"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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sabato, 30 giugno 2012Memoriale di Potocari

Ho un ricordo nitido di quel luglio del 1995, quando i soldati di Ratko Mladić presero Srebrenica e, dopo aver separato donne e uomini, diedero vita al massacro di migliaia di bosgnacchi che in quella città avevano cercato la protezione delle Nazioni Unite.

Le notizie erano frammentarie, eppure viva era la percezione che qualcosa di terrificante stava accadendo in quella guerra senza fine. "Non dovevano esserci testimoni" raccontano le testimonianze raccolte dal Tribunale penale internazionale de L'Aja, tanto che per mesi il genocidio di Srebrenica venne negato, nonostante la denuncia dei famigliari delle vittime di cui si erano perse le tracce.

A Trento, in Piazza Cesare Battisti, proprio in quei giorni organizzammo la Tenda per la Pace dedicata ad Alex Langer, un presidio permanente che proseguì per tutta l'estate allo scopo di tenere viva l'attenzione verso una guerra che si svolgeva nell'indifferenza generale nel cuore dell'Europa. Ricordo come fossero accese le discussioni se e come la comunità internazionale dovesse intervenire per mettere fine ai massacri.

Forse per capirne di più, forse per essere più vicini a questa tragedia, con Gabriella, Alberto e Cristiana decidemmo ai primi di agosto di fare rotta verso i Balcani e, aggirando i confini della guerra, andammo in Romania, alla scoperta di un paese alle prese con i fantasmi del vecchio regime deposto da un colpo di stato chiamato rivoluzione. Da lì seguimmo un'altra tragedia, quella dell'"Operazione tempesta" che l'esercito di Tudjman (con il sostegno logistico della Nato) portò alla pulizia etnica della Kraijna e della Slavonia e all'esodo di duecentomila persone, questa volta di nazionalità serba. Finirono nei campi profughi della Republika Srpska e della Serbia e lì dimenticati per anni.

Ora siamo qui, a Srebrenica, nel memoriale di Potoćari dove si ricordano le 8.372 vittime del primo genocidio in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale. In questo luogo della memoria, che nulla concede alla retorica, si avverte una grande quiete. Quasi tutti i miei compagni di viaggio sono qui per la prima volta e il loro sguardo appare smarrito di fronte a questo mare di lapidi bianche. Sono tutte uguali, cambia solo il nome a cui sono riconducibili quei poveri resti ritrovati dopo anni nelle fosse comuni e la data di nascita. Nella loro uniformità e nell'allineamento perfetto raccontano la comunità di destino delle tante vite, ciascuna diversa dall'altra, che in quel luglio vennero spezzate grazie all'ipocrisia di una comunità internazionale che mise a protezione di migliaia di profughi centocinquanta ragazzotti olandesi che nelle rare immagini di quei giorni sembravano delle comparse, imbarazzate, impaurite e talvolta conniventi, come quando brindavano a rakija con i responsabili della mattanza.

E' venerdì, giorno di preghiera per i mussulmani. Nella moschea senza pareti del memoriale, donne e uomini prevalentemente anziani ricordano i loro cari, mentre la cittadina di Srebrenica cerca di ritornare, almeno nell'esteriorità degli edifici, ad una improbabile normalità. Perché dall'incubo si uscirà solo quando le persone sapranno raccontare una sola narrazione. Mentre invece quel che avviene, qui più che altrove, è il rinchiudersi in un dolore ancora non riconosciuto dall'altro.

Siamo a Srebrenica e sappiamo come sono andate le cose, chi sono le vittime e chi sono i carnefici. L'elaborazione del conflitto non è un generico appello alla riconciliazione, né tanto meno all'oblio. Ma su questo lavoro chi ha saputo investire? Proprio ieri il quotidiano "L'Adige" dedicava quasi un'intera pagina ai soldi investiti dalla PAT in questi anni nell'Osservatorio Balcani Caucaso e nell'azione dei Tavoli di cooperazione nella regione. Il rumore è sordo ed anziché valorizzare le eccellenze della nostra terra si alimenta l'idea che la conoscenza e il contributo per l'elaborazione dei conflitti che ne viene e che le esperienze di cooperazione hanno avviato siano cose inutili. Così nel blog del giornale sono decine i commenti che insultano la Provincia per "i soldi buttati al vento"...

Chi allora ha rivolto il proprio sguardo altrove, chi non ha compreso che nella guerra degli anni '90 in gioco era l'Europa, chi non ha ancora capito che l'Europa si fa o si disfa nei Balcani, tutto lo straordinario lavoro che la comunità trentina ha messo in campo verso l'Europa di mezzo (e che ci viene riconosciuto a livello internazionale) sembra un inutile spreco di denaro. Sono le stesse persone che nella loro ignoranza non hanno ancora capito che siamo nell'interdipendenza, che la finanza criminale si nutre di deregolazione e che questa è fatta di guerre, pulizie etniche, traffici di ogni tipo, riciclaggio, ma anche di delocalizzazione di imprese laddove il costo del lavoro non vale niente o dove non ci sono tutele ambientali. Il problema è che questa ignoranza è diffusa e trasversale, investe i singoli ma anche i corpi intermedi e la politica.

Mentre attraversiamo la Drina, il grande fiume che segna il confine fra Bosnia Erzegovina e Serbia, il poliziotto di frontiera serbo mi chiede dove stiamo andando. Gli rispondo che andiamo a Studenica, nell'antico monastero ortodosso. Inorgoglito che degli italiani visitino quel luogo sacro per la loro identità culturale e, ahimè, nazionale ci restituisce subito i documenti. E' questa l'Europa che verrà? Quello che accadde a Srebrenica e più in generale nella guerra degli anni '90 ci riguardava allora e ci riguarda oggi. Purtroppo non lo abbiamo ancora compreso.

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venerdì, 29 giugno 2012Sarajevo

Qualcuno dei miei compagni di viaggio mi chiede perché la grande maggioranza dei cittadini di Sarajevo decise di restare nonostante l'assedio, le granate che piovevano sugli edifici e sulle vie, i cecchini carichi di eroina che si divertivano a giocare con la vita della gente, la mancanza di cibo e di elettricità, i freddi inverni senza la possibilità di riscaldarsi...

Credo che le ragioni siano molteplici. Intanto perché nessuno si sarebbe mai immaginato che una capitale europea potesse essere assediata per quasi quattro anni, perché nessuno riteneva possibile una guerra in Bosnia e tanto meno a Sarajevo nemmeno quando già si sparava per le strade della città e infine perché, dopo che la guerra era diventata realtà, pensavano che si sarebbe risolta nel giro di qualche settimana.

A guerra in corso, poi, non era così semplice andarsene. Rimanere era altresì un punto d'orgoglio, per difendere la città dagli assedianti, per non lasciare i propri cari, per non darla vinta ai nemici della città, o anche semplicemente per non lasciare tutto per ritrovarsi in un'anonima periferia del mondo a chiedere l'aiuto peloso di chicchessia.

C'è anche e forse soprattutto un'altra ragione: perché gli abitanti di Sarajevo amano la loro città. Se questo, certo, può essere vero per ogni città, lo è un po' di più per la "Gerusalemme de Balcani". E' sufficiente ascoltare le parole di Kanita, per comprendere quale effetto profondo provi verso questa città che pure le ha riservato un destino non sempre facile. Come quando, all'inizio della guerra, la scheggia di una granata venne a farle visita in casa portandole via il compagno della sua vita.

Agli occhi di chi già ha imparato a conoscerla, come per chi è qui per la prima volta, il fascino della città non lascia scampo. Eppure Sarajevo è cambiata e sta cambiando, purtroppo non in meglio. La città che ha saputo resistere per millequattrocento giorni ai bombardamenti e ai cecchini, oggi ha paura. Quel che segna la città è l'onda lunga della guerra, ovvero della criminalità organizzata, della piccola malavita, ma anche dell'imbarbarimento delle relazioni fra le persone. Di una povertà crescente a fronte della ricchezza dei luoghi, degli anziani che non hanno di che vivere, stridente con il lusso di chi è arricchito nella guerra come nel dopoguerra. 

Di questa stessa fatica del vivere a Sarajevo mi parlava qualche mese fa Eugenio Berra, dopo aver fatto l'esperienza di qualche mese proprio nella capitale bosniaca per le attività di "Viaggiare i Balcani". Quasi ci fosse una grande distanza fra la città pubblica degli eventi importanti e una quotidianità all'insegna del "si salvi chi può".  

I segni della guerra sono pressoché scomparsi, ma questo non significa che le ferite si siano rimarginate. La guerra è dentro ciascuno, il conflitto non elaborato s'intreccia con l'assenza di futuro. Sensazione che avvertiamo anche noi, nelle poche ore che trascorriamo in questa bella città nel cuore di un'Europa che non l'ha saputa comprendere e che continua a tenerla lontana. Proliferano le banche, i centri commerciali, i grandi palazzi in vetro... lo scheletro del nuovo hotel Hilton incombe proprio in prossimità della città asburgica. E' l'omologazione della modernità, mentre le piccole cose di qualità vengono soffocate dalla ricerca del business. L'omologazione degli affari accomuna le diverse entità e l'orizzonte di una sfera politica che per mantenere il consenso ha bisogno di spiegare la povertà, la burocrazia, il malaffare con le lenti del nazionalismo, riversando le responsabilità sull'altro, come già in guerra un comodo nemico.

Ecco perché il lavoro di elaborazione del conflitto è ineludibile. Dovrebbero capirlo la cooperazione internazionale, le Ong e la cosiddetta società civile, ma questo non avviene. Più semplice lavorare sugli aiuti, non servono granché ma l'effetto sgocciolamento tiene in vita una parte dell'economia informale. Qui, come altrove, occorre un cambio di pensiero.

