"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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domenica, 29 aprile 2012Onna (L\'Aquila)

Di buon mattino parto alla volta di Roseto degli Abruzzi, dove nel pomeriggio mi attende la presentazione di "Darsi il tempo". Con me anche Nicola, compagno di viaggio e amico fragile, curioso abbastanza da prendere al volo la mia proposta di venire fin qui, in questo mare di dolci naufragi.

Presentare un libro a quattro anni dalla sua uscita è piuttosto inusuale. In un mondo dell'effimero, che brucia ogni cosa in poche ore, sono a chiedermi se le parole scritte qualche anno fa siano ancora in grado di scaldare i cuori e motivare l'agire. A vedere l'entusiasmo di Adriano e degli amici di Roseto che da settimane preparano questo incontro pare proprio di sì. E lo stesso si può dire della numerosa partecipazione che ci accoglie nella grande sala dell'oratorio Piamarta, lo spaccato di una comunità che vuole mettersi in gioco in questo spazio e tempo che altrimenti ti ingoia, tuo malgrado.

Parlare di cooperazione, come ho detto tante volte, è sostanzialmente un pretesto per interrogarsi sul nostro tempo e questa cosa viene colta dalle persone in sala e un po' li stupisce, perché forse si aspettavano altro, altra era l'immagine che comprensibilmente avevano della cooperazione internazionale, mentre alla fine è chiaro a tutti che stiamo parlando del nostro sguardo su un mondo sempre più interdipendente e su come interagirvi.

Tant'è che le domande che mi vengono rivolte dal pubblico non investono tanto la cooperazione internazionale, quanto invece il bisogno di sentirsi meno soli nell'affrontare le sfide di un mondo globale che ci dà le vertigini e ci fa sentire impotenti.

Colpisce il pubblico presente questo bisogno di scrutare l'orizzonte, di darsi la distanza per mettere a fuoco le migliaia di informazioni di cui possiamo disporre, di non rincorrere gli avvenimenti. E proprio in questo emerge ancora più profonda la distanza della politica (ma anche della società civile nelle sue diverse forme) nel saper colmare questo bisogno di visione, prima ancora di provare a dare qualche risposta.

Ecco che la relazione, il mettersi in gioco non per aiutare ma per aiutarsi, emerge in tutta la sua valenza politica e sociale. Ed era quel che intendevamo fare nello scrivere un libro che parlando di cooperazione cercava di mettere alla prova le nostre categorie, i nostri strumenti di interpretazione, il senso stesso del nostro agire.

L'applauso conclusivo, le strette di mano, le parole scambiate, valgono di più di ogni altro commento. Ed ho la netta sensazione che qui la povertà di una politica abituata a sorvolare i territori sia ancora più marcata che altrove.

E' la stessa sensazione di abbandono che abbiamo il giorno successivo nel visitare L'Aquila e i paesini tutt'intorno. L'impatto del terremoto è più doloroso di quel che potessi immaginare. I palazzi del centro storico imbragati in attesa di un restauro che non si sa quando mai potrà avvenire, le antiche viuzze ancora ricolme di macerie, i condomini irrimediabilmente lesionati e abbandonati... e poi il silenzio, nonostante la calda giornata festiva di primavera. Mi fanno venire in mente immagini di dopoguerra impresse nella mia memoria e lo stesso potrei dire per l'odore inconfondibile delle macerie.

Il peso di tutto questo si fa sentire, tanto che con Nicola preferiamo ritornare sui nostri passi nel timore di essere confusi con quel turismo del dolore che avvertiamo intorno a noi. Un pudore che conosco bene, che ha a che fare con il rispetto della sofferenza, con la paura dell'invasività, con la ritrosia nel raccogliere anche solo qualche scatto fotografico... che mi prendeva nei dopoguerra balcanici.

O nel limitarci ad osservare - seppure con un pizzico d'orgoglio - le case dove sono state sistemate molte delle famiglie di Onna, frazione de L'Aquila andata completamente distrutta. Onna è un borgo medievale, ma di questa sua storia riesci a malapena a vederne le tracce, tanto la furia del terremoto è passata di lì in quella tragica notte del 6 aprile 2009. Qui la Provincia Autonoma di Trento ha realizzato un villaggio che rende la provvisorietà di tanta gente un po' meno angusta. Lo vedi da come le persone se ne prendono cura, nel tagliare l'erba del giardino e nell'attenzione per i dettagli di quell'abitare che non avrebbero mai immaginato, fra vie che sono state intitolate a Trento o al Volontariato. Ed ora è come se un po' della nostra terra fosse qui.

Il massiccio del Gran Sasso ha una forza imponente. Eppure in questi paesini che attraversiamo ritorna la sensazione di fatica e abbandono che abbiamo avvertito a L'Aquila. Qui non è il terremoto. E' l'esodo dalla terra e dalla pastorizia, è la fine di quel po' di piccola industria senza qualità che scorgi diffusamente nei capannoni semi abbandonati con il loro carico di eternit, è nel fenomeno che ci viene raccontato dei lucchetti alle case lasciate per trovare sulla costa la speranza di un più facile futuro. Anche in questo caso, un già visto carico di solitudine e perdita di identità.

Perfino il lungomare ne risente. E così anche il naufragio rischia di incagliarsi nella modernità di un mondo sempre più plastificato.

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giovedì, 26 aprile 2012Il piccolo cimitero di Toss

Laura, compagna di una vita. Il figlio Marco. I compagni di tante battaglie. Un po' di vecchi amici. L'urna con inciso un nome che proprio non mi riesce di associare al ricordo così vivo che porto con me. Così, nel piccolo cimitero di Toss, diamo l'ultimo saluto a Gianni Rigotti.

La casa di Gianni, in quel piccolo borgo, fu per anni il luogo di incontro e di discussione per tutta la Val di Non. Fra quelle mura ci incontravamo con uno sparuto numero di compagni, per discutere spesso animatamente, per festeggiare o per leccarci le ferite. Da quella piazzetta sotto casa partivano le auto per i comizi o per gli attacchinaggi in tutta la valle. Erano anni duri ed essere di sinistra, per di più radicale, voleva dire ostracismo, porte chiuse, amarezze. Eppure Gianni non si perdeva d'animo.

Fra Gianni, Walter, Luigi, Vittorio, Umberto... nacque un bel sodalizio, erano giovani certo ma radicati nel paese e alle elezioni comunali di Ton del 1980 la lista di DP prese il 12% dei voti e portò in consiglio comunale Walter e Gianni. Gianni era una forza della natura. Non dimenticherò mai quando voleva che i bus dell'Atesina estendessero il loro servizio alle piccole frazioni del suo Comune. La scusa per non farli arrivare era che mancava lo spazio per invertire il senso di marcia e allora Gianni prese semplicemente una ruspa e poi li chiamò dicendogli, in stretto dialetto noneso, di andare a vedere che ora lo spazio per girarsi il bus ce lo aveva, eccome. Gianni era così, intelligente e testardo. Quando c'era qualcosa che non corrispondeva al suo pensiero diceva, "ben, ben..." ed era come se dicesse "stiamo a vedere".

