roadmap sulla deforestazione, una mancanza abbastanza incredibile visto il contesto e l'investimento simbolico sul contesto amazzonico fatto dalla presidenza, che alla fine ha preferito lanciare lo strumento finanziario del Tropical Forest Forever Fund, che ha raccolto molti meno finanziamenti di quanto sperasse il Brasile.

Pagelle finali

Unione europea: nessuno esce male dalla COP30 come l'Europa, dovevamo disaccoppiare crescita ed emissioni, abbiamo disaccoppiato Hoekstra e von der Leyen, abbiamo lasciato il figlio di Shell a guardia dell'integrità del negoziato, mentre i paesi procedevano in ordine sparso, lacerati tra l'avanguardia che vuole andare in Colombia e la retroguardia novecentesca di Polonia, Ungheria e Italia. Accettiamo di uscire dalla nostra zona di comfort sulla finanza per l'adattamento senza ottenere nulla in cambio sulla mitigazione: stiamo perfezionando l'arte di uscire dalle COP sempre impoveriti, colpevoli e mazziati.

Stati Uniti: è la prima COP senza un delegato Usa da quando esistono le COP, ma Trump è comunque l'essere umano più menzionato tra i corridoi di Belém, il livello di condizionamento che sta producendo la sua figura è enorme e innegabile. «Reagire a Trump», «un messaggio a Trump», «siamo sopravvissuti a Trump», difendere il multilateralismo da Trump si sta trasformando in abbassare l'asticella per adattarsi a Trump.

Gavin Newsom: lancia il filone clima della campagna presidenziale del 2028. Elegante. Make America Grey Again.

Cina: la sua presenza sarà ricordata per l'intervista dell'inviato per il clima Liu Zhenmin in cui umiliava le politiche europee sul giornale più letto a Bruxelles (Politico) e per la lunga fila ai padiglioni per prendere i peluche di panda che si sono portati da Pechino per conquistare i cuori di volontari e lobbisti. Esauriti in pochissimo tempo, l'ennesimo successo commerciale. La Cina ci ha illuso di potersi sostituire agli Stati Uniti, affiancare all'Europa, aiutare il Brasile, guidare i BRICS, e invece ha fatto soltanto i suoi prevedibili interessi. La diplomazia climatica loro la fanno con l'oversupply di solare e batterie, non hanno bisogno di altro.

Brasile: sul ciclo di love bombing, gaslighting e ghosting del paese ospitante vale quello che ho scritto ieri. Il populismo diplomatico del Brasile ha fatto danni enormi a questa COP. La scena di Corrêa do Lago descamisado che arringa la folla alla Cúpula dos Povos mentre le ministre Marina Silva e Sônia Guajajara promettono agli attivisti la roadmap dalle fossili è bellissima se poi porti a casa la roadmap, altrimenti è teatro. Che ne fossero consapevoli o no, i brasiliani hanno trasformato la COP in un teatro delle loro vanità, ma per la grandezza globale dovranno ripassare. La verità, amara ma incontestabile, è che devono farne di strada per condurre un negoziato in sicurezza come potenze medie aspiranti grandi come Qatar o Turchia.

Australia: aver perso in tre giorni la COP31 col vento della storia a favore, un intero oceano da raccontare, tre anni di lavoro dietro le quinte, il mondo libero e democratico da rappresentare, è un capolavoro vero. Sulla Turchia, che dire, vedremo.

Colombia: magari populisti come il Brasile, ma il loro ruolo era questo, a differenza del Brasile, e poi sono stati anche ambiziosi, visionari, sono arrivati alla COP30 con un modello, una prospettiva, una classe diplomatica preparatissima, carisma, numeri, capacità di costruire alleanze. Due settimane in stato di grazia non sono una garanzia di futuro, ma ora immaginate questa COP senza la Colombia. Ecco.

Italia: tutto quello che è stato detto nei giorni scorsi, con però il ministro che dice i numeri delle COP a cui ha partecipato in inglese.

Pompieri: ho letto opinioni discordanti, non mi occupo di contrasto degli incendi, ho visto le immagini del fuoco, che è stato domato in pochi minuti, nessuno si è ustionato, l'evacuazione è stata fatta in ordine, alla fine hanno fatto un picchetto di onore per salutarci. Della COP30, per me sono i veri vincitori morali.

Bar: quando il media center stava per chiudere per sempre i battenti su COP30, ci hanno regalato il caffè. La pietas di cui aveva bisogno il giornalismo climatico. Grazie.

* dalla Newsletter Areale COP 30. Giornalista. Napoletano, come talvolta capita, vive a Milano, per ora. Si occupa di clima, ambiente, ecologia, foreste. Per il quotidiano Domani cura la newsletter e il podcast Areale (dove potete trovare le puntate precedenti), ha un podcast sui boschi italiani, Ecotoni, sullo stesso argomento ha pubblicato il libro Italian Wood (Mondadori, 2020). È inoltre autore di Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022).

 

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