Mi vengono in mente le donne che sono venute a Trento nei giorni scorsi a parlare della primavera araba. Ponevano quale condizione per tenere viva la primavera esattamente lo stesso problema. Che ci sia bisogno di una primavera balcanica?

giovedì, 28 giugno 2012Pietra tombale bogomila, nei pressi di Stolac

Dopo Goli Otok e Martin Brod, arriviamo nel'Erzegovina. Lungo il tragitto attraversiamo paesaggi meravigliosi che ancora non conoscevo, altipiani, pascoli, boschi, ancora profondamente segnati dalla guerra nonostante siano passati diciassette anni. Come se il tempo si fosse fermato, consapevoli che la ricostruzione presuppone un ritorno sempre difficile, a volte impossibile. Senza il fervore di una comunità, si possono anche ricostruire le case ma poi rimangono vuote di un nuovo abbandono. Spesso i proprietari sono morti nella guerra. A volte mancano i denari per intentare una causa legale quale passaggio obbligato per ritornare in possesso delle abitazioni e terre che, non dimentichiamolo, facevano parte del bottino di guerra.

Questo è l'esito. La sensazione di un conflitto sospeso emerge dalle parole di Selma, che pure ha scelto di tornare ma che s'interroga se questa terra sarà la stessa che vedrà crescere suo figlio. Selma è appassionata del lavoro di antropologa, impegnata nella valorizzazione dei prodotti dell'Erzegovina. Non ci siamo mai incontrati prima, anche se le nostre attività si sono spesso incrociate, fra turismo responsabile, progetti agricoli e cooperazione internazionale.

Siamo a Mostar, nello spazio aperto a due passi dal "Vecchio" per promuovere i prodotti di qualità dell'Erzegovina, dove ci propongono una degustazione del famoso formaggio nel sacco, di bevande al sambuco e alla salvia, di vini bianchi (ottimi, per altro)... Ma il momento di parola che Selma ci dedica è tutto rivolto alla preoccupazione per il suo paese che non sa uscire dal proprio incubo. E dove la soluzione che inesorabilmente sembra prevalere è la divisione, ovvero la fine della Bosnia Erzegovina.

Migliaia di pellegrini reduci da Medjugorije (il luogo di culto mariano più frequentato d'Europa, nonostante il Vaticano non l'abbia mai riconosciuto) affollano quelle strade di pietra e quel ponte che i nazionalisti cattolici hanno martellato fino a farne un cumulo di macerie, come avvenne in quel novembre del 1993 quando il ponte che a quella città dava il nome cadde a pezzi nelle acque gelide della Neretva. Erano simboli di una storia che gli amici di padre Zovko (il capo spirituale di Medjugorije) volevano cancellare. Mi chiedo cosa si porteranno via in termini di sapere queste persone che seguono il loro sacerdote o la guida con la bandierina di riconoscimento. Quale narrazione verrà proposta a questi pellegrini sulla distruzione di quel ponte così come di Pocitelj, una perla dell'architettura ottomana a pochi chilometri da Mostar?

Quelle persone non sapranno mai nemmeno dell'esistenza di Blagaj e della sua tekija, il luogo dove nel 1463 venne siglato l'editto con il quale Mehemet II accreditava i francescani bosniaci dei suoi favori e della totale libertà di culto. Considerata la prima carta dei diritti umani, assume una particolare importanza storica perché siglata 29 anni prima di un altro editto, quello con il quale nel 1492 vennero cacciati i mussulmani e gli ebrei da Sefarad, come quest'ultimi chiamavano la Spagna. Né dei Bogomili e di quel che rimane della loro eresia cristiana nei dintorni di Stolac, senza la cui conoscenza è difficile comprendere l'islam endogeno di queste terre.

Stranamente per questa stagione non fa troppo caldo. Cenare in una delle kafane sulla Neretva a due passi dal ponte è una delle cose più belle che vi possa capitare. Laura e Edoardo, nostri compagni di viaggio che sono a Mostar per la prima volta, catturano immagini con lo stupore di chi si rammarica per non aver conosciuto prima questi luoghi di straordinaria bellezza. E che potrebbero vivere della loro unicità.

Ha ragione, Selma, ad essere preoccupata. Né la politica locale, né la comunità internazionale, sanno trovare strade nuove per dare risposte alle contraddizioni che gli anni '90 (e il dopoguerra) hanno lasciato dietro di sé. Quel che potrebbe fare la differenza per questa terra sono persone come lei.
martedì, 26 giugno 2012Martin Brod

Maja ora è una giovane donna. Ma quando i suoi genitori la caricarono su un pullman polveroso, come lo sono i pullman di ogni esodo, estremo atto di amore per proteggerla dall'inferno, aveva appena undici anni. Finì nel fiume dei profughi. Come destinazione, un paese sconosciuto "e una lingua da imparare in fretta", dall'altra parte del mare.

La guerra le ha portato via molte cose, il diritto all'adolescenza fra l'altro. Non la speranza. Così qualche anno fa ha deciso di rientrare in Bosnia Erzegovina per prendersi cura del suo paese. Nell'ascoltare Maja, questa volontà di non darla per vinta viene fuori con tutta la forza che possiede. Si arrabbia quando, nella nostra conversazione, provo a dire che hanno vinto loro, i signori della guerra e degli affari. Non vuole proprio sentirle, Maja, queste parole. Forse perché teme, in cuor suo, che possa effettivamente essere così.

Dice che no, che questa è una visione della nostra generazione, che i giovani non ne vogliono più sapere di quel mondo adulto che ha tolto loro l'innocenza, il gioco e gli affetti. Parole che mi fanno venire in mente il "vaffanculo" dei giovani di Gaza. Prima ancora che iniziasse la primavera araba, a fronte di una guerra infinita per un confine tanto angusto quanto anacronistico, scrivevano nel loro manifesto, semplicemente, "... vogliamo vivere".

Le sue parole mi scuotono, come se il mio disincanto rappresentasse un atto di ostilità verso la sua generazione. Come possiamo permetterci di negarle anche il diritto di immaginare un futuro diverso, dopo che la nostra generazione le ha negato il diritto alla spensieratezza?

Le nostre vecchie e malandate utopie ci hanno fatto sognare, prima che quei sogni s'infrangessero di fronte a tante sconfitte. "Avremmo dovuto capirlo subito che quelle bandiere erano rosse di sangue fratello..." scrive Magris attorno al sogno che diventa incubo. E allora, perché non ripartire da qui? Perché non elaborare questa storia e non indagare strade nuove?

Maja lavora ad un progetto di valorizzazione del territorio e di turismo responsabile nel Cantone Una - Sana, dando continuità ideale al lavoro che iniziammo una dozzina di anni fa, proprio qui a Martin Brod, non lontano da Bihac, attorno ad una diversa proposta turistica che sapesse cogliere ed apprezzare le caratteristiche del territorio.

Perché Martin Brod era allora, e continua ad essere, un luogo speciale. Si fatica a trovarlo persino sulla carta geografica, non è certo meta dei circuiti turistici tradizionali, ma "il villaggio dei cento mulini" non lascia mai indifferenti i suoi visitatori, come se l'incantesimo di Marta, "la signora del fiume" stando alla leggenda, ancora colpisse nel segno. E infatti si dice che la sua immagine riaffiori nell'acqua che circonda ogni casa, nei mille ruscelli che un tempo muovevano le macine dei mulini, nelle vasche naturali di travertino che nei secoli si sono formate in uno scenario di grande fascino.

La difficoltà nel trovare nella piccola comunità di Martin Brod (qui d'inverno vi abitano meno di cento persone) un referente in grado di dare continuità al nostro lavoro, la fatica di dare sostenibilità e continuità ai progetti anche in Trentino, specie se le istituzioni non colgono che l'Europa si costruisce solo investendoci, la fatica del volontariato ... hanno contribuito a rendere i rapporti con questo luogo più rarefatti. Ma certamente alla costruzione del Parco nazionale della Una, che ha messo in protezione questo territorio da ipotesi speculative (vi si voleva realizzare una grande diga che avrebbe fatto svanire l'incantesimo), abbiamo dato anche noi come comunità trentina un piccolo contributo.

Così Martin Brod è diventato un punto fermo negli itinerari naturalistici del turismo responsabile in Bosnia Erzegovina e pure nelle attività di "Viaggiare i Balcani". Oggi Maja e il suo lavoro sono un riferimento, come lo sono per le famiglie di qui che in questo modo possono integrare il loro reddito fornendo ospitalità al viaggiatore che ne sa apprezzare l'offerta. Qui non troverete mai le colazioni di plastica degli alberghi ma piuttosto le cose vere e buone che vengono dalla natura e dalla cultura contadina. Alloggiamo infatti nelle famiglie, ognuna con una storia diversa da raccontare, chi non se ne è mai andato, chi dopo anni di diaspora ha deciso di rientrare, chi vive in California ed è qui per l'estate.

Passare la notte a Martin Brod, è come immergersi nel fiume il cui scorrere accompagna il tuo sonno.

domenica, 24 giugno 2012Goli Otok

Il mio ritorno nei Balcani. Nessuna immagine simbolica, nostalgia piuttosto. L'ultima volta fu un paio d'anni fa, a Sarajevo. Milleduecento chilometri, una riunione che forse avrei potuto fare via skype, il rito della bosanska kafa nel mio piccolo bar di Mostar (che pure non è sulla strada del ritorno, ma solo per il piacere di trascorrere qualche minuto in quel luogo) e poi via, altri milletrecento chilometri verso casa. Il tutto in un due giorni, praticamente una follia.

Che non viaggio da queste parti sono in realtà quattro o cinque anni, quasi un abbandono. Tutto quel che si è costruito in quindici anni di relazioni non è svanito nel nulla e questo mi basta. Non il lavoro dei Tavoli della cooperazione di comunità, che in questi anni hanno trovato nuova linfa, energie, intelligenze. Ovviamente discontinuità, com'è giusto quando si passa la mano. Non le attività sul turismo responsabile, diventate motivo di impegno professionale (e di passione culturale e politica) di un gruppo di giovani che hanno imparato ad amare i Balcani quando associare quei luoghi ancora segnati dalla guerra al turismo (seppure responsabile) poteva sembrare cinico. Non, ovviamente, l'Osservatorio Balcani Caucaso, che pure considero una delle cose più importanti realizzate nel mio percorso di vita, punto di riferimento, in Italia ed in Europa, per tutti coloro che guardano con un po' di attenzione verso questa parte del "vecchio continente".