Poi le cose della vita portarono Gianni a Secchiano Marecchia, nella cittadina di origine della sua compagna. Ma i contatti fra noi non cessarono mai. Ci teneva insieme, oltre all'amicizia, anche un progetto politico e quindi non c'era congresso in cui non ci vedessimo. Oppure d'estate, quando veniva a Toss per qualche giorno di vacanza. Quando, nel 1989, decidemmo di andarcene da DP per Gianni fu un duro colpo. Eravamo per lui un solido riferimento e la scelta di dar vita a Solidarietà difficilmente ripetibile sul piano nazionale. Non sempre capiva le nostre scelte, ma l'affetto era più forte di ogni altra cosa. Quando ci si incontrava ci teneva a sottolineare che per lui non era cambiato niente, ma poi finì anche DP.

Cambiavamo, invece, se non altro per lo scorrere degli anni. Eppure Gianni c'era. Alle feste di Solidarietà la sua presenza era immancabile, così il suo sorriso, quegli occhi chiari che ti guardavano con aria sorniona. Collaborava con Legambiente di cui era punto di riferimento e animatore nella sua realtà. Il suo era l'ambientalismo di chi aveva un rapporto antico con la terra, non di maniera. Conosceva la natura e questo negli ultimi anni, lo aveva portato a ritornare suoi propri passi, quasi avesse un debito con la sua terra. Un debito che ripagava con lo studio e l'insegnamento sugli antichi mestieri da riscoprire, come la tessitura o l'intreccio di cui era maestro, attività che lo portavano sempre più frequentemente in Trentino, come ad immaginare un progressivo ritorno a casa. O almeno così io lo avevo inteso.

Tanto che mi ero ritrovato, in questi miei ultimi anni di impegno istituzionale, ad avere un collaboratore a distanza che mi suggeriva idee e proposte, sempre stimolanti e concrete, che avevano a che fare con quello che la natura ci mette a disposizione.  Era nata in questo nostro scambio anche l'idea di realizzare un percorso formativo rivolto ai giovani di Novafeltria e della Val Marecchia. Proprio pochi giorni prima di andarsene gli avevo inviato la proposta di un ciclo di incontri, una piccola scuola per riannodare pensiero e politica, che cercava di raccontare con occhi diversi un presente tanto complesso. Non c'è stato il tempo. L'impegno invece rimane e così a settembre inizieremo questo itinerario formativo che Gianni aveva proposto.

Dopo così tanto tempo, in questo pomeriggio primaverile fa un certo effetto ritrovarsi con Laura, Walter, Giorgio, Paolo, Lucia intorno a quello stesso tavolo di allora. C'è malinconia, com'è normale. Ma soprattutto una bella storia da raccontare.

mercoledì, 25 aprile 2012La caduta del fascismo

In piazza a Trento per il 25 aprile ci sono qualche centinaio di persone. Altre affollano le manifestazioni che si svolgono a Rovereto ed in altri Comuni trentini, come del resto in tante città di questo paese nato dalla Resistenza al nazifascismo.

Verso i pochi ancora in vita che furono protagonisti  della Liberazione e verso tutte le persone che sacrificarono la loro vita nella Resistenza, tutti dovremmo dire semplicemente "grazie". E' per questa ragione che sono qui, in piazza, anche se il rito che si trascina negli anni sempre uguale non mi piace. A commuovermi ascoltando le ultime parole scritte ai loro cari dai condannati a morte e lette con grazia da un giovane ventenne, anche se temo il veleno delle cerimonie.

Cadere nella retorica è facile. Interrogarsi sul significato della Liberazione oggi è il motivo di tutti i discorsi ufficiali, ma non ci mette al riparo. Nemmeno se, come è accaduto nelle ultime edizioni della ricorrenza del 25 aprile, sono state all'insegna della necessità di una nuova liberazione, tanto che lo slogan recitava più o meno così: "Non era questa l'Italia per cui la Resistenza aveva lottato". C'era Berlusconi, un nuovo fascismo con cui prendersela.

Resistere, resistere, resistere...  si diceva (e per inerzia ancora si dice). Più facile immaginarsi di nuovo in guerra (a parole, s'intende) che interrogarsi su quel che non ha funzionato, sulla shoah e i gulag che non abbiamo elaborato,  tanto per fare un esempio, o sulla colpa morale e politica che abbiamo fatto finta di non vedere, visto che non mi risulta che Mussolini avesse dietro di sé un piccolo consenso. O, ancora, sul razzismo mascherato di chi non è disposto a rinunciare a nulla, in un mondo già oggi oltre il limite.

Si può fare come hanno fatto i Radicali a Roma, indicare le condizioni di vita nelle carceri italiane come frontiera di civiltà e l'amnistia come nuovo terreno di liberazione. Ci può stare, sia chiaro, anche la provocazione contro l'antifascismo di maniera. Ma qui, come altrove, la scelta di abitare la contraddizione è forse più dolorosa ma almeno dispone al dialogo, piuttosto che all'anatema.

Anni di lavoro sui temi della memoria hanno messo in rilievo la scarsa dimestichezza che abbiamo verso la cultura del conflitto. Preferiamo occuparci delle emergenze, oppure delle materialità, in nome di un economicismo mai domo. I conflitti, invece, li rimuoviamo, nella speranza che il tempo guarisca le ferite.  Ma non è affatto così.

Abbiamo bisogno del colpevole, del criminale da far fuori prima che parli e dica cose sconvenienti per i vincitori. Ma dell'elaborazione dei conflitti, di quel lavoro di indagine, di scavo, di raccolta delle diverse narrazioni, che richiede di farsi attraversare dal conflitto assumendone il dolore, che significa mettersi nei panni altrui, che richiede di interrogarsi non solo sulla colpa criminale ma anche sulla banalità del male... non se ne parla. Né nelle celebrazioni, né fra una celebrazione e l'altra. Perché richiede di interrogarsi su di sé, non sulle responsabilità degli altri.

Ma, credetemi, è il solo modo che io conosca per venirne a capo, per evitare quello che James Hillman indica con l'espressione "La guerra non è mai finita". L'elaborazione del conflitto non ha come obiettivo di stabilire chi stava nella ragione e chi nel torto, ma quello di cercare per quanto è possibile una narrazione condivisa o, almeno, frammenti di narrazione per costruire un terreno comune per guardare al futuro e voltare pagina.  

Era questo il grande valore della Costituzione Italiana, una Carta di tutti, prima che diventasse suo malgrado un programma politico, a fronte di chi la voleva (e la vuole) calpestare. Dopo il ventennio berlusconiano varrebbe la pena di lavorare ad un nuovo patto di cittadinanza, che rifletta sulla tendenza - in assenza di elaborazione collettiva - della storia a ripetersi, e che tenga conto di come è cambiato il mondo intorno a noi sul piano dell'interdipendenza.

Quando i padri del manifesto di Ventotene lasciarono l'isola sulla quale il fascismo li aveva confinati, in quel mare pensavano che la fine della guerra avrebbe portato ad una nuova storia europea, perché era l'Europa e non gli stati nazionali il vero antidoto al fascismo e alla terza guerra mondiale. L'inno alla gioia la banda municipale lo dovrebbe conoscere...

Con questi pensieri cammino in mezzo alle divise militari e alle bandiere della nostalgia.

