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Cucina italiana e riconoscimento Unesco: «Patrimonio culturale o racconto da marketing?»

cibo del territorio

Il riconoscimento può diventare una svolta o ridursi a folclore. Tra filiere in crisi, perdita di saperi e prezzi iniqui, la sfida è trasformare i valori evocati dall’Unesco in politiche concrete ed educazione alimentare diffusa.

Tommaso Martini *

La pagina del sito del Ministero della Cultura dedicata alla candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Unesco dichiara che «la candidatura non riguarda un singolo piatto o una ricetta, ma un modello culturale condiviso, fatto di esperienze comunitarie, scelta consapevole delle materie prime, convivialità del pasto, trasmissione dei saperi alle nuove generazioni e rispetto delle stagioni e dei territori. La cucina italiana è la “cucina degli affetti”: trasmette memoria, cura, relazioni e identità, raccontando storie di famiglie e comunità attraverso il cibo. Riflette il legame tra paesaggi naturali e comunità, incarnando memoria, quotidianità e cultura dei territori». Valori che non possono che essere condivisi, e che certamente fanno parte di quel concetto mutevole, in movimento e aperto a interpretazioni plurali che è la cucina italiana. Attenzione però a non confonderli con la cucina che nutre l’Italia oggi.

Sono davvero questi i valori che guidano la relazione quotidiana con il cibo nel nostro Paese? Oppure siamo davanti a un bel racconto, a una rappresentazione che fa propri temi cruciali per una sana relazione con le filiere alimentari, per poi utilizzarli come strumenti di marketing e leve commerciali?

Nella realtà quotidiana ci confrontiamo con una cucina in cui il cibo costa troppo per chi se ne nutre e troppo poco per chi lo produce; una cucina fatta di scelte al ribasso imposte da redditi delle famiglie al palo, ma anche da mancanza di conoscenze, e di luoghi deputati dove coltivare questa cultura. A tutto ciò si accompagna l’assenza di trasparenza e informazione e, non ultimo, l’impossibilità di dedicare il giusto tempo alla cucina e all’atto stesso del nutrirci.

Nella ristorazione, parallelamente, si fa sempre più flebile la speranza che vengano trasmesse alle nuove generazioni le conoscenze tecniche e culturali che hanno nutrito la nostra cucina. Non solo le ricette, ma competenze come disossare un animale valorizzandone ogni parte; riconoscere erbe spontanee, funghi e altri doni di prati e foreste; costruire una rete di relazioni con i produttori; oppure, più in generale, comprendere il legame profondo che unisce un piatto a un paesaggio, a una storia, a una visione.

Il riconoscimento della Cucina italiana quale Patrimonio Unesco suscita sentimenti contrastanti e potrebbe portare a esiti opposti. Può essere un invito a legittimare l’attuale situazione, trasformandosi di fatto in folclore. Una tovaglia che si fa sipario di qualsiasi messa in scena. Se invece questo riconoscimento diventa uno stimolo a non perdere e coltivare gli elementi che idealmente ne sono alla base, allora è qualcosa da accogliere con entusiasmo. In questo senso la naturale evoluzione del riconoscimento deve essere l’introduzione dell’educazione alimentare nelle scuole. Solo così potranno davvero diventare patrimonio diffuso e condiviso la «scelta consapevole delle materie prime, la convivialità del pasto, la trasmissione dei saperi alle nuove generazioni e il rispetto delle stagioni e dei territori, il legame tra paesaggi naturali e comunità».

Ma ciò richiede un cambio di paradigma. Immaginare politiche – dalla Pac alle misure di sviluppo rurale, dai regolamenti europei ai piani urbanistici comunali – capaci di permettere alle aziende di piccola scala di esistere. Un mercato che sappia premiare chi custodisce e rigenera biodiversità, invece di scartarlo. Una ristorazione che, sul modello delle osterie, diventi parte attiva dei sistemi locali del cibo, animando reti di allevatori, agricoltori, raccoglitori e artigiani.

Vuol dire curare l’educazione al gusto, non solo per la ricerca del piacere individuale, ma consapevoli che solo nella capacità di riconoscere il valore organolettico del cibo, potremo continuare a scegliere la pluralità dei sapori, risultato di un approccio non omologato alle filiere. Individuare inoltre nella cucina italiana un simbolo straordinario di mescolanza, meticciato, incontro, che può insegnare come i confini hanno senso solo per le questioni amministrative ma non per quelle che veramente contano.

Se il riconoscimento dell’Unesco riuscirà ad attivare questi cambiamenti, sarà una splendida notizia non solo per la cucina italiana reale e quotidiana, ma per intere filiere, ecosistemi, aree interne e territori di montagna. E la strada più efficace per andare in questa direzione è una sola: portare l’educazione alimentare nelle scuole. Formando non più generazioni di consumatori ma di cittadini che con responsabilità conoscono e collaborano a creare, insieme ai produttori, un ambito tanto importante per la nostra salute, la salute del pianeta e della nostra società.

Nel dicembre del 2019 la transumanza è divenuta Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Dialogando qualche tempo fa con un giovane pastore, emergeva che nemmeno il riconoscimento Unesco è riuscito a rendere più facile questa pratica millenaria e che l’ostilità di chi si trova rallentato qualche minuto nel traffico da un gregge, le pratiche burocratiche, l’intransigenza delle amministrazioni locali, stanno spingendo chi vorrebbe continuare a vivere di pastorizia verso una resa definitiva.

La speranza è che questo esempio non diventi un’anticipazione delle prospettive che attendono il nuovo Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Perché i riconoscimenti, da soli, non bastano: hanno senso solo se sanno tradursi in politiche coerenti, in forze per costruire una cultura diffusa. Rischiamo di trovarci con l’ennesimo reclame buono per tutte le stagioni, un simulacro da riempire a piacimento dei significati più diversi e più contraddittori, a seconda dell’interesse al quale si deve prestare.

*Presidente di Slow Food Trentino Alto Adige

 

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