Nel mio pensiero, nelle letture come nell'agire politico, i Balcani sono stati in realtà tutt'altro che messi da parte. Hanno continuato ad essere, invece, un punto di riferimento e una chiave di lettura del presente. Un dialogo non interrotto, dunque, ma che certo si nutriva di sguardi che, questi sì, mi sono mancati. Quello strabismo del quale ho spesso parlato in questo blog, che mi ha aiutato a guardare la realtà della mia terra insieme da lontano e da vicino, comunque con lenti diverse.

Ci ritorno partendo da Baska, ma quello che un tempo era un borgo di mare nella cornice affascinante delle isole del Quarnero oggi è diventato uno dei tanti luoghi del turismo plastificato. Non ancora del tutto, per la verità, ma il destino sembra segnato. Per quel che mi riguarda, solo un pretesto per prendere una barca e raggiungere Goli Otok, l'isola calva dove i dissidenti dell'anomalia jugoslava venivano deportati.

Nell'attraversare quel mare provo ad immaginare l'angoscia e l'incredulità dei tanti che in quel tragitto videro infrangersi ideali e speranze. La straordinaria bellezza dei luoghi non riesce affatto ad attenuare la tragica verità testimoniata da ciò che rimane del delirio di onnipotenza di un potere ossessivo che riproduceva, sotto altri simboli, il male assoluto.

L'impatto con Goli Otok mi lascia senza fiato. Se c'è un libro che più di altri ha saputo toccare le mie corde emozionali in quest'ultimo decennio, è stato "Alla cieca" di Claudio Magris. Racconta del rincorrersi di speranze e di tragedie lungo il Novecento, nel racconto autobiografico del compagno Cippico, fra la guerra di Spagna, il campo di concentramento di Dachau, il beffardo destino dei "Monfalconesi", gli operai dei cantieri navali che nel 1948 decisero di andare a costruire l'"uomo nuovo" per poi ritrovarsi - accusati di essere al soldo di Stalin, nel gulag titino. E poi - dopo una vita passata nelle galere di mezzo mondo - il centro di salute mentale.

Un libro doloroso che porto con me. Che dovremmo leggere per assumere le giuste distanze, affinché il sogno non diventi incubo, il disincanto cinismo.

Il dolore che Goli Otok emana mi risulta ancor più lancinante. Il modello è quello inaugurato ad Auschwitz: "Arbeit mach frei", il lavoro rende liberi. Lo scheletro di una grande, ossessiva, allucinante... fabbrica della morte, dell'umiliazione, della demolizione psicofisica dei detenuti. E' stata in funzione fin quasi alla fine del paese che  l'aveva prodotta (1988), praticamente ieri. Oggi è lì come una fabbrica dismessa delle nostre periferie urbane, un mostro trafitto le cui macerie di ferro ed eternit emanano ancora la loro vocazione mortale.

Di fronte all'ingresso di quello che un tempo era l'edificio che ospitava la direzione ed il personale della sorveglianza, costruito in pietra da quegli stessi detenuti che lo chiamavano "l'albergo", si vendono i souvenir di questa tragedia. I turisti che arrivano sull'isola calva non sembrano scorgere le anime morte che s'aggirano fra le macerie. 

venerdì, 22 giugno 2012Il fiore del deserto

Nel tardo pomeriggio di venerdì si svolge l'assemblea del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani. Si tratta del primo incontro dopo le polemiche che hanno portato il Forum sulle prime pagine dei quotidiani locali e così, nelle ore che precedono l'assemblea, mi chiedo se e come parlarne, perché da un lato non mi va certo di essere reticente e dall'altro vorrei evitare che l'azione del Forum ne potesse venir condizionata.

Lo spunto mi viene dalla sensazione di scarto provata il giorno precedente fra la realtà effettiva e quella virtuale. La distanza
profonda che strideva dentro di me fra il bel momento di riflessione e di cultura che abbiamo proposto come Forum e CFSI attorno al contributo delle donne nella primavera araba e l'odiosa polemica sul nulla che ha cercato di gettare fango sul lavoro del Forum.

Solo una piccola parte dei componenti l'assemblea era presente al racconto al femminile della rivoluzione dei gelsomini ed ora
parlarne è insieme un modo per condividere gli spunti interessanti che ne sono venuti (e di cui ho ampiamente parlato nel diario di ieri) in ordine alla paura, allo spazio pubblico, alla nonviolenza e alla necessità di nuovi paradigmi. Ma anche per riflettere sul fatto che i media, nei paesi arabi come dall'altra parte del Mediterraneo, a guardar bene, non sono meno in crisi dei partiti se hanno bisogno di polvere e sangue per tenersi vivi.

C'è di che riflettere. A cominciare dalla domanda che ci siamo posti in occasione del ventennale del Forum, se cioè le istituzioni (e la politica) trentine sanno essere all'altezza delle proprie leggi. Ed in effetti l'interrogativo rimasto un anno fa privo di risposta, ritorna in tutta la sua essenzialità. Perché i temi della cultura della pace rimangono ai margini dell'agire politico?

L'assemblea decide di non farsi condizionare dal veleno. Entriamo dunque nel merito dell'ordine del giorno, ovvero del  "nuovo inizio" del Centro interculturale Millevoci, del cantiere "Afghanistan 2014", delle iniziative del Forum in ordine al percorso annuale sulla cultura del limite. Argomenti sui quali il Forum propone idee, visioni, percorsi di elaborazione con cui tessere l'agenda delle associazioni e delle istituzioni di ricerca che fanno parte del Forum, nonché di un'opinione pubblica troppo spesso condizionata dall'emergenza. E promuovendi il rinnovamento del pensiero e delle motivazioni.

Per l'organismo che tanto ha lavorato in questi anni sulla mediazione interculturale (Millevoci), con la recente firma del nuovo protocollo di lavoro, si è posta la necessità di rinnovare la scommessa originaria, passando dall'integrazione alla cittadinanza. A settembre e per un mese intero, nella cornice del protocollo, si svilupperanno in tutto il Trentino una serie di manifestazioni, seminari, mostre, concerti... per dare alla parola "cittadinanza" significato pieno.

Il cantiere "Afghanistan 2014", avviato lo scorso anno, in pochi mesi ha prodotto un film (sì, si può produrre un film con poche misere risorse) che verrà presentato in anteprima a Trento (Cinema Astra) il prossimo 3 luglio (da mettere subito in agenda) e si accompagnerà a nuovi capitoli di un lavoro in progress. Perché la pace s'interroghi sul futuro piuttosto che rincorrere il presente. All'evento parteciperanno i rappresentanti della diaspora afgana in Italia. Chissà se i media se ne accorgeranno?

Sulla cultura del limite il pacchetto ormai quasi definitivo conta almeno cinquanta appuntamenti (da non perdersi la rappresentazione teatrale de La Ginestra di Giacomo Leopardi il 10 luglio a Rovereto (ex Manifattura Tabacchi) e il 19 luglio (nell'anniversario di Stava) a Trento (nel cantiere del Muse). La cosa interessante è che il tema ha iniziato a fare breccia nel dibattito politico, forse ancora solo in segmenti di opinione pubblica ma con la forza di un pensiero consapevole della sua ineludibilità.

L'assemblea si chiude in un clima di forte condivisione. In un contesto dove la pace fatica ad avere cittadinanza fuori dai riti della retorica, questo è un luogo che pone domande esigenti e prova a darsi risposte altrettanto alte. Non mi pare affatto banale.

Ora mi attende una settimana di viaggio nell'Europa di mezzo. Ne verrà un piccolo diario di viaggio.

giovedì, 21 giugno 2012Fiore di casa

Torno dalla val di Non che è quasi l'una di notte.  La serata organizzata a Sanzeno dal circolo del PD sull'amianto è andata bene ed è davvero importante riuscire a tenere forte l'attenzione  su questo tema anche dopo l'approvazione della legge provinciale. La quale per essere efficace richiede che cresca una diffusa consapevolezza attorno alla gravità del problema. E infatti, tanto nella mia relazione che in quella del dott. Mario Meggio, come negli interventi degli assessori della Comunità di valle Carmen Noldin e di Rolando Velentini,  insistiamo molto sulla necessità di un capillare lavoro di conoscenza della materia.

Perché ancora oggi, nonostante la certezza del rapporto di causa effetto fra l'esposizione all'amianto e l'insorgere del mesotelioma, l'attenzione verso questo pericolo latente appare del tutto inadeguata. Come in altri campi, c'è un sostanziale disinteresse fin quando la cosa non diventa allarme. Allora tutti s'incazzano, in primo luogo contro la politica che non ha fatto niente. Oppure trincerandosi dietro un opportunistico "io non lo sapevo, nessuno mi ha detto niente...".

Non amo gli allarmismi, né gli approcci emergenziali che oggi vanno per la maggiore (l'altra faccia del berlusconismo). L'approccio corretto è quello della conoscenza del problema, da affiancare agli strumenti legislativi che abbiamo assunto in Trentino per dare tempi certi del percorso di bonifica dell'inquinamento da amianto. E credo di poter dire senza falsa modestia che l'azione che abbiamo messo in campo su questa pesante eredità del passato rappresenti una pagina di buona politica. Lo dico a chi invoca rancorosamente i forconi e a chi, pur di vendere qualche copia di giornale, alimenta questo clima insopportabile del "tanto son tutti uguali".

E' interessante come questo stesso nodo emerga con forza anche nel dialogo che si svolge nel tardo pomeriggio nell'ex convento degli Agostiniani a Trento, dedicato al ruolo delle donne nella primavera araba. Perché, come dicono le ospiti al confronto promosso dal Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani e dal Centro di Formazione per la Solidarietà Internazionale, tre donne italiane ma rispettivamente di origine tunisina, egiziana e siriana, oggi la comunicazione non passa più attraverso i media tradizionali ma nella rete, tanto è vero che del suicidio di Mohammed Bouazizi  - il giovane tunisino che con il suo tragico gesto ha dato il via ad una vera e propria rivoluzione che ha cambiato il volto di tutto il mondo arabo - nessuno dei media di quel paese aveva dato notizia.