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lunedì, 23 aprile 2012Parigi, inizio Novecento

Una nuova settimana che si preannuncia densa di avvenimenti. Iniziamo con l'esito del primo turno nelle elezioni presidenziali in Francia. C'è euforia a sinistra per il successo di Hollande che supera di qualche punto Sarkozy: non accadeva da tempo che il presidente uscente prendesse meno voti di uno sfidante e questo è un segnale positivo. Ma come non vedere il successo dell'estrema destra xenofoba di Marine Le Pen che arriva al 18% dei suffragi? Un quinto dell'elettorato francese che già sta pesando nello svolgersi del ballottaggio, tanto è vero che Sarkozy si è rigettato nella mischia facendo propri i toni della destra. Non oso pensare se dovesse spuntarla... sarebbe un nuovo colpo per l'Europa. Perché è proprio l'Europa il cuore politico della partita che si gioca in questi giorni in Francia e nei prossimi mesi in tutti gli altri paesi.

Le Pen non è solo un fenomeno d'oltralpe. Se vi capita di ascoltare un comizio elettorale della "Lady nera di Francia" potrete capire come la Lega in Italia altro non sia che un fenomeno della modernità, espressione di un tempo dove l'alternativa fra civiltà e barbarie è sempre più netta. Gli argomenti e persino le parole sono le stesse e attraversano - in forme diverse - tutto il vecchio continente.

Il problema è che l'azione di contrasto fatica ad esprimere una narrazione nuova, perché le idee della sinistra (o del centrosinistra) sono ferme ad un Novecento niente affatto archiviato. Tutti ad invocare il rilancio della crescita e un modello sociale, quello keynesiano, fuori dal tempo, che aveva come presupposto il fatto che una parte dell'umanità non sedesse al tavolo dei commensali.

Voglio dire che per battere la destra che avanza, serve una nuova visione che faccia propria la cultura del limite. Capace di proporre un patto globale in nome della sostenibilità con le generazioni a venire. Che dalle grandi questioni del surriscaldamento del pianeta arrivi a riconsiderare la qualità del lavoro, dei consumi, dell'abitare, del vivere. E per far questo servono radici e visioni, una politica che corrisponda alla cifra dei problemi, che è sempre più territoriale e sovranazionale.

E capace di mettersi alle spalle i vuoti rituali. La Costituzione Italiana è questo programma politico? Per quanto si possa essere affezionati alla nostra Carta Costituzionale, la mia risposta è no. Il 22 dicembre 1947 non è solo il secolo scorso e, per quanto lungimiranti potessero essere i padri della Costituzione, il quadro con cui abbiamo a che fare è totalmente cambiato. Attardarsi intorno alle celebrazioni del centocinquantenario dell'unità d'Italia è stata una scelta sbagliata, sul piano culturale prima ancora che politico. L'affermazione dell'unità nazionale di fronte alle tendenze localistiche, una scelta miope e subalterna proprio nei confronti del leghismo e del vento di destra che tira in Europa. Non credo proprio che le celebrazioni del 25 aprile saranno l'occasione per confrontarsi su questo.

Già immagino la faccia sbigottita di qualche lettore, ma se non affido a questo diario questo mio sentire sarei votato al silenzio. Voglio dire, in altre parole, che la prospettiva politica è l'Europa. Non l'Europa che abbiamo ora, ovvero l'Europa degli Stati che non vogliono cedere nulla della propria sovranità né verso l'alto, tantomeno verso il basso (i territori), ma l'Europa delle regioni, come del resto l'avevano pensata i padri fondatori del federalismo europeo, non a caso condannati all'emarginazione politica. E se pensiamo all'Europa come insieme di minoranze (nazionali e culturali), la politica dovrebbe ripensarsi proprio su scala regionale ed europea, materializzando quel pensare/agire globale/locale di cui ci parlava profeticamente trent'anni fa Edgar Morin.

Qualche parola, infine, sul referendum per l'abrogazione delle Comunità di Valle. Domenica prossima io non andrò a votare. La prospettiva dell'autonomia integrale sulla quale è incamminata la nostra comunità porterà ad una ulteriore assunzione di responsabilità in capo alle istituzioni e al governo provinciale. Già con le ampie competenze che abbiamo, ci rendiamo conto di come la Provincia Autonoma sia diventata un  apparato troppo grande per essere snello e sostenibile. Trasferire sul territorio funzioni oggi in capo alla Provincia è decisivo, ma queste non possono trovare asilo nelle amministrazioni comunali. Per questo le Comunità di Valle rappresentano una sfida di grande rilievo per ridisegnare il nostro assetto autonomistico. Una riforma appena avviata, che incontra resistenze, tanto nell'apparato provinciale che - resistendo alla politica - non vuole mollare poteri e competenze, quanto nei Comuni, preoccupati di cedere qualche propria prerogativa verso le Comunità. Ma questo si chiama conservazione.

Fermare questa sfida a pochi mesi dall'entrata a regime della riforma istituzionale è un imbroglio, che cerca di utilizzare l'indignazione verso i costi della politica per fermare un cambiamento ancora fragile. Permettete che a questo imbroglio ci si possa sottrarre, non partecipando al voto di domenica prossima.

domenica, 22 aprile 2012L\'immagine usata per la presentazione del Quars 2011

Finisce una settimana intensa, faticosa. Parlo di cultura del limite e non posso non rilevare la contraddizione, perché personalmente sto andando oltre. Non c'è un attimo di tregua, tanti sono gli impegni. E la testa non stacca mai. Considero la mia una condizione di privilegio, non tanto per l'indennità di consigliere provinciale che per scelta ed impegno ho dimezzato, ma semplicemente perché lavoro per le cose in cui credo. E ciò nonostante, avverto una stanchezza profonda.

Che viene dal clima che avverto intorno a me e poi dal mio modo di interpretare un mandato pubblico che richiede studio, preparazione, riflessione.

Il clima è velenoso. L'amico Armando mi invia un pezzo che ha scritto per un quotidiano locale sui costi della politica e sull'esempio che gli eletti devono dare per essere in qualche modo credibili. Stiamo al telefono per un'ora e anche da questa nostra conversazione colgo quanto sia difficile trovare l'antidoto per questo veleno.

Convengo con Armando che un ulteriore segnale significativo la politica provinciale lo deve dare (oltre ai vitalizi che nessuno in Italia ha ancora toccato e alla sterilizzazione degli stipendi che nel corso di questa legislatura ha portato ad un taglio intorno ai 1.700 euro), anche se non credo che questo potrà servire a cambiare il vento che tira. Che ha radici ben più profonde e che riguardano invece l'involuzione culturale di questi anni che ha incattivito questa nostra società, lasciandola in preda degli istinti peggiori.

Come al solito, si guarda al dito e non alla luna. Quando il contesto culturale cambia non ci sono scorciatoie. Occorre un paziente lavoro di ricostruzione. Invece rincorriamo colpi di teatro, siano essi i referendum plebiscitari dei primi anni '90 che hanno spalancato le porte all'era berlusconiana o il rincorrere i fantasmi che qualcuno agita ad arte affinché ce la prendiamo con il nulla piuttosto che con le cose vere.

Di questi istinti peggiori è espressione anche la qualità (o, meglio, il degrado) della politica. Si eleggono persone perché sono espressione di lobby o di corporazioni sociali, perché si rivendica il nuovo o un voto di genere a prescindere, perché sono sostenuti dai media o perché figli di razza che grazie al loro cognome hanno trovato tutte le strade spianate. E questo non aiuta certo a qualificare la politica, in una spirale tutt'altro che virtuosa.

