«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»<br/> Manifesto di Ventotene
di Mauro Cereghini *
(19 settembre 2015) Finalmente. Ci sono voluti ventiquattro anni dai primi sbarchi in massa sulle coste italiane, quando in un solo giorno del 1991 arrivarono a Bari oltre ventimila albanesi in fuga dalla dittatura. E ci sono voluti almeno 21.439 cadaveri - tanti ne ha contati il giornalista Gabriele Del Grande fino al 2014, affogati nel Mediterraneo oppure morti alle frontiere terrestri dell'Unione Europea. Ma oggi finalmente si comincia a guardare l'arrivo di profughi e migranti con altri occhi.
Quelli della compassione, anzitutto, che permette di vedere e accogliere persone, uomini e donne in cerca di aiuto, anziché "clandestini" o "richiedenti asilo". Le carovane di cittadini austriaci andati volontariamente a prenderli in Ungheria sono l'esempio più eclatante, ma anche nel nostro Trentino l'umanità si è mostrata più della paura. Finalmente la maggioranza dell'opinione pubblica europea condanna il filo spinato steso ai suoi confini, dopo che per anni lo ha accettato in silenzio attorno alle enclavi spagnole in Marocco o sul confine tra Grecia e Turchia.
Riprendo l'editoriale di Simone Casalini apparso sul Corriere del Trentino di oggi
di Simone Casalini
(3 settembre 2015) L’odissea dei profughi è una pellicola senza tempo dove Itaca è spesso un chimera, un sogno impraticabile. Da Erodoto in poi la Storia è colma di racconti di guerra e di gente in marcia. Se non è un conflitto è la miseria, se non è la miseria è la persecuzione, se non è la persecuzione è il desiderio di rovesciare il destino. Qualunque generazione ha osservato questi sfortunati Ulisse partire, perdersi, sperare, naufragare, salvarsi o morire.
Nel 1991, con l’implosione dei sistemi socialisti, dall’Albania esondò un fiume umano. Le navi mercantili erano sature di uomini e donne, molti di più attendevano sulle banchine. Altri galleggiavano in mare sperando nelle onde. In un giorno solo, il 7 marzo, arrivarono a Brindisi 27.000 persone che si erano cibate del mito illusorio divulgato dalla televisione italiana. Solo l’Adriatico li separava dai lustrini dell’Occidente. L’8 agosto a Bari giunse la nave “Vlora” con oltre 20.000 disperati. Gianni Amelio riassunse gli sbarchi nel film “Lamerica”, con quelle prue puntellate di teste che apparivano quasi metafisiche. La rotta proseguì per settimane.
Lo studioso e filosofo polacco spiega che le prime armi dell’Occidente per sconfiggere Isis sono inclusione sociale e integrazione: «Solo la società nel suo insieme può farlo»
Intervista a cura di Maria Serena Natale*
(25 marzo 2016) Professor Bauman, nel dibattito europeo terrorismo e immigrazione si sovrappongono in una distorsione ottica che fa il gioco dei populisti e ostacola la percezione dei profughi come «vittime». Un meccanismo che sposta il discorso sul piano della sicurezza e legittima i governi a sbarrare le porte, come ha annunciato Varsavia subito dopo gli attentati di Bruxelles. Quali sono i rischi di questa operazione?
«Identificare il “problema immigrazione” con quello della sicurezza nazionale e personale, subordinando il primo al secondo e infine fondendoli nella prassi come nel linguaggio, significa aiutare i terroristi a raggiungere i loro obiettivi. Prima di tutto, secondo la logica della profezia che si auto-avvera, infiammare sentimenti anti-islamici in Europa, facendo sì che siano gli stessi europei a convincere i giovani musulmani dell’esistenza di una distanza insormontabile tra loro. Questo rende molto più facile convogliare i conflitti connaturati alle relazioni sociali nell’idea di una guerra santa tra due modi di vivere inconciliabili, tra la sola vera fede e un insieme di false credenze. In Francia, per esempio, malgrado non siano più di un migliaio i giovani musulmani sospettati di legami con il terrorismo, per l’opinione pubblica tutti i musulmani, e in particolare i giovani, sono “complici”, colpevoli ancor prima che il crimine sia stato commesso. Così una comunità diventa la comoda valvola di sfogo per il risentimento della società, a prescindere dai valori dei singoli, da quanto impegno e onestà questi mettano in gioco per diventare cittadini».