Ouejdane Mejr, Manar El-sayed e Nibras Breigheche sono tre donne diverse fra loro e il confronto, preziosamente stimolato da Adel Jabbar, è davvero interessante. Si parla della paura ("Avrei immaginato di vivere la mia vita così, nel silenzio" dice Ouejdane),  di spazio pubblico ("Ma nulla era pubblico" dice ancora Ouejdane riferendosi al suo paese, la Tunisia), di una cittadinanza al femminile e del valore della nonviolenza ("Di fronte alle donne in piazza l'esercito era come paralizzato" dice Nibras), dei nuovi pensieri che la primavera ha reso possibili ("E' la stabilità che mi fa paura, non i Fratelli mussulmani" dice ancora  Ouejdane), ma anche del timore verso un presente schiacciato fra il passato che ritorna ed un nuovo che prende le sembianze del fanatismo, come dice Manar pensando a quel che accade in queste ore nel paese d'origine della sua famiglia, l'Egitto. Aprendo in questo una dialettica con Nibras, entrambe giovani donne musulmane che hanno - come è naturale che sia - idee diverse e che grazie alla primavera oggi trovano il modo di confrontarsi.

Un dibattito che da solo mette nel ridicolo tutte le polemiche intorno al Forum delle settimane passate. Peccato che quelli che l'hanno fomentate, nella sala del CFSI gremita di gente, non ci siano. Come non ci sono i mondi di un femminismo che non ha più nulla da dire, né di un pacifismo di maniera chiuso nei propri riti o della politica che, tranne qualche positiva eccezione, nemmeno si accorge di quel che accade dall'altra parte del mare oppure considera queste cose come un po' naïf. Qui parliamo di vite e di pensieri, non dell'ossessione per qualche riga sui giornali.

La serata prosegue in un "Racconto dei due fiumi", un intermezzo artistico con Francesca Sordon (chitarra), Helmi Mhadhbi (liuto), Lassaad Metoui (calligrafia araba) e Michela Embriaco (voce), un performance che intuisco delicatissima, come del resto i cibi preparati dalla piccola comunità siriana. Mi perdo entrambi, dovendo raggiungere la val di Non. Grazie, comunque, a tutti quelli che hanno lavorato a questo evento e un grazie particolare ad Adel che ci ha proposto di organizzarlo.

Andando in auto verso Sanzeno penso fra me alla distanza fra queste cose e i luoghi inariditi della politica. Il pensiero va al nostro incontro pomeridiano sui costi della politica e su come ormai tutto ruoti attorno al bisogno di assecondare questo tempo vischioso, fatto di ingiurie e di luoghi comuni. Un modo di pensare la politica che non mi appartiene. Sono così distante dal populismo che mi posso permettere di esprimere senza ritrosie il mio pensiero. Credo nella politica, nella mediazione, nel compromettersi, nell'abitare i conflitti e nello sporcarsi... e al tempo stesso mi rendo conto di quanto  oggi la politica sia inadeguata, profondamente inadeguata, in primo luogo perché incapace di leggere la realtà e di interrogarsi, inaridita appunto dall'assenza della meraviglia, che Aristotele descriveva come la madre della filosofia.

La politica dovrebbe svolgere, ma forse è la mia non più tenera età a farmi credere ancora a queste cose, anche una funzione pedagogica. Forse non come la si poteva intendere nel secolo scorso (l'"organizzatore collettivo") ma di sguardo più alto, capace di cogliere nell'infinità di informazioni lo spirito del tempo. E', in fondo, quel che ho scritto come apertura nella home page di questo sito, la politica come risposta alla solitudine. Altre sono invece le logiche.

Al mattino siamo stati come Gruppo consiliare provinciale del PD del Trentino ad incontrare la Cooperazione trentina per approfondire il funzionamento dei meccanismi della vigilanza, sullo sfondo delle vicende della cantina Lavis o di altre forti criticità che si sono evidenziate in questi mesi. La cooperazione trentina è uno dei tratti decisivi della diversità di questa terra, ma questo ancora non si è capito. Se fosse così la si tratterebbe con cura, anche quando nelle sue scelte, mostra quel che questo tempo sa dare di sé nel bene e nel male. Perché la cooperazione rappresenta lo specchio della nostra comunità, nel suo aver contribuito a tenere vivo un tessuto di coesione sociale nel tempo dello spaesamento e, accanto a questo, nel mostrare le crepe  di un modello che per essere fertile chiede forti e nuove motivazioni, spesso venute meno.

E' interessante quel che emerge nell'incontro che si sviluppa per l'intera mattinata. Ma anche qui, dipende da quel che si vuol vedere. Ritorna il tema della narrazione di questo nostro Trentino. Chi lo dipinge come preda di una cultura sovietica dove la presenza pubblica uccide l'economia e dove non si muove foglia che "il principe" non voglia, non coglie i tratti profondi di una diversità che si esprime tanto sul piano dell'autonomia, dei caratteri dell'economia, del tessuto del volontariato come, infine, nella capacità di immaginazione politica che altrove non c'è stata. E che, nella furia iconoclasta del tempo, rischiamo di perdere. E un po' si è persa. Questa altra storia, che chi arriva in Trentino riesce a scorgere quasi d'istinto, forse sarebbe ora di raccontarla anche ai trentini.

Il solstizio d'estate se ne è andato regalandoci Petra. Un grande abbraccio a Beatrice e a Federico per questa gioia.

martedì, 19 giugno 2012Botticelli, La Primavera (particolare)

Manca ancora il passaggio decisivo in Consiglio Provinciale ma ormai quasi ci siamo. Software libero e Open data stanno per diventare un indirizzo legislativo per la Provincia autonoma di Trento. Anzi, qualcosa di più. Stanno per diventare l'ossatura del primo "testo unico" che disciplina il Sistema informativo elettronico trentino.  

Devo prima di tutto dire che si tratta del risultato di un lavoro partecipato. Abbiamo iniziato a parlarne con Annalisa Tomasi due anni fa e grazie soprattutto al suo lavoro di tessitura abbiamo dato vita ad un gruppo di elaborazione formato da persone che conoscono la materia e a questa hanno dedicato passione e impegno professionale. Che voglio ancora una volta ringraziare.

Dar vita ad un testo legislativo può essere più o meno impegnativo. Scrivere una leggina di un articolo che modifica un testo già esistente non richiede molto lavoro. Dar vita ad un testo organico su una materia non ancora normata (o solo parzialemnte) richiede invece un lungo e paziente lavoro di studio, di confronto con altre normative regionali, di elaborazione. Se poi le idee sono diverse, trovare una sintesi fra sensibilità o semplicemente accenti  diversi non è cosa da poco.

Predisposto il testo, questo poi dev'essere condiviso nel gruppo consiliare, passaggio non obbligato ma necessario per dare più forza alla proposta, superando il divario digitale che troviamo anche nei luoghi della politica. E poi con la maggioranza e la Giunta provinciale.

Su un tema come questo gli interessi in campo sono molti e, vi assicuro, non è stato un pranzo di gala. Conta il rapporto di stima e fiducia che si è costruito nel tempo, ma non per questo gli ostacoli svaniscono. Specie quelli che vengono dall'interno di un apparato che in genere è più conservatore della politica.

Un paio di mesi fa, la svolta. Non solo il via libera sul nostro DDL (nel frattempo unificato con il testo di Bambarda sul divario digitale) ma la proposta di inserirlo in un testo più ampio che metta ordine ad un settore cresciuto enormemente e sul quale la PAT ha operato in questi anni forti investimenti (banda larga). Un attimo di incertezza, ma le sfide mi piacciono e dunque la scelta di rimettere mano al testo in una cornice più ampia che investe la strategia provinciale per lo sviluppo della società dell'informazione e dell'amministrazione digitale. Senza sottovalutare il riconoscimento che viene dal vedersi affidata la titolarità di un disegno di riforma del settore.

Se nella prima fase le approssimazioni di testo sono state qualche decina, anche in questo caso si è trattato di un lavoro molto complesso ed attento. Fino ad arrivare ai giorni nostri, a ridosso delle audizioni e del voto in Commissione. Quando tutto diventa frenetico. Quando le resistenze più sorde si concretizzano. Quando il lavoro di mediazione diventa necessario per smussare gli angoli ma nella convinzione che quando si mettono in moto le carovane nessuno le ferma più.

Altri prima di me in Consiglio provinciale avevano provato a sfondare su questo tema senza riuscirci. Questo significa - fra le altre cose - che i tempi sono maturati e che la privatizzazione dei dati (e il software proprietario) non reggono più. Che la proposta sia venuta dal gruppo di maggioranza relativa conta pure qualcosa e ci parla dell'utilità (oltre che della fatica) di abitare i luoghi della politica. Anche le audizioni hanno pesato, perché il clima di forte sostegno da parte dei mondi e della società civile non era affatto scontato. Lo si nota anche nell'atteggiamento dei commissari, che pure qualche pregiudizio in cuor loro magari lo avevano.  

Il risultato è che la Prima Commissione Legislativa provinciale presieduta da Renzo Anderle approva il testo unificato. Ripeto, non siamo ancora all'approvazione definitiva ma molto vicini. Coscienti del fatto che la vera sfida inizierà in quel preciso momento, perché le leggi vanno applicate e perché più ancora delle leggi conta la maturazione culturale della comunità attorno ad una questione delicata e decisiva come questa.

Penso fra me come la rivoluzione informatica abbia cambiato nel giro di pochi anni le nostre vite. Alle possibilità che si aprono e alle insidie che tutto questo porta con sé. Questa legge - lasciatemelo dire - ci aiuta ad affrontare queste nuove sfide con un po' di speranza in più.