Gli ostacoli che s'incontrano sulla strada della messa in discussione dei privilegi ci raccontano anche di questo: di una società che non è disposta a rinunciare a niente, pronta alla guerra pur di mantenere il proprio status. E se, di fronte a questa ritrosia, qualcuno decide che comunque ci rinuncia, come ha fatto il sottoscritto trattenendosi uno stipendio di 3.000 euro, viene persino deriso. O si sente dire "questi sono affari tuoi".

La stanchezza viene poi dal modo che ho scelto di interpretare il ruolo elettivo (e più in generale l'impegno politico). Non inseguo il consenso, nessuno mi tira per la giacchetta e quando capita se non sono d'accordo gentilmente li mando al diavolo. Preferisco dire cose sgradevoli o che ci costringono a pensare e a saper vedere il criminale che abita in ciascuno di noi.

Esporsi al pubblico con pensieri e parole, magari sensati, è tutt'altro che scontato. Specie se gli argomenti richiedono studio, riflessione e il misurarsi nella capacità di dire qualcosa che non sia banale. Come riuscire a catturare l'attenzione di cento e passa giovani che decidono di dedicare un po' del loro tempo nel far propria la tragedia di Rachel. Ne ho già parlato in questo blog ma voglio ritornarci. Devo dire che mi ha positivamente stupito l'attenzione con cui hanno ascoltato le parole che forse non avrebbero voluto ascoltare. L'indignazione richiede toni duri, la ricerca di un colpevole, piuttosto che interrogarsi sulla banalità del male. Invece mi seguono anche se ciò è forse più doloroso. Non ci chiede di schierarci o di fare il tifo, ma di guardarci dentro.

O provare a cambiare registro nel modo con cui il mondo della scuola affronta i temi dell'accoglienza, per provare finalmente ad andare oltre: oltre l'emergenza, oltre l'aiuto, oltre l'interculturalità. Oltre le abitudini e oltre il conservatorismo. Indagando il significato di cittadinanza, declinandola con l'uguaglianza, l'innovazione culturale, la conoscenza. Nella sala verde di Palazzo Europa con una cinquantina di insegnanti questo proviamo a fare, per dare sostanza ad un pezzo di carta rappresentato dalla firma del nuovo protocollo per "Millevoci". Che in ogni caso mettiamo nella cesta delle cose realizzate e che, vi assicuro, ha richiesto la necessaria caparbietà.

O provare ad attrezzare la nostra comunità autonoma di strumenti di misurazione della qualità del vivere diversi da quelli tradizionali e che non descrivono se non in maniera distorta la realtà. E' quel che facciamo nel pomeriggio di sabato insieme agli amici di "Sbilanciamoci!" che come Forum abbiamo invitato a Trento per illustrare il 9° rapporto Quars sulla qualità dello sviluppo nelle Regioni italiane. E mettendo alla prova i numeri con i racconti di sette testimoni di questa nostra terra per ognuno dei grandi parametri utilizzati per disegnare l'Italia della qualità. Ne esce una cosa molto bella, non manichea, che ci permettere di essere soddisfatti per le performance del nostro territorio e al tempo stesso indicare i terreni sui quali migliorare.

Perché è esattamente questo ciò che intendevamo con quel "nel" prima della parola "limite": abitare le contraddizioni, essere al primo posto in Italia per la difesa dell'ambiente e al tempo stesso essere consapevoli delle nostre "Tremalzo". Perche stare nel limite significa mettersi in gioco, cercare di fare meglio con meno, accettare la crisi come una sfida. Un contributo che il Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani intende dare alla riqualificazione della politica, della pubblica amministrazione, degli stessi mondi della pace. Per alcuni giornali il giorno dopo il Quars sarà come piovuto dal cielo e la presentazione risultato del nulla. Forse anche per questo, in questa domenica piovosa, mi sento più stanco che mai.

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venerdì, 20 aprile 2012Rachel Corrie qualche istante prima di essere travolta dal bulldozer

Il film "Rachel" è angosciante. Nella sala del Cinema Astra a Trento piena soprattutto di giovani non si sente il minimo brusio. Non sono lì come studenti accompagnati da qualche insegnante ma per loro spontanea iniziativa. Per conoscere la storia di una ragazza della loro stessa età che decide di mettere il proprio corpo fra i bulldozer israeliani e le case dei palestinesi a Rafah, nella Striscia di Gaza, rimanendone uccisa.

Un documentario che raccoglie la voce dei testimoni oculari di quella tragedia, gli attivisti della pace che come Rachel si opponevano all'abbattimento delle case, dei giardini e degli olivi che avevano la sola colpa di essersi venuti a trovare in prossimità del "muro della vergogna". O la testimonianza delle famiglie che ospitavano questi giovani (alcuni di loro di origine ebraica) che venivano da ogni parte del mondo e che consideravano come angeli.

Raccoglie anche le dichiarazioni dei giovani soldati israeliani e dei loro superiori. Mi colpisce in particolare quella di un ragazzo israeliano che dopo aver fatto il soldato ha scelto di interrogarsi su quel loro sparare sulle case per divertimento. Quella banalità del male che nella sua testimonianza lo porta a dire "eppure da civile sono una persona gentile".

Non mi è facile parlare con questi ragazzi. Forse si aspettano da me un motivo di speranza, ma non è cosa. Forse vorrebbero che il tono delle mie parole assomigliasse a quello del giovane anarchico israeliano che nel film parla di resistenza, a dispetto di tutto. Preferisco prendere un'altra strada. Dico loro che non c'è alcuna causa per cui possa valere la pena di morire. Che la pace non ha bisogno di eroi ma di conoscenza, di relazioni, di cultura. Quel che le guerre moderne distruggono nel loro dispiegarsi contro i luoghi della storia e della memoria, contro gli intellettuali, contro le città.

Racconto loro di quante manifestazioni si sono realizzate a sostegno della causa palestinese dall'inizio degli anni '70 ad oggi, della solidarietà internazionale, di come la Palestina sia entrata piano piano nella mia vita. Parlo del senso di impotenza che mi prende ogni volta che ritorno da quella che un tempo veniva chiamata "la mezzaluna fertile del Mediterraneo". Di come i palestinesi abbiamo tentato tutte le strade e di come la pace sia oggi più lontana di ieri. La stessa idea di "due popoli, due stati", sostenuta a parole dal mondo intero diventi pura e semplice ipocrisia di fronte agli insediamenti ebraici illegali nei territori che dovrebbero essere sotto il controllo dell'ANP.

Provo a dire che per uscire dall'incubo in cui si sono cacciati israeliani e palestinesi, occorre uno scarto di pensiero, qui forse più difficile che altrove. Era - non so quanto consapevolmente - quel che si ripromettevano i giovani di Gaza quando davano inizio al loro manifesto/grido di dolore con le irriguardose parole di "Vaffanculo..." rivolte a tutti gli attori di una guerra che dura da più di mezzo secolo. Gridavano vaffanculo al mondo, seguito da un filo di speranza, "vogliamo vivere". Capivano, prima di tanti analisti, questo bisogno di tirarsi fuori, di smarcarsi rispetto ad un rituale che ci ha fatti diventare vecchi dentro e fuori. Perché dunque andare a morire per uno stato fuori dal tempo? O per spostare di qualche metro un muro o il filo spinato?

