«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»<br/> Manifesto di Ventotene
Sabato 6 settembre 2025, alle ore 17.00
a Trento, presso i girdini di Piazza Garzetti
in concomitanza con l'avvicinamento al Porto di Gaza delle centinaia di imbarcazioni provenienti da tutto il Mediterraneo,
nell'intento di rompere l'assedio, portare aiuti alimentari alla popolazione civile e far sentire la voce di protesta di ogni parte del mondo per il genocidio in corso in Palestina
per fermare il nuovo capitolo di occupazione dei territori della Cisgiordania in spregio verso ogni risoluzione delle Nazioni Unite
ANPI del Trentio, ARCI del Trentino, Centro per la Pace di Rovereto, Cgil del Trentino, Unione degli Studenti Universitari, FNSI, Comunità islamica trentina propongono
un Presidio per fermare il massacro in corso e riaffermare il pieno diritto della popolazone palestinese a vivere nella loro terra.
Non far mancare la tua voce.
Appuntamento domenica 27 luglio, alle ore 21.45, in Piazza del Duomo a Trento (analoghe iniziative si svolgeranno in tutto il Trentino)
L’assordante silenzio attorno al genocidio in corso a Gaza non è più accettabile. Come singole persone comuni, così come membri di associazioni, gruppi di attivismo e partiti politici, non abbiamo intenzione di smettere di far sentire la nostra voce perché le istituzioni locali, nazionali ed europee si attivino e facciano pressioni con tutti gli strumenti di cui dispongono non solo per arrivare nel più breve tempo possibile ad un cessate il fuoco, ma anche per favorire l’accesso nella Striscia di acqua, cibo, farmaci e quant’altro sia necessario per permettere alla popolazione civile di sfuggire alla morsa della carestia. Affamare un popolo è un crimine di guerra, uccidere minori, donne e uomini mentre sono in fila con una ciotola e tanta pazienza per una razione di cibo è quanto di più disumano si possa attuare.
di Marco Revelli *
(10 luglio 2025) Il cinque per cento del PIL!!! Quando al vertice NATO dell’Aja del 24 e 25 giugno il Segretario Generale dell’Alleanza Mark Rutte ha sparato quella cifra iperbolica, in molti hanno pensato che fosse una sorta di scherzo, come dire? Un corollario dell’imbarazzante messaggio grondante servilismo da lui indirizzato, la vigilia, a Donald Trump, da prendere come la captatio benevolentiae di un maggiordomo zelante priva di valore reale. Un grido nel buio per confermarsi di esistere…
Quella percentuale corrisponde a una cifra terrificante: quasi un trilione di euro. Mille miliardi che ogni anno i Paesi europei aderenti alla Nato si impegnano a spendere dal 2035 per il settore militare . Un malloppo che fa impallidire il già mostruoso ReArm Europe di Ursula von der Layen. E che costituisce più del triplo dell’attuale spesa militare dei Paesi UE consistente in circa 330 miliardi, mica poco dal momento che già ora(!) rappresentano il doppio della spesa militare russa, la quale nel 2024, in piena guerra con l’Ucraina, non ha superato i 150 miliardi.
Presentazione del saggio di Simone Malavolti «Nazionalismi e "pulizia etnica" in Bosnia Erzegovina (Prijedor 1990-1995)», Pacini Editore, 2024
Martedì 1 luglio 2025, ore 20.00
Mori (TN), Oratorio parrocchiale, Via G.Battisti
Un incontro dedicato alla storia e alla memoria di uno dei capitoli più drammatici della dissoluzione jugoslava. Prijedor, teatro di atrocità negli anni ‘90, diventa il centro di un’analisi che intreccia ideologia, violenza, media e geopolitica.
Prijedor, cittadina bosniaca di quella che un tempo era la Jugoslavia, sale alla ribalta della cronaca internazionale per le terrificanti immagini dei corpi emaciati dietro il filo spinato di un campo di concentramento. È solo la punta dell’iceberg di un progetto iniziato con l’occupazione militare della città da parte dei nazionalisti serbi nella notte del 30 aprile 1992.
Un’escalation di violenza di massa che provocherà la fuga e la deportazione di migliaia di cittadini, l’internamento di 5.000 persone, l’uccisione di oltre 3.000 individui, la distruzione di interi villaggi e l’imposizione di una memoria pubblica unilaterale e negazionista.