Nel momento della presentazione del DDL sul software libero, nell'autunno scorso, avevo dedicato questa proposta a quella primavera araba che a saperla guardare rappresentava la prima rivoluzione post novecentesca, un risveglio reso possibile dal passa parola delle nuove tecnologie. I mesi successivi ci hanno fatto capire che gli sms, facebook, twitter da soli non bastano. Che ogni primavera richiede un cambiamento profondo di cultura, idee e classi dirigenti. Ciò nonostante le parole di Elias Khouri (scritte durante la primavera di Beirut) mantengono intatte il valore del loro messaggio: "Con internet, questa storia di proibire è finita".

domenica, 17 giugno 2012Grecia

C'è attesa per i risultati elettorali in Grecia. Alla fine vince Nea Dimokratia, la formazione di centrodestra, ma il suo risultato si
attesta poco sopra il 30% e per avere la maggioranza dei seggi in Parlamento deve allearsi con il Pasok, suo tradizionale avversario. Esattamente i due principali partiti che condividono la responsabilità di aver portato la Grecia nella situazione attuale. "Bisogno di stabilità", si dice, ma l'instabilità a dire il vero era quella di prima. Syriza, il nuovo partito della sinistra, con il suo 26% si colloca all'opposizione e per il momento l'ipotesi di un cambio di prospettiva - pur nell'ambito dell'Unione Europea - ancora non c'è.

Eppure in questi mesi gli europei sembrano interrogarsi su questa Europa. Lo fanno in malo modo, ma questo è quel che butta il convento. Il secondo turno del voto parlamentare in Francia consegna la maggioranza assoluta dei seggi al Partito Socialista del presidente Hollande, nel cui programma elettorale si prevede un progetto europeo in discontinuità con l'asse Sarkozi - Merkel. Quest'ultima ha perso nettamente tutte le recenti consultazioni regionali, segno che nonostante una politica europea che favoriva la Germania il vento anche in questo paese sta cambiando.

Anche in Italia ci sono segnali di cambiamento, con la fine del ventennio berlusconiano. Ma l'indirizzo di tale cambiamento lascia aperte molte incognite, come se la fine di un'era lasciasse come eredità i frutti avvelenati di una società in preda allo spaesamento. Nei sondaggi il PD è il primo partito ma segnando un calo dei consensi assoluti e in un clima di avversità verso la politica mai così esteso.

E infatti quel che sembra emergere è un grande paradosso. Cresce la richiesta di cambiamento, ma le narrazioni proposte sono quelle precedenti. E il pericolo sta proprio qui. Perché se non emerge una proposta culturale prima ancora che politica capace di un racconto diverso del Novecento e delle sue illusioni/tragedie, di coniugare una visione insieme europea e territoriale, il rischio concreto sarà che gli umori diventino rancore e il rancore progetto politico. Lo smarrimento antipolitica. La paura egoismo sociale.

I segnali ci sono e sbaglieremmo nel considerare il leghismo un fenomeno finito. Perché la destra radicale in Francia oltrepassa il 20%, i partiti xenofobi raggiungono percentuali significative in paesi europei tradizionalmente aperti e democratici, i neonazisti in Germania entrano nei parlamenti regionali e Alba Dorata si conferma al 7% in Grecia.

Anche dall'altra parte del mare, in questa domenica segnata da "Scipione l'africano", non arrivano messaggi confortanti. In Egitto al ballottaggio per le presidenziali vanno il rappresentante dei Fratelli Mussulmani e quello del vecchio regime, in un confronto all'ultimo voto. Come esito della "primavera araba" non è il massimo e, nel concreto, l'effetto è che se ne stanno a casa il 60% degli elettori, che la Corte costituzionale scioglie il Parlamento (un golpe bianco, si è detto) e che i militari avocano a sé le funzioni legislative in attesa di nuove elezioni. In un altro scenario, quello siriano, gli osservatori delle Nazioni Unite se ne vanno perché ormai in quel paese, strategico quanto l'Egitto, è guerra totale.

Eppure la primavera aveva aperto strade diverse. Qui, nella lettura del presente e nella capacità di indicare nuovi paradigmi, misuriamo il ritardo profondo di una politica incapace di dialogare col presente.  

PS. In questa calda domenica di giugno, mentre scrivo queste note, il pensiero va necessariamente a questa nostra terra, per nulla estranea a queste stesse dinamiche. Per descrivere l'esito dell'Assemblea della Cooperazione trentina, Alberto Faustini ha descritto un Trentino che "fra il noto e l'ignoto tende sempre a preferire il primo". Saggezza antica? Una cosa è certa. Per salvare la "diversità" del Trentino - e la cooperazione è parte integrante di tale diversità - bisogna coltivare le idee, il pensiero, la formazione... Così la nostra stessa autonomia. A poco servono - ha ragione Faustini - "norme, primarie o altre alchimie". Occorrono spazi collettivi e visionari gentili, merce rara di questi tempi. 

giovedì, 14 giugno 2012Divario digitale

La politica è ridotta male, lo sappiamo. Nei sondaggi l'indice di gradimento dei partiti non è mai stato così basso. Ma potremmo anche fare a meno delle indagini demoscopiche per comprendere che così non va, che i luoghi preposti all'agire politico faticano a leggere il presente, che il pensiero politico è fermo al secolo scorso, che la politica è ridotta a mera ricerca del consenso, senza peraltro nemmeno riuscire ad averlo.

Parlar male della politica è dunque un facile esercizio, come sparare sulla croce rossa. Allora oggi scelgo di parlarne bene, perché l'incontro che si svolge nella saletta delle Commissioni dedicata a Gianni Lenzi, consigliere provinciale scomparso tre anni fa nell'oceano Atlantico nella tragedia dell'Air France, è una pagina di buona politica.

Giovedì mattina la Prima Commissione Legislativa era riunita per le audizioni sul testo unificato dei DDL sul software libero e sui dati aperti del gruppo del PD (primo firmatario il sottoscritto) e sul divariodigitale del consigliere Bombarda. Il nuovo testo è qualcosa di più della somma degli articolati precedenti, peraltro corposi. Rappresenta il primo testo unico sul sistema informativo elettronico trentino, che dà forma organica alle scelte compiute dall'amministrazione provinciale (in particolare con gli investimenti sulla banda larga) insieme alla necessità di rompere il monopolio del software proprietario e nel controllo dei dati.

Il tema è di straordinaria rilevanza. Oggi la democrazia passa da qui. Eppure misuriamo qui più che altrove il divario fra la realtà e la politica. Guardando però il bicchiere mezzo pieno, il fatto che ne stiamo parlando in una sede politico istituzionale, significa pure qualcosa. Significa - se non altro - che di questo divario e della necessità di mettere le briglia agli enormi interessi in gioco, alcuni consiglieri se ne sono fatti interpreti. Un lavoro durato un anno e mezzo, fitto di studio, incontri, stesura e ristesura di un testo che abbiamo analizzato parola per parola, che ha coinvolto decine di persone che da anni lavorano su questi temi. Insomma una proposta legislativa costruita attraverso un metodo partecipativo e che finalmente ha incontrato anche sul piano dell'amministrazione un contesto maturo.

Le audizioni diventano per i membri della commissione un momento di formazione. Si inizia con le associazioni che si occupano di diritti digitali del cittadino, da Linux trent, alla Fondazione Mach, alla FBK, alle realtà che da anni operano per la diffusione sul piano della didattica dei sistemi liberi e aperti. Tutti gli argomenti a sostegno del disegno di legge vengono snocciolati con grande efficacia e anche oltre, nel senso di forzare su alcuni punti la mediazione raggiunta nel testo presentato.  Anche i rappresentanti dell'Azienda sanitaria si esprimo in questa direzione. Raccontano di come da loro il processo di migrazione sia già iniziato e di come aspettino con favore questa nuova legge per rendere organico con il contesto provinciale questo passaggio.

Tocca poi al coordinamento degli imprenditori e anche in questo caso il giudizio è favorevole, forse con l'eccezione del rappresentante degli artigiani, ambito nel quale - peraltro - questa normativa aprirebbe importanti spazi e opportunità. Perché le ricadute sull'economia locale del passaggio dal sistema proprietario a quello libero potrebbero essere davvero significative. Giudizio sostanzialmente positivo viene anche dalle organizzazioni sindacali.

Devo però dire che il sostegno maggiore alla proposta vene dai rappresentanti dei Comuni, alcuni dei quali hanno già imboccato questa strada. Parlo dei comuni di Trento, Rovereto, Storo, Riva del Garda che non possono che guardare con favore a questa proposta di legge al fine di rendere ancora più efficace la loro scelta, che ci dicono ha già comportato significativi risparmi alle loro rispettive amministrazioni. E parere favorevole, infine, anche dal Consorzio dei Comuni.

L'effetto di questa mattinata d'ascolto si nota anche nell'atteggiamento dei commissari in maniera trasversale, tranne forse dal rappresentante dell'Italia dei Valori al quale però i nostri interlocutori rispondono in maniera garbata ed efficace.

Mi colpiscono le parole di Anne Ghisla, giovane rappresentante di Linux Trent. Viene da Varese, è da poco in Trentino e gli viene spontaneo dire che questo confronto sarebbe impossibile nella sua città d'origine. Significa che non solo la politica può saper ascoltare ma che la distanza che oggi appare (ed è) profonda può essere colmata. Richiede buona politica, in primo luogo. E questa mattinata è davvero una pagina di buona politica.

La prossima settimana ci attende il proseguimento dei lavori della Commissione e poi il testo licenziato arriverà in aula nella sessione di luglio del Consiglio Provinciale. Se così sarà e se supereremo gli ostacoli che ancora ci sono, colpi di coda di un apparato che fatica ad aprirsi, vorrà dire che il lavoro di questi anni avrà dato qualche frutto importante.

Perché sarà la quarta proposta che mi vede primo firmatario - dopo quelle sulle filiere corte, sui fondi rustici e sulla bonifica dell'amianto - a diventare legge di questa terra. Leggi importanti, non la modifica di qualche parola di testi precedenti, ma leggi di riforma e di impatto significativo (tranne forse quella sui fondi rustici che ancora però non ha trovato applicazione).

Mi chiedo se tutto questo viene colto da qualcuno, visto che buona parte dell'informazione preferisce le strade del pettegolezzo e del clamore. Cioè della cattiva politica, anzi della politica cattiva.

mercoledì, 13 giugno 2012Navigare

L'unificazione dei Disegni di Legge sul software libero e sul divario digitale è stato un lavoro piuttosto complesso. Non per i due testi in sé, ma per effetto della proposta venuta dalla Giunta, di trasformare questi DDL in una sorta di testo unico sul sistema informatico provinciale.