Non ho ricette da spendere. Solo la necessità di uscire dal paradigma novecentesco dello stato nazione, e poi  il riproporsi di investire sulla cultura, sulle reti partecipative, sulle relazioni e sulle capacità di autogoverno.  Per dare senso ad una cooperazione non più basata sugli aiuti, bensì nell'investimento per  creare nuove classi dirigenti, persone attente e responsabili, ma soprattutto oltre gli schemi del secolo passato. Qui come in ogni altrove. Come investimento su se stessi per comprendere questo tempo.

Immaginavo di raccogliere tutt'al più qualche domanda a conclusione della proiezione. Invece le persone in sala non si muovono, prima impietrite di fronte alle immagini, poi coinvolte dalle parole di Aziz - giovane palestinese che studia a Trento - che parla ai suoi coetanei cresciuti in un contesto protetto di altri ragazzi che non conoscono la parola futuro, e infine incuriosite da una persona che li mette in guardia dal criminale che si alberga in ciascuno di noi e dal percorrere strade già battute.

Il giorno successivo, nel seminario che accompagna la firma del nuovo protocollo di "Millevoci", Adel Jabbar parlerà delle seconde generazioni (i figli dei migranti) come di soggetti innovativi quand'anche incompresi, schiacciati da qualcuno (le famiglie) che li trova troppo italiani e da una comunità (la nostra) che continua a considerarli stranieri anche quando sono nati in questa stessa terra.  Trovo che questa immagine sia vicina assai alla platea che la sera prima mi ha quasi commosso per l'attenzione con cui ascoltava le mie parole.

mercoledì, 18 aprile 2012anni 70

Monta l'antipolitica. Le ragioni sono molteplici e ci parlano della fatica del comprendere i cambiamenti in atto, la diffusa perdita di identità sociale, l'insorgere di egoismi e particolarismi sociali...  Hanno altresì a che vedere con il triste spettacolo che la politica dà di sé, nella non volontà di mettere mano ai privilegi come nella corruzione, nell'appropriazione indebita, nei legami con il mondo degli affari. Investono infine il vuoto di idee, le modalità sempre più casuali di selezione delle classi dirigenti, le forme sempre più accentuate di personalizzazione della politica.

La politica riflette quel che butta il convento, ma a sua volta l'aria che tira viene alimentata da una politica spesso impresentabile. E' sbagliato generalizzare, ovviamente. Ma se un qualsiasi cittadino fosse passato martedì mattina in Consiglio Provinciale e avesse assistito alla sceneggiata che alcuni consiglieri hanno imbastito per giustificare la loro scelta di non rendere pubblica la propria dichiarazione dei redditi, credo che se ne sarebbe andato via a dir poco schifato.

Un clima insopportabile di sopruso e di violenza verbale. Dove non c'è alcun rispetto verso le istituzioni. In questo contesto, chi ci rimane sotto sono le persone per bene e soprattutto la Politica, quella con la P maiuscola, quella fatta di servizio alla propria comunità, di confronto di idee e di studio. Proprio di questo parlo alle persone del circolo anziani di Nave San Rocco in visita al Consiglio Provinciale e che accolgo nella Sala Aurora di Palazzo Trentini.

Inutile girarci attorno. Se la politica è all'ultimo posto nelle sfere di gradimento dei cittadini, tanto vale parlarne apertamente, senza infingimenti di circostanza. E così, nei quaranta minuti di conversazione che mi ritaglio nell'intervallo dei lavori del Consiglio, parliamo di questa distanza, dell'opinione che si ha della politica, della sfiducia indifferenziata che cresce verso "i politici".

Allora provo a descrivere l'impegno di un consigliere che cerca di svolgere coscienziosamente il proprio lavoro. Parlo del mio impegno di questi anni, della necessità che la politica si riprenda quell'orizzonte di sguardo sul mondo e sul territorio, delle proposte che poi si sono trasformate in leggi provinciali, dell'ultimo mio lavoro che ha portato il Trentino ad essere la prima regione italiana ad avere approvata una legge sulla bonifica dell'amianto dopo la storica sentenza di Torino. L'ora in cui avviene l'incontro (le 13.30) potrebbe essere di quelle soporifere, ma invece vedo tutti bene attenti a quel che dico e così fioccano le domande che spaziano dalla tragica eredità dell'eternit all'autonomia o alle comunità di valle.

Quando un'anziana signora mi chiede se la nostra autonomia è in pericolo, provo a dirgli che la maggiore insidia all'autonomia non viene da fuori ma da noi, dal nostro considerarla come una cosa acquisita una volta per tutte, dal venire meno della responsabilità individuale e collettiva ogniqualvolta si dice "non nel mio giardino", dalla scarsa partecipazione, dal non informarsi adeguatamente sulle cose correndo dietro ai titoli dei giornali. Insisto molto sul tema dell'apprendimento permanente, come forma di educazione alla partecipazione e alla democrazia.

Nel rivendicare la serietà e anche la fatica dell'impegno di questi anni, avverto la vicinanza di tutti i presenti in sala. Ed è una piccola soddisfazione. Devo dire che se penso a queste due giornate di consiglio provinciale, questo breve incontro con gli anziani di Nave San Rocco è una parentesi che mi concilia con il significato dell'agire politico.

E poi un'altra cosa ancora, fra i tanti incontri che metto in cantiere per dare senso al tempo che scorre in questa vuota sessione del Consiglio. Mauro Milanaccio mi chiama per dirmi che c'è una sua amica che vorrebbe parlarmi di cooperazione in America Latina e che mi conosce avendo studiato sociologia a Trento negli anni '70. Così rivedo Mary dopo quasi quarant'anni, praticamente una vita fa. Le parlo di cooperazione ma è quasi un pretesto per osservare con un incrocio di sguardi le nostre vite. Lo considero un bel regalo. 

Nella sera di mercoledì, infine, l'appuntamento è a Sopramonte per il quarantacinquesimo degli incontri del Gruppo Consiliare del PD del Trentino sul territorio. Presenti una ventina di persone, alle parole di apertura di Luca Zeni e del sottoscritto seguono molte domande, piuttosto esigenti devo dire. Ne esce una bella serata di confronto politico vero. Quel che volevamo.

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lunedì, 16 aprile 2012Stelle alpine

Il diario di oggi non ha molto da segnalare. Un articolo da scrivere per "Consiglio Provinciale Cronache"; lo studio del Rapporto Quars sulla qualità del vivere nelle Regioni italiane che andremo a presentare sabato prossimo con i curatori del rapporto, il presidente della PAT e sette brevi racconti di altrettanti testimoni della realtà trentina; una veloce riunione del gruppo consiliare; la messa a punto organizzativa dell'incontro di "Politica Responsabile" che a maggio prevede un significativo "passaggio di mano" ad un rinnovato collettivo redazionale; l'incontro con gli amici Razi e Sohelia per capire quel che sta accadendo in queste ore in Afghanistan e per mettere a punto il piano di lavoro del Cantiere "Afghanistan 2014" aperto nei mesi scorsi.

