"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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venerdì, 11 novembre 2022Tivoli, cascate

L'incontro degli invisibili...   

Tivoli, 5 novembre 2022.  

  Un luogo di confronto e incontro attorno ad un esperienza condivisa.

 

Con il cuore alla manifestazione per la pace che, non lontano, percorreva le strade della capitale, prendendosi il rischio di un campo così eterogeneo da rendere difficile il riuscire a tenere la fragile sintesi proposta dagli organizzatori. E se da una parte sentivo vuote e rituali le parole del popolo della pace, pure avvertivo la necessità di evitare che quel solco che la guerra in Ucraina ha tracciato divenisse ancora più profondo. Sin dall'inizio di questa tragedia ho scritto come, per venirne a capo, fosse necessario cambiare lo sguardo, evitando l'ennesimo ingorgo novecentesco all'insegna della sovranità e dell'autodeterminazione, com'è puntualmente accaduto. Nove mesi nei quali la guerra ha disseminato di morte (duecentomila secondo le ultime stime), dolore e veleno quella terra, destabilizzato e polarizzato il mondo intero, appiattito l'Europa in un ruolo subalterno all'Alleanza Atlantica e alla Nato nei fatti annullandosi come soggetto politico altro, messo in secondo piano tanto la crisi sanitaria globale come quella climatica/ambientale. Ed altro ancora che non sto a dire.

Sono invece a Tivoli, dove c'è un incontro fissato da tempo, pensato ancora da molto prima, quando per molte delle persone che oggi si ritrovano in questa antica cittadina termale un sogno si è infranto. Mal riposto, credo, ma viviamo di sogni. Mal riposto perché le forme politiche non sono (e non possono essere) luoghi scevri da dinamiche di potere. E poi perché, nella fatica di una transizione che non può che essere anche di pensiero, il cambio dei paradigmi – per quanto necessario e urgente – non è facile e spesso nemmeno avvertito come necessità. Più semplice cavarsela con altre categorie, quella del tradimento, tanto per cominciare. Oppure quella dell'ossessione del nemico che ti obbliga al rinserrare le fila a scapito della ricerca, del confronto e del conflitto generativo.

Quel sogno infranto era concreto, molto concreto. Era fatto di terra e cibo, di saperi e genio trasformativo. Di presìdi e comunità. E, mano a mano che andava crescendo, di intuizioni e di idee in larga parte innovative che diventavano movimento e cambiamento. Perché questo è stata Slow Food e, almeno in parte, lo è ancora, anche se per molti dei presenti a Tivoli si tratta di un'esperienza che sta alle proprie spalle.

Nell'incontro di Tivoli ci sono persone che hanno avuto ruoli più che significativi nella storia di questo movimento e che oggi sono diventati invisibili. E' incredibile il patrimonio di intelligenza e conoscenza lasciato per strada, grazie ad una dialettica soffocata dal primato dell'apparato e da un paternalismo scambiato per “intelligenza affettiva” o di “austera anarchia”. Ma non c'è rancore. C'è al contrario la consapevolezza di aver contribuito a dar vita a qualcosa di importante, malgrado il lutto più o meno elaborato di chi è stato messo da parte.

Avvicinandomi all'associazione sul piano nazionale e ai suoi riti prima non conosciuti ne rimasi colpito. Tanto che al congresso di SF Italia a Montecatini del 2018 avrei voluto tornare indietro rispetto alla mia disponibilità di far parte del consiglio nazionale che in quella occasione venne eletto, preoccupato in realtà più per l'adesione pressoché plebiscitaria al “siamo solo noi” che al richiamo identitario della figura carismatica di Carlo Petrini. Un'antica idiosincrasia, la mia.

Poi comunque ne valse la pena, anche grazie ai lunghi mesi di lockdown e al lavoro di confronto da remoto che ne venne, liberato dal chiacchiericcio tipico degli apparati e reso vitale, vorrei dire effervescente, nei contenuti per affrontare l'intreccio delle crisi che si manifestavano in forme sempre più acute (penso a Vaia e al susseguirsi di eventi estremi, alla pandemia e al fermarsi prima impensabile del pianeta, alla terza guerra mondiale di cui parla Francesco e alle politiche di scarto che l'esclusione provoca) e per impostare una stagione congressuale (nazionale e internazionale) che aveva l'ambizione di dare seguito agli enunciati di Cheng du e rinnovare le sfide di un tempo in profonda transizione. Ne venne un documento “La sfida di un destino comune” (https://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=4615). Parlammo di sindemia e di complessità come approccio multidisciplinare per affrontarla, di nuove geografie e di ecosistemi per leggere con occhiali diversi l'interdipendenza andando oltre i paradigmi novecenteschi, di pensiero meridiano e dell'urgenza di rilanciare un approccio euro-mediterraneo, di impronta ecologica e di comunità del cambiamento come terreni concreti sui quali misurare l'efficacia del nostro agire, di un assetto organizzativo aperto al confronto con gli altri e della Slow Food degli ecosistemi. Non esito a dire come di tutto questo si sia letteralmente persa traccia, quand'anche la speranza che mi porto dentro sarebbe quella di venir smentito.

La resistenza al cambiamento, tipica di ogni corpo organizzato, trovava espressione proprio in quel “siamo solo noi”, senza comprendere che la crisi della politica investiva (ed investe) ogni corpo intermedio e che Slow Food non poteva certo chiamarsi fuori. Serviva mettersi in gioco, aprirsi e contaminarsi, ma soprattutto dare aria ad un movimento per il diritto al cibo cogliendone l'impatto interdisciplinare e il valore politico.

Il fatto è che i luoghi associativi sono di chi li presidia con determinazione e così, senza colpo ferire, quel fermento denso di nuove sfide culturali e di nuovi approcci nel modo di essere di SF è stato archiviato sul nascere. E quello che avrebbe dovuto essere un percorso ri-generativo si è ridotto ad un'impresa che ha sempre meno i caratteri di un'associazione partecipata e territoriale, che invece transita da un evento all'altro ciascuno dei quali funzionale ad un'improbabile sostenibilità, approdato ad un radicale cambiamento organizzativo in un congresso internazionale che avrebbe dovuto ruotare attorno al concetto di comunità e che si è tradotto nella sua trasformazione in Fondazione, la forma meno democratica e partecipata che si conosca. Ma soprattutto, mi permetto di dire, condannata all'inessenzialità.

E queste persone a Tivoli? Gli invisibili si abbracciano e si raccontano, ognuno in un rivolo territoriale connesso con questo tempo certamente interessante, dentro o fuori Slow Food poco importa. L'aria non è certo quella della rassegnazione e ognuno ha un sacco di cose da buttare lì, nell'incontro come nei capannelli in attesa di una mensa che – sotto la guida attenta di Gabriella – racconta storie di vita, di biodiversità, di sperimentazioni.

C'è qualcosa all'orizzonte? No, se non l'impegno di tenere aperte le sinapsi di una ricerca che nutre il proprio percorso personale prima ancora che collettivo. Nei “luoghi” che ciascuno ha scelto di agire e nella libertà di incontrarsi per il piacere di condividere pensieri e amicizia. E che si conclude in modo talmente informale che non trova affatto strano, nel tepore di una domenica autunnale, andare a visitare questa città, le sue ville e i suoi antichi sistemi d'acqua ma anche i suoi presìdi e le sue comunità del cibo. Che sono un patrimonio di tutte e di tutti.

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