Il fatto di riconoscere i principi del Floss in un testo organico fa assumere alla nostra proposta originaria un peso decisamente maggiore, da far diventare il tema dei dati aperti, del software libero e del superamento del divario digitale una sorta di strada maestra che il Trentino decide di intraprendere dopo anni di incertezza e, diciamolo pure, anche di ostilità.

Nonostante gli indirizzi europei e gli ordini del giorno favorevoli alla necessità di un progressivo passaggio dal sistema proprietario a quello aperto, questo processo si è incagliato negli anni scorsi tanto negli interessi proprietari, quanto nella pigrizia della burocrazia.

Possiamo dunque dire che la presentazione del DDL di cui sono primo firmatario ha impresso una positiva (e speriamo decisiva) accelerazione ad una riforma del sistema informatico provinciale, che - lo dico apertamente - va oltre le mie stesse aspettative. Evidentemente la situazione era matura e, nonostante le resistenze che ancora sono presenti, siamo arrivati a questo testo unificato che dovrebbe andare in aula per l'approvazione già nel mese di luglio.

Uso il condizionale. Il testo che il 14 giugno arriva in Prima Commissione per le audizioni (e martedì 19 per l'approvazione) rappresenta un punto d'incontro, più ambizioso dei testi precedenti ma insieme un compromesso. Devo però dire in tutta onestà, conoscendo i testi originari e la loro evoluzione, che il nuovo articolato è più incisivo di quello originario. Tant'è che nel testo che abbiamo portato in Commissione abbiamo resistito a qualche colpo di coda che prevedeva la cancellazione del Comitato permanente per l'evoluzione del Sinet (Sistema informativo elettronico trentino) previsto dall'articolo 22 che, a mio avviso, costituisce uno dei punti qualificanti e di garanzia per la gestione e la trasparenza di tutto l'impianto legislativo.

Ora non ci resta che osservare l'effetto che fa. Con Michele Ghezzer prepariamo appunti e argomenti da proporre alla discussione dell'indomani, affrontiamo le possibili obiezioni, esaminiamo la tenuta del testo. Mentre scrivo abbiamo già superato le audizioni, ricevendone un consenso molto ampio alla proposta. Ci tornerò domani.

Il diario annota poi due incontri interessanti. Il primo è con le associazioni che si occupano di immigrazione e di culture migranti per l'organizzazione nel mese di settembre di un programma di iniziative a suggello del nuovo protocollo di "Millevoci", realtà di cui abbiamo parlato più volte in questo blog e che in occasione del suo decimo compleanno ha avviato un percorso di rivisitazione del proprio agire (e del documento istitutivo). Un programma ricco di occasioni di riflessione intorno al tema della cittadinanza, a partire dalla valorizzazione delle ricchezze materiali e immateriali dei paesi di provenienza dei nuovi trentini. Insomma, oltre l'economicismo che spesso ci porta a considerare questi paesi (e questi nuovi cittadini) come dei sottosviluppati, e oltre il folklore che offre un'immagine stereotipata di culture in continua evoluzione. Ovviamente ci ritorneremo.

Il secondo incontro è con i promotori di Punto Europa, associazione di giovani provenienti da vari paesi (anche i partecipanti all'incontro lo sono) che ha come focus il vecchio continente (si fa per dire). Hanno da poco concluso il loro percorso annuale, al quale anch'io ho avuto il piacere di contribuire. L'immagine di cinquanta giovani che prendono diligentemente appunti si associa alla nota di bilancio dell'esperienza di quest'anno, nel mettere in rilievo l'importanza che ha avuto il contatto con i frammenti di vita dei padri fondatori del disegno europeo. Oggi ci incontriamo perché vogliono proporre al Forum di condividere il loro nuovo percorso annuale, che vorrebbero dedicare all'Europa balcanica. Come potete immaginare, è per me un invito a nozze. Immagini e luoghi mi si muovono dentro e fatico a contenerli come fossero un fiume in piena. Vent'anni di vita lasciano il segno.

E' il richiamo della foresta o, meglio, di quel che più amo fare. Il desiderio di scoprire, di incrociare sguardi, di non smettere di meravigliarsi. Il bisogno di avere visioni ed il piacere di trovarle nei dettagli. Mi fa piacere che questo desiderio sia immutato, al di là di questa parentesi istituzionale che pure considero positiva.

martedì, 12 giugno 2012Guzzanti - Tremonti

Due aspetti occupano la cronaca politica della giornata, la questione dell'indebitamento del Trentino e quella relativa al futuro della Regione Trentino Alto Adige - Sud Tirolo.  

Incominciamo con la questione dello stato di indebitamento  del Trentino. Com'è ovvio, il tema potrebbe non essere banale, considerato come il debito sovrano sta condizionando i conti pubblici e le politiche di spesa dello Stato. Ma a fronte di un debito pubblico che sul piano nazionale ha raggiunto il 120% del PIL (e che pesa anche per la nostra quota parte), in Trentino il valore del debito consolidato dell'insieme del settore pubblico (Provincia, Enti Locali, Enti strumentali, altri enti) è oggi attestato all'8,3% del PIL, che corrisponde a 1.378 milioni di euro. E' interessante che al 31 dicembre 2011, l'indebitamento del sistema pubblico in provincia di Bolzano corrisponda ad una cifra del tutto analoga: 1.336 milioni di euro. 

Se ne parla nella riunione della maggioranza in Consiglio Provinciale ed il presidente Lorenzo Dellai esplicita il limite massimo della percentuale nel rapporto fra PIL e debito che viene proposta al 9,7%. Come a dire che attualmente siamo sotto il limite. Più che un obiettivo, si tratta di una misura invalicabile, ma a guardar bene tutto dipende dalla natura del debito, ovvero se questo corrisponde agli investimenti realizzati. Non dovremmo dimenticare, infatti, che una parte di questo debito è riconducibile agli enti locali e che un'altra parte è relativa alle politiche di sostegno all'economia locale, che hanno limitato sul nostro territorio gli effetti della crisi. La maggioranza prende atto della situazione e il confronto in buona sostanza non c'è.

Tanto rumore per nulla? Viene da dire di sì... C'è in realtà una narrazione non condivisa del Trentino, che dall'inizio di questa legislatura continua a venire a galla nella nostra maggioranza e, trasversalmente, nei partiti che la compongono. E dalla quale discende un diverso giudizio su molti aspetti - certamente segnati da criticità - ma che pure contribuiscono alla diversità di questa terra. E che sono destinati, da qui alla fine della legislatura, a venir ingigantiti.

Veniamo alla Regione. L'esternazione di Luis Durnwalder sulla fine di una Regione di cui peraltro è vicepresidente crea molto rumore. Le modalità possono lasciare perplessi, ma in buona sostanza la necessità di ripensare radicalmente il ruolo dell'istituzione regionale appare sempre più inderogabile. Come gruppo consiliare ci stiamo lavorando con l'obiettivo di
ridisegnare la Regione sul piano del superamento delle competenze residue in capo alla Regione e nella configurazione di un suo ruolo politico in chiave europea. Ne abbiamo parlato più volte in questo blog e nei giorni scorsi abbiamo perfezionato una proposta nella direzione di istituire una apposita Convenzione con Legge regionale a cui affidare il mandato di articolare una proposta di revisione costituzionale.

Mettere d'accordo il Trentino e il Sud Tirolo, il Trentino al suo interno e il Sud Tirolo nelle sue componenti nazionali... e poi la
composita realtà regionale e quella parlamentare nazionale, non sarà affatto semplice. Di certo c'è solo che così com'è non si può certo andare avanti. L'esternazione non rimarrà inosservata il giorno dopo, quando in avvio del Consiglio regionale inizia una querelle che si conclude con una riunione dei capigruppo che prenderà l'impegno di dar vita a breve ad uno specifico momento di confronto proprio sul futuro della Regione. Com'è certo che tale istituto viene vissuto in questo momento più come un ostacolo al dialogo fra le nostre comunità provinciali che un facilitatore.

E davvero non so dire se una riunione al mese del Consiglio Regionale sia troppo o troppo poco. Probabilmente l'uno e l'altro. E' davvero triste sprecare un'opportunità di confronto fra questi nostri mondi, tanto vicini e così lontani. Ma per fare questo, probabilmente, serve un nuovo inizio.

domenica, 10 giugno 2012Un\'agorà su via Brennero

In molti mi suggeriscono di rallentare. Ovviamente hanno ragione, la cultura del limite dovrebbe essere parte integrante del nostro modo di vivere e anche la cifra di un impegno politico e sociale che richiede equilibrio e sobrietà. Sono talvolta le stesse persone che ti chiedono di esserci nelle iniziative e l'esito è che anche la domenica non riesco a staccare la spina.

Cose belle, s'intende. A Trento nord, un tratto di via Brennero è chiusa al traffico come a prefigurare quel che potrebbe accadere se quella strada venisse declassata e la barriera "autostradale" che separa un quartiere nato senza una vera e propria pianificazione diventasse una piazza. Così una strada diventa, anche solo per un giorno, un'agorà.

Per iniziativa della Circoscrizione e dei gruppi culturali della zona, musica, giochi, parole... per costruire un senso di comunità che ancora non c'è. Annalisa Tomasi ci sta lavorando da tempo a questa iniziativa arrivata quest'anno alla seconda edizione. E' un percorso, spiega ai presenti, che ha l'ambizione di far uscire dal degrado un pezzo di città che fatica a trovare una sua identità in mezzo ai magazzini, ai centri commerciali e ai negozi. Non luoghi, ma in questi agglomerati privi di bellezza la gente ci vive, ci vivono nuove famiglie, tanti bambini.

Tutti ne hanno consapevolezza, gli interventi che si snodano in uno spazio di pensiero ricavato in mezzo alla strada sono all'unisono. Quelli dei consiglieri della circoscrizione, degli assessori comunali presenti come dei consiglieri provinciali (solo il sottoscritto e Andrea Rudari, per la verità). Ci sono tante piccole cose che si possono realizzare, per rendere meno faticosa la vita in questa parte della città. Ma se non si mette mano alla pianificazione urbanistica e non si ripensa lo sviluppo della città, qui i centri commerciali e gli edifici senza qualità continueranno a spuntare come funghi. Questo è il tema che pongo all'attenzione, perché se verranno edificati tutti gli spazi che sono previsti dal PRG lungo via Brennero e più in generale in questa parte della città, a cominciare dall'area ex Sloi per arrivare fino a Canova, la situazione non cambierà affatto.