La cronaca locale è invece ricca di avvenimenti, dal congresso delle Stelle Alpine a quello delle ACLI trentine, solo per ricordare gli avvenimenti di maggiore spicco. Al Palarotary di Mezzocorona domenica è andata in scena l'assemblea congressuale del PATT, termometro interessante dello stato di salute del terzo soggetto della coalizione che governa il Trentino. Non lo si misura, a ragion del vero, sul piano dell'efficacia della sua proposta politica, visto che il confronto appare piuttosto scontato e privo di guizzi di particolare ingegno, ma sulla capacità di galvanizzare tante persone che sono accorse laddove un tempo sorgeva la Samatec (una delle fabbriche più inquinanti che il Trentino abbia conosciuto ed oggi sede del più grande spumantificio italiano). La forza del Partito Autonomista Trentino Tirolese sta oggi, paradossalmente, nella crisi della politica italiana e dei partiti nazionali. I milletrecento posti del Palarotary sono tutti occupati, una platea piuttosto giovane a dispetto di un gruppo dirigente che invece fatica a rinnovarsi. Ma il colpo d'occhio consegna agli osservatori presenti l'immagine di un partito in buona salute, quanto basta per candidarsi alla guida della Provincia, nonostante alle ultime elezioni provinciali il PATT non sia andato oltre l'8,52% dei suffragi.

I sondaggi nazionali danno la Lega al minimo storico, ma nessuno ne beneficia se non l'astensionismo. Quest'ultimo cresce (oltre il 35%) insieme al clima di sfiducia verso i partiti, che appaiono totalmente incapaci a rinnovarsi tanto sul piano delle idee che su quello delle forme del proprio agire. La crisi dei partiti non credo sia infatti ascrivibile solo o tanto alla questione morale, che pure c'è ed investe in modo trasversale gli schieramenti, ma investe la loro capacità di essere interpreti di un tempo complesso dove la cifra di ogni problema è sempre meno nazionale e sempre più territoriale e sovranazionale. Aspetto questo che intendo approfondire nei prossimi giorni.

Non credo affatto in un tracollo della Lega. Nonostante la crisi morale che l'attraversa e l'evidente frattura del suo gruppo dirigente, la Lega continua ad intercettare un sentire profondo, fatto di paura e rancore, che investe comunità in preda allo spaesamento. O si agisce su questo piano, nella promozione di un tessuto economico e sociale in grado di creare coesione e visione europea, oppure continuerà a prevalere il "si salvi chi può" che poi è l'anticamera del leghismo.

Tornando al PATT, è più facile che questo partito intercetti l'affanno dell'UpT che non la crisi (vera o presunta che sia) della Lega. Il mondo aclista ha sempre rappresentato un'area di frontiera del cattolicesimo democratico, che oggi appare più esigente che mai nel chiedere alla politica coerenza di comportamenti. La lettura della relazione del presidente Arrigo Dalfovo (che il lettore può trovare nella home page), presentata dai giornali come una bacchettata alla politica, non è affatto così. Esigente, certo, quando dice No agli F35 o alla dittatura del PIL o alla necessità di far propria la cultura del limite, temi sui quali effettivamente il ritardo della politica si fa sentire, eccome.

Se vogliamo provare a dare qualche risposta all'antipolitica che monta, è necessario un lavoro di rigenerazione che non corrisponde ad un qualche colpo di teatro ma ad un paziente lavoro di senso, di sguardo sul mondo reale, di corrispondenza fra la dimensione dei problemi e quella dell'agire. Il fatto è che oggi i corpi intermedi tutti (quindi non solo i partiti, ma anche le organizzazioni sindacali, le associazioni, il volontariato, le ong...) sono pensati su contesti che non esistono più, se non nella loro autoreferenzialità. E' questa la ragione per cui mi convinco sempre più della loro irriformabilità. Prima che sia tardi sarebbe utile mettere in moto altri percorsi, altre carovane.

venerdì, 13 aprile 2012Nel limite. Oriella

In serata a Mattarello si svolge l'incontro "Oltre l'illusione di una crescita infinita", organizzato da numerose associazioni del borgo a sud di Trento nell'ambito del ciclo "Nuovi stili di vita. Fra sobrietà, solidarietà, partecipazione". Relatori della serata siamo Dalma Domeneghini, dell'Associazione per la decrescita di Torino, e chi scrive. So bene che nel mio ruolo tanto di consigliere provinciale di maggioranza quanto di presidente del Forum mi si chiede coerenza, coerenza fra il dire e il fare, coerenza nei comportamenti. E per questa ragione non è affatto casuale che all'inizio del mio intervento scelga di proporre alle persone presenti l'epigramma di Andrea Zanzotto in una delle sue ultime interviste televisive prima di lasciare questo mondo. Che recita così: "In questo progresso scorsoio, non so se vengo ingoiato o se ingoio".

In queste scarne ma essenziali parole c'è il senso del titolo del programma annuale del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani: "Nel limite. La misura del futuro". In quella preposizione articolata prima della parola limite c'è la scelta di abitare la contraddizione che Zanzotto ci propone con le sue parole. Significa sfuggire alla predicazione, vuol dire riconoscere che ciascuno di noi è parte del problema, significa dare una chance alla politica. Quello che non capiscono i talebani (tutti i talebani, anche quelli del progresso), che non a caso dividono il mondo in amici e nemici, tagliandosi i ponti alle spalle.

E' questo il nodo che propongo nel mio intervento, quello di fare nostro il dubbio se veniamo ingoiati o ingoiamo, cercando di rendere fertile la contraddizione. L'approccio che dovremmo avere di fronte alle grandi questioni che riguardano il futuro del pianeta, dal rapporto con l'uso delle risorse al tema della nostra impronta ecologica. E, per stare più vicino ai problemi di casa nostra, al TAV come all'inceneritore, alla Cittadella militare di Mattarello come alla questione dell'acqua bene comune.

Ventiquattro ore prima del nostro incontro, l'irruzione del Comitato per la difesa dell'acqua pubblica nella riunione del Consiglio Comunale di Trento, testimonia di come invece sia più semplice bollare in forma ideologica quelli che vengono dipinti come i traditori del referendum. Eppure dovrebbero sapere che il Trentino è pressoché l'unica regione italiana nella quale si ri-pubblicizza quel pezzo di gestione dell'acqua trentina finita impropriamente in Dolomiti Energia quando questa ha assorbito Trentino Servizi e le municipalizzate di alcuni comuni. Lo strumento è quello di una società in house interamente in mano ai Comuni che ne faranno parte, e proprio questa è la materia dello scandalo. Non che in molte altre regioni le società di gestione siano multiservizi miste pubblico/private, non che tutto rimanga come prima, ma l'unica regione in cui si torna indietro, dando un segnale preciso e inequivocabile di voler corrispondere all'esito referendario.

Perché, si dice, la scelta dovrebbe essere quella della municipalizzata e non una Spa quand'anche interamente pubblica. La tesi è che con la Spa le azioni prima o poi potrebbero essere vendute ai privati. Ma tutto questo potrebbe accadere anche con le vecchie municipalizzate, come la storia recente ci insegna. E' essenzialmente una questione di volontà politica. L'unica forma societaria che potrebbe (forse) metterci al riparo da possibili privatizzazioni sarebbe quella di considerare la gestione dell'acqua come un bene soggetto ad uso civico. Almeno nell'immediato impraticabile. Dopo il voto referendario, la volontà politica che esprime il Comune di Trento (e il Comune di Rovereto) è quella di scorporare la gestione dell'acqua (e l'acquedotto di Trento) da Dolomiti Energia (pure società ad ampia maggioranza pubblica) per farla tornare interamente nelle mani dei Comuni. In questa direzione andava del resto l'ordine del giorno votato prima ancora dell'esito referendario dal Consiglio Provinciale.