Introduce e modera
Edvard Cucek, Gruppo Bosnia Mori – Brentonico
Intervengono
Simone Malavolti, autore del libro
Edin Ramulic, ricercatore e Attivista di "Jer me se tie" (Perché mi riguarda) Prijedor (BiH)
Michele Nardelli, scrittore, già presidente del Forum Trentino per la pace e i diritti umani
Questo articolo è stato scritto l'8 febbraio 2001. Non è un errore, è stato pubblicato proprio ventiquattro anni fa. A scriverlo due anni prima di morire fu Edward Said, uno dei più prestigiosi intellettuali palestinesi, scrittore tradotto in ogni parte del mondo ("Orientalismo" il suo grande capolavoro) e docente alla Columbia University di New York, poco prima dell'elezione di un assassino come Ariel Sharon a primo ministro dello Stato di Israele. Come Said prevedeva, quella elezione sarebbe stata foriera di un tempo buio. Ma non immaginava certo così buio. Perché in questo quarto di secolo alcuni di quei caratteri che egli ben conosceva del sionismo sono diventati strategia genocida verso il popolo palestinese. Ma, ciò nonostante, credo che Edward Said avesse ragione nel ritenere che quella china non avrebbe che portato Israele al suicidio.
di Edward Said
Si racconta che il famoso scrittore Guy de Maupassant, subito dopo che fu costruita la Torre Eiffel, andasse in giro per la città a dire senza posa quanto non gli piacesse quella grossa struttura. Tuttavia, andava a pranzo ogni giorno nel ristorante della Torre stessa. Quando gli fu chiesto che cosa giustificasse questo paradosso del suo comportamento, Maupassant rispose tranquillo: "Ci vado perché è l'unico posto a Parigi da dove non si abbia a guardare e nemmeno si possa scorgere la Torre".
La mia impressione generale è che per la maggior parte degli israeliani la loro nazione sia invisibile. Abitare in essa significa una sorta di cecità o incapacità a vedere che cosa sia e che cosa sia stata e, di più, una mancanza di volontà di comprendere che cosa sia stata per gli altri nel mondo e in particolar modo nel Medio Oriente.
Ali Rashid, il mio amico Ali, mio fratello Ali, non è più fra noi. Il suo cuore malandato si è fermato, non ce l'ha fatta a reggere oltre il dolore di una terra, la Palestina, per la quale aveva speso una vita.
Qualche giorno fa Ali mi aveva inviato le immagini di un ulivo millenario che bruciava da ore alimentato dal vento, anch'esso vittima designata della tragedia che si andava consumando nella Mezzaluna fertile per togliere di mezzo, con il genocidio della sua gente, anche le tracce della sua storia.
Quell'immagine rappresentava, non so quanto inconsapevolmente, il suo ultimo atroce messaggio, un editoriale senza parole perché tutte quelle possibili erano già state consumate. Il mio dolore è grande, caro Ali, alleviato solo dall'immaginare che il tuo corpo stanco ha finalmente trovato pace.
§§§
Riporto la riflessione che Ali scrisse mesi fa di fronte al nuovo tragico capitolo di una guerra infinita nella sua terra.
Eppure una volta eravamo fratelli.
di Ali Rashid
(un numero insopportabile di morti fa) Corre il tempo e cambiano le idee, i concetti fondamentali e i significati. Come fosse arrivato a compimento la negazione di ogni valore! Dio è morto. Viva l’eroica morte, giusto l’annientamento del “nemico”. Dilaga il nichilismo e trionfa la tecnica.
Vivono in me i racconti di mio nonno. Andava a Safad in Galilea per comprare un fulard di seta dalla comunità ebraica sfuggita all'inquisizione in Portogallo, avevano imparato la tessitura della seta dagli arabi in Spagna.
Mi ricordo di Khaiem, socio di mio nonno in una cava vicino a Gerusalemme. Khaiem non ha potuto salvare la mia famiglia dalla pulizia etnica, ma continuò a mandare alla nostra famiglia in esilio la parte del guadagno dell'impresa finché non morì.
Non ho notizie dei figli di Khaiem, ma ho seppellito mia sorella in Norvegia, un fratello negli Stati Uniti, un mio caro e stimatissimo zio una settimana fa a New York, mentre la salma di mio nonno giace in un anonimo cimitero di Amman.
Pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Tony Judt al volume di Edward Said, La pace possibile (Il Saggiatore).
Quando morì, nel settembre 2003, dopo aver lottato per un decennio con la leucemia, Edward Said era forse l’intellettuale più conosciuto al mondo. Orientalismo, il suo controverso libro sull’assimilazione dell’Oriente nel pensiero e nella letteratura dell’Europa moderna, ha dato origine a un intero filone di studi universitari, e a un quarto di secolo dalla sua uscita continua a suscitare irritazione, venerazione e tentativi di imitazione. Se anche non avesse scritto altro e si fosse limitato a insegnare alla Columbia University di New York – dove lavorò dal 1963 alla morte – Said sarebbe comunque uno degli studiosi più importanti del tardo Novecento.
Ma non si limitò a insegnare. A partire dal 1967, animato da una passione e da un’urgenza crescenti, Edward Said fu anche un commentatore eloquente e assiduo della crisi mediorientale e un sostenitore della causa palestinese. Questo impegno morale e politico a ben vedere non rappresentò uno spostamento dei suoi interessi intellettuali: la sua critica dell’incapacità occidentale di comprendere l’umiliazione dei palestinesi riprende l’interpretazione della letteratura e della critica dell’Ottocento condotta in Orientalismo e in opere successive (in particolare Cultura e imperialismo, uscito nel 1993). Tuttavia, questa scelta trasformò il professore di letteratura comparata della Columbia in una figura decisamente pubblica, adorata ed esecrata con pari intensità da milioni di lettori.