C'è un disegno della città da riprendere in mano e questo riguarda anche il rapporto con il resto del territorio provinciale. Perché fin quando tutte le funzioni saranno dislocate lungo l'asta dell'Adige, Trento è destinata a crescere a dismisura. Si richiede quindi un disegno condiviso fra quel che si intende fare in Provincia con il nuovo ruolo delle Comunità di Valle, con i nuovi progetti di mobilità alternativa (banda larga, telelavoro...) e la necessità di ridiscutere la pianificazione urbana. Perché è evidente che se si costruirà su tutte le aree in gioco (Italcementi, Sloi, buco Tosolini, area Brigata Acqui, Canova, area ex Lenzi, via Brennero...) Trento avrà 150 mila abitanti nel giro di pochi anni. Con quel che significa sul piano dell'abbandono delle valli. Ovvero esattamente l'opposto di quel che cerchiamo di fare con la programmazione provinciale.

Me ne torno a casa nella speranza che il pomeriggio sia libero ma così non sarà. Abdelali Etthairi mi chiede di partecipare alla festa della comunità marocchina che si tiene a Lavis come momento conclusivo del percorso di cultura araba rivolto ai bambini della loro comunità e non solo. Il teatro lavisano è pieno di famiglie, giovani donne dai costumi coloratissimi, tantissimi bambini che sono nati qui, trentini a tutti gli effetti come lo sono ormai anche i genitori.

Porto il saluto del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani, parlo del mio recente viaggio nel loro bel paese, del contributo che può venire dal Trentino, una terra che ha conosciuto l'emigrazione fino agli anni '70 e che grazie all'autonomia ha saputo diventare il luogo bello e ospitale che li ha accolti e che hanno imparato a conoscere e ad amare. Perché è proprio l'autonomia il sostegno più significativo che noi possiamo portare, tanto al loro paese d'origine come nel farli divenire partecipi di questa nostra comunità. Un messaggio che comprendono e che li inorgoglisce.

Il sapore del the marocchino è inconfondibile e l'acqua trentina lo fa diventare qualcosa di ancora diverso. Sono felice di essere qui, in mezzo a loro e insieme al sindaco di Lavis, perché questo contribuisce a costruire una nuova cittadinanza in senso pieno.

Quando me ne torno a casa, la domenica se n'è ormai andata.

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venerdì, 8 giugno 2012Goli Otok, il gulag titino

Al Centro Candiani di Mestre, si parla di "Europa di mezzo". La cornice  è "Balkania", un mese di incontri, spettacoli e proiezioni a vent'anni dall'assedio di Sarajevo. Quello che nel tardo pomeriggio proponiamo è un racconto, che cerca di mettere a fuoco i messaggi rimasti inascoltati di quella parte di Europa. E di un Novecento che allunga la sua ombra sul presente. Lo spunto sono tre immagini, la "Vijesnica" (ovvero la Biblioteca di Sarajevo), le "nuove guerre" (quelle che si svolgono all'insegna della postmodernità), il "cerchio magico" (che ci parla dei lati inconfessabili della guerra).

Roberta Biagiarelli interpreta da par suo i personaggi che animano questo racconto, suggestioni che ci interrogano su un passato che non passa, su una guerra che non ha mai fine. Parlare dei Balcani è, in fondo, solo un pretesto per parlare del nostro tempo.

Certo, quel pezzo di Europa è dentro di noi e, personalmente, ne provo una grande nostalgia. Come non capire che parlare della "locanda balcanica" significa indagare la volgarità che ci circonda? Che gettare lo sguardo sull'"isola calva" vuol dire interrogarsi sul potere e sul conformismo? Che mettere a fuoco la deregolazione altro non è che comprendere il formarsi di stati offshore ammantati di simboli nazionali e religiosi. Ma quanti sanno della krćma" o della "filosophia palanka"? E che ne sappiamo da questa parte del mare di Goli Otok o della tragedia dei "Monfalconesi"?

Se ne sa poco anche dall'altra... figuriamoci in questo paese così sbadato. Che cosa ha a che vedere tutto questo con l'assedio di Sarajevo? Non era una guerra etnica dei serbi contro i bosniaci? O, cambiando lo sguardo, perché insistere sull'Europa se questa non ha saputo vedere ed agire per impedire quella come altre tragedie?

Fare i conti con il Novecento, questo è il tema. Quando andiamo a cena con Andrea, Roberta e Pippo la discussione si anima nel parlare di quel che accade in Italia e in Europa. Quasi avessimo parlato d'altro...  Meglio cercare le colpe negli altri piuttosto
che indagare dentro di noi. Che siano le banche o i capitali finanziari (e certo di responsabilità ne hanno, ci mancherebbe...), che siano i governi o i partiti (perché la politica non dà certo buona prova di sé...), che sia l'informazione (che pure contribuisce alla polverosità e al fango...). Sin troppo facile cavarsela così.

Mi rendo conto di come sia faticoso elaborare il cambio. Un cambio di sguardo, di pensiero, di approccio, di agire. Andrea si preoccupa nel vedermi provato. Le vicende calunniose dei giorni scorsi hanno lasciato il segno, non c'è che dire. Ed effettivamente avrei bisogno di staccare un po'. Ma ad inquietarmi non è la fatica del lavoro e nemmeno il veleno della politica
(che pure...). E' vedere che non si impara nulla e che il tempo dell'elaborazione sembra scomparso.

Mancano comunità di pensiero e mi sembra di toccare con mano la solitudine. Così, in questo tempo di corsa, ci sono distanze che svaniscono (in poco più di un'ora e mezza sono a casa), altre che diventano abissi.

Mentre attraverso il centro storico di Mestre, un manifesto murale cattura la mia attenzione. E' il richiamo di una festa del PD, il messaggio non esiste ma il logo di Emergency, quello non può mancare.

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mercoledì, 6 giugno 2012Volto di donna

Due giorni di Consiglio provinciale indicano il livello di delirio in cui la politica è caduta. Le interrogazioni diventano occasione di sproloquio e legittimazione di comportamenti illegali, come ad esempio nell'affermazione che verso il pericolo degli orsi sarebbe giustificato farsi giustizia da sé. Gli interventi dei consiglieri sono parole in totale libertà, a prescindere dal fatto che vi sia conoscenza dell'argomento di cui si sta parlando. Si sparano insulti pesanti e si alza la voce in maniera violenta. Nelle votazioni si coglie sin d'ora un clima da rompete le righe, legittimando - sul DDL sulla parità e le pari opportunità - rivincite e imboscate,  tanto che la maggioranza va sotto per due volte nella segretezza del voto. Manca una regia d'aula e l'assenza del presidente della Giunta di certo non aiuta.

Se questo è il clima, non oso immaginare quel che accadrà nei prossimi mesi, mano a mano che ci si avvicinerà alla scadenza del voto, anzi alle scadenze, visto che nel 2013 (salvo anticipazioni) si andrà alle urne per il rinnovo del Parlamento oltre che delle istituzioni della nostra autonomia. Ma già oggi il clima è insopportabile.

Devo però dire che la cosa che più mi preoccupa è la tenuta della maggioranza. Il dopo Dellai (lo dico perché la percezione è che già oggi siamo nel "dopo") non viene governato, anche perché non è affatto chiaro il rapporto fra le diverse componenti. E se oggi il tema di cui si parla è la trasparenza sulle cifre dell'indebitamento del sistema provinciale (cosa fin troppo ovvia e quindi un po' simbolica), in realtà la questione di fondo sono i pesi di un alleanza che mostra sul piano culturale la propria fragilità.

Nel PD del Trentino si confrontano ipotesi diverse, fra una componente che rivendica una leadership della coalizione in forte discontinuità con il presente (e fortemente ancorata al partito nazionale) e quella che guarda con interesse alla prospettiva di un partito territoriale che rimescoli le carte delle attuali appartenenze. Nelle scelte del gruppo consiliare o dei singoli consiglieri questa diversa prospettiva si avverte in maniera piuttosto netta. L'UpT è in affanno, al suo interno il chiarimento non c'è stato nonostante il congresso. Il suo gruppo dirigente sembra essere in sofferenza e risente dell'incertezza della sua figura più prestigiosa anche rispetto alla prospettiva nazionale. La ricerca di interlocutori territoriali va bene ma appare tardiva e troppo condizionata dall'approssimarsi delle scadenze elettorali (e delle dinamiche che queste mettono in moto). Sul territorio, poi, la contesa con il Patt sembra a vantaggio di quest'ultimo. E il Patt infatti si gioca la partita di una nuova leadership provinciale, rivendicando nuovi equilibri nella coalizione di governo. Prova inoltre ad intercettare il voto in fuoriuscita dalla Lega, accentuando le sue posizioni conservatrici. Le componenti minori della coalizione, a parte forse i Ladini, si giocano spazi incerti e legati ad un quadro nazionale in forte movimento e destinato a cambiare in maniera radicale.

La questione di fondo è che un senso comune di maggioranza, nonostante il centrosinistra autonomista governi il Trentino da almeno tre legislature, ancora non c'è. Un legame che fino ad oggi aveva in Lorenzo Dellai un garante, ma che avrebbe dovuto nutrirsi di idee e di progettualità (ma anche di conoscenze e di competenze) in grado di costruire sintesi nuove e più avanzate. Affinché i problemi non si presentino sempre uguali a se stessi.

Il disegno di legge sulla parità e le pari opportunità che affrontiamo in aula è un provvedimento che nella versione finale non può che essere considerato positivamente. Incardinare infatti la Commissione Pari Opportunità sul Consiglio provinciale anziché sull'assessorato competente è condizione di libertà e di non collateralismo. Era questa, del resto, una delle richieste delle associazioni che per un paio di giorni hanno presidiato l'aula consiliare. Mentre scrivo ho davanti a me il titolo di uno dei quotidiani locali che recita "Parità, nuovo carrozzone". Un'operazione di discredito e qualunquista, che assomiglia molto a quella operata solo una settimana fa verso il Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani. Certo, sono le politiche della PAT che devono essere informate alla Pace, all'Europa, alla Parità, ma che la Commissione di cui fanno parte le rappresentanze di istituzioni e società civile sia autonoma rispetto al potere politico mi sembra una garanzia essenziale e condizione per una positiva dialettica con l'azione di governo. E invece? "Carrozzone". Già immagino i blog che parlano di prebende, clientelismi o sprechi. Questa è una vera e propria guerra contro tutto quel che fa cultura e che ha contribuito a fare diverso il Trentino.