Nella contestazione di tale scelta non c'è il senso del reale, c'è solo ideologismo e quel vizio antico che portò alla teoria staliniana del socialfascismo. Che aprì la strada ad alcune delle pagine peggiori del Novecento. Purtroppo siamo ancora lì. Non ad abitare la contraddizione per farla evolvere in maniera fertile, ma a volerla per forza chiudere.

"Dimmi da che parte stai": quante volte me lo sono sentito dire, con le parole o semplicemente con uno sguardo di disprezzo di chi ancora non riesce (e non vuole) a liberarsi della categoria del tradimento. Forse sarebbe tempo di capire che il sostare sull'uscio è la cosa più difficile ma anche più feconda. E invece no, "bisogna fare chiarezza". Con l'unico effetto di abbattere i ponti in nome di una presunta coerenza che poi non esiste, se non come ricerca individuale. Insomma, il "benecomunismo" è qualcosa di già visto. Avremmo forse dovuto parlarne, elaborando il nostro tempo ed offrendo questa elaborazione a quei giovani che oggi si ritrovano senza alcuna memoria del passato prossimo. Se in tutto questo avverto una responsabilità anche personale, è soprattutto questa.

Ritornando alla serata di Mattarello, alle persone che ci ascoltano vorrei trasmettere proprio il messaggio del dolore e del piacere di compromettersi, riconoscendoci come parte del problema. Nel rifuggire l'informazione e la politica gridata, l'emergenza e l'esibizione dei bambini. Proprio come scriveva Andrea Zanzotto: "Se qualcuno mi chiedesse di esporre la mia poetica, d'impulso risponderei: non abbaiare".

giovedì, 12 aprile 2012Cinquant\'anni fa...

Il disegno di legge sul software libero entra nel vivo. Sapevo che non si sarebbe trattato di una passeggiata, ci sono resistenze, tanto per gli interessi che sono in gioco, quanto perché ogni processo di innovazione si scontra inevitabilmente con conservatorismi e pigrizie d'apparato. Vado a parlarne con il Presidente della PAT, per rassicurarlo che i costi della migrazione dal sistema proprietario al software libero rappresentano un investimento sul futuro che ben presto darà i suoi frutti anche sul piano del risparmio di risorse pubbliche. Senza dimenticare che il DDL prevede un processo graduale di migrazione che è già in atto in alcuni segmenti dell'amministrazione provinciale e da parte di molti Comuni.

Le stime dei costi di migrazione sono già state fatte nei mesi scorsi tanto per la PAT, quanto per la Azienda sanitaria e per Informatica trentina e hanno dato risultati sorprendenti. E favorevoli alla migrazione, prevedendo un risparmio significativo già nell'arco di un triennio. Nei giorni scorsi era stata diffusa la cifra di 1,5 milioni di euro relativi ai diritti proprietari sborsati dalla PAT, stima piuttosto diversa da quella che abbiamo ipotizzato in sede di presentazione del DDL perché si riferisce solo alle circa 4.000 postazioni della Provincia in senso stretto. A queste vanno aggiunte quelle relative alla APSS (circa 4.800), alle più di 2.000 del sistema scolastico e a quelle delle società di sistema. E così l'impatto dei costi delle licenze sul bilancio provinciale diventa tre volte tanto, il che mi porta a dire che una scelta come quella che viene proposta dal DDL potrà avere un impatto significativo anche sul profilo del risparmio economico e che i costi iniziali (peraltro non molto diversi da quelli che già oggi si dovrebbero spendere per il rinnovo delle licenze proprietarie) saranno ben presto abbondantemente compensati dal sistema libero.

Va detto inoltre che l'open source significa possibilità di dar vita ad un sistema a sostegno dell'innovazione e della sperimentazione sul territorio che avrebbe un duplice effetto positivo: quello di favorire - grazie ad un sistema provinciale di dati aperti - un diffuso adattamento dei programmi informatici alle esigenze di ogni singola azienda e quello di orientare i costi di migrazione e gli investimenti su aziende trentine, a tutto vantaggio della finanza locale.

Senza dimenticare, infine, un altro aspetto decisivo: quando parliamo dei diritti digitali dei cittadini stiamo affrontando i nuovi orizzonti della conoscenza, della democrazia e della libertà. Attrezzare la nostra Comunità autonoma alle sfide di questo tempo è una scelta di responsabilità che fa il paio con il cablaggio del Trentino con la banda larga e con la riforma della pubblica amministrazione e l'introduzione del telelavoro.

Nell'incontro del gruppo di lavoro chiamato ad unificare il testo del DDL del quale sono primo firmatario con quello del consigliere Bombarda sul "divario digitale", al quale partecipa anche l'ing. Bettotti (dirigente della PAT su questa materia), ho la percezione che il confronto con il Presidente abbia positivamente sbloccato la situazione. Da parte mia esprimo la piena disponibilità a farmi carico di eventuali altri accorgimenti e proposte per realizzare la migrazione con tutte le prudenze del caso, purché la barra sia chiara e - dopo gli ormai numerosi impegni assunti nella direzione del software libero - la Provincia metta in atto un progetto organico per una comunità autonoma anche sotto il profilo della democrazia digitale.

Se ne parla anche in Prima Commissione Legislativa dove il DDL era già stato aperto un paio di settimane fa e dove porto una serie di chiarimenti in ordine alle criticità avanzate nella scorsa seduta. Il clima mi sembra favorevole. Ora l'iter legislativo prevede un nuovo incontro del gruppo di lavoro per esaminare il testo unificato ed eventuali proposte di emendamento da parte della Giunta, a seguire la fase di audizione ed infine il Disegno di Legge arriverà in aula, prevedibilmente nella sessione di giugno del Consiglio provinciale.

Il diario dovrebbe dare conto di altre cose. Un cenno lo dedico solo alla visita a Verona dove sono con Aicha Mesrar (consigliera comunale di Rovereto originaria di Casablanca) ed Erica Mondini (presidente di Pace per Gerusalemme) per incontrare il Console del Marocco. E' un po' che non entro in questa bella città e mi fa un po' specie pensarla nelle mani di un sindaco leghista. Qui siamo in piena campagna elettorale e, nonostante lo scandalo che travolge il Carroccio, è il sindaco uscente Tosi a farla da padrone. I segni della competizione elettorale non parlano d'altro: mi potrò sbagliare, ma vista da qui l'impressione è che la Lega possa uscirne addirittura rafforzata. Non voglio ripetermi, ma questo partito è l'espressione di una società che di fronte all'insostenibilità di un modello di sviluppo dice che non intende rinunciare a nulla delle proprie prerogative, anche a costo della guerra. Una società malata, dove chi fa i propri interessi (anche oltre il lecito) è nell'ordine normale delle cose. E allora può bastare anche una scopa per continuare a vedere quel che si vuol vedere.
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martedì, 10 aprile 2012Sarajevo, 11541 sedie vuote

I giorni di Pasqua se ne sono andati come un tranquillo fine settimana, fra un po' di lavoro arretrato e qualche buona lettura. Scrivo un pezzo per la rivista nazionale di Slow Food dedicato al Danubio e al viaggio previsto a fine giugno che ho già presentato in questo blog. Per questo dalla mia biblioteca scomodo il celebre lavoro di Claudio Magris (Danubio, Garzanti 1986) che - a dispetto degli anni - continua a trasmettere forti emozioni (è strano come la rilettura di un libro già letto possa dare nuove sensazioni, evidentemente a cambiare siamo noi...), e poi "E' oriente" di Paolo Rumiz, "Mar Nero" di Neil Ascherson...  