La cultura della parità, come quella della pace, richiede studio, formazione, capacità di mettere a confronto legislazioni diverse, elaborazione di proposte nuove. Tutto questo può avvenire per volontariato?  Certo, il volontariato è importante e ha rappresentato l'ossatura di un Trentino che ha saputo resistere allo spaesamento. Ma il volontariato richiede - per essere efficace nel suo agire - un lavoro metodico che non può essere lasciato alla buona volontà dei singoli. Sfido a trovare una cosa così difficile e faticosa come l'elaborazione del conflitto. O forse non sappiamo che non esiste riconciliazione senza elaborazione del passato... Possiamo forse immaginare di lasciare prassi di questo tipo al primo che capita? Sappiamo di che cosa stiamo parlando? Curare le ferite immateriali non è meno faticoso (e non richiede meno perizia) dell'intervento di tipo medico. Per questo bisogna investire risorse importanti, nella Parità come nella Pace.

L'ossessione del fare è la demagogia di questo tempo.

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lunedì, 4 giugno 2012Festival dell\'Economia, Trento

Difficile riprendere il lavoro come se nulla fosse accaduto. Perché essere associati ad una gestione "privatistica o clientelare" delle istituzioni è per me insopportabile. Perché prosegue lo sciame del veleno. Perché nella rete le parole diventano pesanti.

Mi arrivano molti attestati di solidarietà, ma questo non cancella lo stato d'animo, lo scasso istituzionale  e nemmeno il problema politico, visto che qualcuno ha subito cercato di speculare sulla vicenda per dire che la legge istitutiva del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani andrebbe messa in discussione. Nei giorni scorsi ho messo a disposizione il mio mandato di presidente del Forum all'assemblea che mi ha eletto e alla maggioranza politica di cui sono espressione nell'assemblea del Forum. Su tale verifica non intendo fare alcun passo indietro.

E questo a prescindere da ogni altra valutazione sull'abitabilità della politica. Perché il veleno di questi giorni lascia il segno, non solo dentro di me. Dovrebbe portarci a considerare che questo schema demolitorio rappresenta una spada di Damocle verso l'agire politico, ogni volta che questo esce dallo schema acconsentito.

Il dato di fondo è che si è fatto un gran polverone per nulla. "Dove sta il problema?" si domanda Mauro Cereghini nella sua efficace lettera al Direttore de "L'Adige" e la risposta che si dà è il fatto che la cultura della pace (e il lavoro di questi mesi e anni del Forum) sembra non trovare interesse né sul piano dell'informazione che nelle istituzioni. Forse perché questo tragitto fatto di ricerca, elaborazione e impegno nelle situazioni di conflitto (non importa se vicine o lontane), non fa audience.

Ma questo è solo un aspetto della vicenda. Come non capire che quando la pace esce dalla retorica e mette in campo questioni profonde, che investono l'elaborazione del passato in un contesto dove viene fatto un uso politico e strumentale della storia, dà fastidio? E poi, come non accorgersi che la demolizione delle persone è diventata una tecnica "normale" di lotta politica? Infine, come non vedere che siamo già in campagna elettorale?

Con questo umore mi reco all'incontro della terza Commissione legislativa provinciale.  In discussione un DDL proposto dal PD del Trentino (prima firmataria Margherita Cogo) sui percorsi partecipativi nei processi di realizzazione delle opere pubbliche di significativa dimensione. Non è un'opera di grande dimensione l'impianto della telefonia mobile che si sta realizzando nel centro dell'abitato di Condino, in sostituzione di uno minore già esistente. E, ciò nonostante, l'unica possibilità di bloccarlo sarebbe un nuovo regolamento provinciale sulla localizzazione di tali impianti, dando seguito all'impegno che il Consiglio provinciale ha già
assunto grazie ad un mio ordine del giorno durante il dibattito sulla Finanziaria 2011. Il nuovo regolamento è in via di approvazione, ma intanto le compagnie procedono secondo una normativa nazionale ben lontana dal principio prudenza che dovrebbe informare ogni scelta che ha a fare con la salute pubblica.

Finita la Commissione vado insieme a Federico Zappini alla conferenza stampa di presentazione della campagna "Sulla fame non si specula", proposta a livello nazionale dalla Focsiv e sostenuta sul piano locale da ACCRI e Fondazione Fontana. Porto la mia adesione come presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani, un pensiero sul rapporto  fra la limitatezza delle risorse (la terra in primis) e la tendenza alla guerra, e la disponibilità di farmi interprete in Consiglio Provinciale di questa campagna attraverso una mozione che il giorno successivo presenterò corredata dalle firme mia e della consigliera Sara Ferrari, e di tutti i capigruppo (il testo nella home page).  

Me ne ritorno in ufficio. Passo il pomeriggio nel  preparare la mozione di cui sopra, il programma sul tema delle mafie sul quale stiamo lavorando come Forum e che verrà realizzato in collaborazione con Rai Storia  e l'associazione Libera nell'autunno prossimo, l'aggiornamento del sito (in questi giorni questo blog ha raggiunto numeri di accessi mai registrati in precedenza, paradossi della cattiveria).

Oltre alla pazienza (e al sangue amaro), in questi giorni mi sono perso il Festival dell'Economia. Ritengo questa manifestazione una delle cose importanti che questa terra promuove, per le tante ragioni che sono state elencate nel bilancio conclusivo del Festival, ma per una su tutte. Quella di allargare lo sguardo sul presente. Cosa che potrebbe sembrare banale, ma che non lo è affatto se pensiamo alla fatica della politica di leggere questo tempo.

Nello scorrere però i resoconti giornalistici degli interventi al Festival, devo dire di aver riscontrato un eccesso di eclettismo. Ho già scritto sul Festival in passato, a proposito di una visione scolastica delle teorie economiche che ha impedito di spendere anche solo una parola nel prevedere la crisi finanziaria prima che questa sconvolgesse il mercato e le certezze di un pensiero fino ad allora "unico". E' del tutto evidente che un Festival come quello di Trento ha il dovere di proporre visioni diverse fra loro, ma ciò non esclude la necessità di sviluppare un profilo di ricerca che possa essere in connessione con il luogo dove tutto questo si svolge. In altre parole, il Trentino non può essere semplicemente un luogo ospitante come un altro, perché altrimenti il Festival potrebbe essere organizzato a Pechino, a San Francisco o a Nairobi... e non cambierebbe niente se non la location. Di questa necessità di immaginare il Festival dell'economia come un'opportunità di indagare strade di pensiero (penso ad esempio all'economia di territorio) su cui provare ad indicare un valore aggiunto, intendo ritornare nei prossimi giorni.

venerdì, 1 giugno 2012Velebitska Dedenja

«... Prima della guerra nazionalista, sul versante del massiccio del Velebit che si affaccia sulla Kraijna, c'era un giardino botanico d'alta montagna. Il suo curatore, un professore di Zagabria, si recava da anni in quella piccola valle  per mettere a dimora piantine selvagge: cardi bianchi e viola, lingue di cervo, edelweiss, ciclamini, genziane, pulsatille e così via, per ciascuna scegliendo l'esposizione al sole, il grado di umidità, la protezione dal vento, l'humus, la vicinanza alla pietra o all'alto fusto. Aveva poi collocato piccoli cartelli con i nomi, una spiegazione più generale sulla sua opera all'inizio del percorso e una raccomandazione: raccogliete immagini, non fiori. Che cosa sarà accaduto a quella minuscola patria del professore, al passaggio di quella guerra tra le più belluine, e poi, quando forse di lì è passato il fiume dei profughi? Anni di lavoro, per una patria roboante, o per niente? E che cosa avrà pensato, che cosa starà pensando il professore di Zagabria? Che cosa avrà pensato del senso che la storia dovrebbe assegnare al singolo, alla sua singola memoria, al suo singolo scegliere un'attività? ...».

Lidia Campagnano, Gli anni del disordine 1989 - 1995. La Tartaruga edizioni

 

Dovrei lavorare su molte cose ma sono come paralizzato. L'effetto veleno temo abbia raggiunto il suo obiettivo. Bravi davvero. Vorrei scrivere una nuova pagina del "Diario di bordo", la numero 787 tanto per parlare di trasparenza, ma le mie dita sono pezzi di legno. Mi interrogo sul senso dell'impegno e dell'agire umano, se poi basta una polemica sul nulla per gettarti addosso una montagna di fango.

Mi passa per la mente il passo di un libro di Lidia Campagnano sulle guerre jugoslave dove scriveva del senso dell'agire calpestato dalle orde dei soldati all'opera nella devastazione del parco nazionale del Velebit.

Ho cercato in questi giorni di guardare oltre, serate e incontri pubblici per parlare di temi locali e internazionali. Avrei da scrivere sullo splendido incontro che abbiamo organizzato venerdì pomeriggio a Maso Pez con gli "Autentisti", i vignaioli della Moravia che difendono e valorrizzano il patrimonio della coltivazione della vite, e con i loro colleghi trentini e su tirolesi.

O della serata promossa dal sito "Notizie Geopolitiche" che ha chiamato Aboulkheir Breigheche, presidente della Comunità Islamica Trentino Alto Adige, Giorgio Holzmann, Deputato (Pdl) e membro della Commissione parlamentare Difesa, e chi scrive a riflettere sulla drammatica situazione in Siria e sulla Primavera araba. E del mio applaudito intervento che prova a riflettere attorno a questa primavera inascoltata.

O, ancora, delle impressioni ricavate nella passeggiata notturna nella Trento del Festival dell'Economia.

Invece no, mi sento come svuotato, e me ne scuso con i lettori.

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