Vi raccontavo in questo diario di come avrei tanto voluto essere nei giorni scorsi a Sarajevo, fra le 11.541 sedie rosse, tante quante le vittime dell'assedio iniziato il 5 aprile di vent'anni fa, come monito al mondo intero di una città martire affinché quella tragedia non venisse rimossa nella memoria collettiva. Un messaggio efficace, non c'è che dire, ma la rimozione c'è stata allora e prosegue ancora nello sguardo appannato di chi non vuol vedere. Così, per essere vicino a questa città, chiamo Kanita per trasmettergli questo mio sentire e ripromettendomi di andarla a trovare, lei e la sua città, non appena i bagliori dei flash se ne saranno andati (il che accadrà molto presto).

Leggo tutto d'un fiato "Sarajevo, il libro dell'assedio" curato dall'amico Piero Del Giudice e presentato proprio in occasione del ventennale a Sarajevo. Raccoglie brani, testimonianze, racconti dell'assedio. Piero si concede solo la prefazione, nemmeno firmata, affinché a parlare di quei tre anni e mezzo di inferno fossero loro, i sarajevesi che decisero di non andarsene per non darla vinta agli assedianti. Quel loro rimanere fu un grande atto di civiltà, ma alla fine - è triste doverlo riconoscere - hanno vinto i moderni barbari perché la città ne è uscita profondamente ferita, i signori della guerra sono diventati influenti uomini d'affari, le persone anziane a vivere di dignità come sanno fare ma che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. I libri lasciano traccia. Ma la domanda di fondo è questa: quanto rimane nella memoria collettiva dell'Europa di questa tragedia europea? Lo chiedo al folto uditorio che incontro nella sala delle Acli all'incontro organizzato da Ipsia su "F35, il lavoro e la difesa", perché sono stanco dei rituali di un pacifismo che non sa (o non vuole) sporcarsi le mani. Sono quattro anni che parliamo di questa sciagurata intenzione da parte dei governi italiani, quello di Berlusconi prima e quello di Monti oggi, di dotarsi di una consistente flotta di cacciabombardieri d'attacco, 131 prima e 90 ora. Ma il cambio politico è questo? Quarantuno caccia F35 in meno? L'unico Consiglio Regionale che ha detto no a questa operazione è stato il nostro e in Parlamento il tentativo da parte di Pezzotta e altri deputati e senatori è sostanzialmente caduto nel vuoto. In tempo di tagli generalizzati, l'unica cosa che non si taglia (oltre ai vitalizi dei parlamentari) sono le spese militari. "Bilanciare la spesa in senso virtuoso" dice il ministro - ammiraglio Di Paola che, a spesa invariata, significa meno stipendi e più armi. Dobbiamo riflettere su questo governo che non cambia di passo, su questa nostra impotenza e su queste amnesie.

Occorre una nuova visione, questo è il problema. In primo luogo, l'idea di un nuovo modello di difesa di natura europea, considerato che i paesi UE spendono per i loro apparati militari almeno 270 miliardi di euro ogni anno, per difendere confini nazionali sempre più anacronistici. La politica deve cambiare il proprio sguardo... e non farsi condizionare dalla grande lobby militar industriale rappresentata da Finmeccanica, il colosso dell'industria militare e aerospaziale italiana, una delle dieci potenze mondiali del settore.

Occorre in secondo luogo, ed è un tema che viene posto in particolare dal segretario della Fiom Cgil del Trentino Roberto Grasselli, non solo invocare ma farsi protagonisti di un diverso modello di sviluppo che non contempli fra gli indicatori dello sviluppo il settore militar industriale, indirizzando le risorse pubbliche verso il lavoro produttivo e l'economia vera, puntando su filiere territoriali improntate alla valorizzazione delle risorse e delle caratteristiche del territorio.

Occorre infine che la cultura della pace irrompa nella sfera politica e questo, del resto, era esattamente l'obiettivo della legge istitutiva del Forum trentino per la pace e i Diritti Umani. Sono passati vent'anni e anche in questo caso, nonostante la diversità trentina, il bicchiere è mezzo vuoto più che mezzo pieno. Questo non significa che non si siano fatte cose per certi versi straordinarie, forse altrove inimmaginabili. Ma nel contesto di crisi della politica dobbiamo dirci con molta franchezza che siamo molto lontani dal considerare la cultura della pace come senso comune.

Finisco alle Acli che sono quasi le 8 di sera e di lì a mezz'ora devo essere a Mori per un incontro sul tema dell'amianto. Una trentina di persone attente fino all'ultimo, molte domande e anche congratulazioni, per la legge e per aver trattato un tema tanto inquietante con la leggerezza del racconto.

sabato, 7 aprile 2012La mostra nelle via del centro di Rovereto

Nei giorni che ci avvicinano alla Pasqua, il tempo è un po' più disteso del solito. Venerdì ho ancora qualche impegno di lavoro, prima con l'assessore alla cultura del Comune di Trento Lucia Maestri per la programmazione connessa al percorso annuale del Forum, poi al Forum con Franco Ianeselli e Tommaso Iori sui temi del lavoro (che con la cultura del limite c'entra, eccome), poi ancora in Provincia per definire alcuni appuntamenti della settimana che viene.

Il giorno dopo le dimissioni di Bossi i giornali dedicano un grande spazio all'inchiesta della magistratura sulla "Padania Ladrona", ma devo dire di rimanere sconcertato dalla superficialità con cui i media (e gran parte della politica) leggono questa vicenda, diffusamente considerata come la fine del Carroccio. Dello stesso segno i commenti sulla rete, tanto liberatori quanto umorali, quasi fossero d'incanto venute meno tutte le condizioni che hanno portato all'imbarbarimento di questo paese.

A guardar bene, la reazione prevalente di queste ore è "Sono tutti uguali". E per questa ragione non credo affatto che a questa vicenda debba necessariamente corrispondere una frana elettorale per  la Lega quanto piuttosto l'ingrossarsi delle fila dell'astensionismo.

Ma quel che forse più mi preoccupa è che in tutti questi anni di deriva non vi sia stata un'adeguata elaborazione di ciò che è avvenuto in questi anni, quasi che il voto al Carroccio fosse il prodotto di un imbroglio e non invece l'esito di una involuzione culturale e sociale che ha trovato un'organica espressione nel leghismo e nel berlusconismo. Un popolo (e una cultura) di sinistra che non ha saputo rinnovare il proprio pensiero, una classe dirigente che se domani mattina si ritrovasse a governare questo paese si troverebbe nelle stesse secche che portarono alla crisi del governo Prodi.

Come ho già avuto modo di scrivere in queste pagine, Il dibattito sull'articolo 18 è esemplare di come ci si ostini a non andare a fondo dei problemi, aggrappandosi a dei simboli quando la sostanza è altrove, in questo caso in un mercato del lavoro che non corrisponde più in alcun modo alle legislazioni nazionali.

Analogamente, in questa orzata che impedisce di mettere a fuoco quel che accade e che ci porta da un'emergenza all'altra, non c'è stata capacità di ascolto e di elaborazione su ciò che è avvenuto negli anni '90 nel cuore dell'Europa. A vent'anni dall'inizio dell'assedio di Sarajevo non si è capito un fico secco di quel che è accaduto, dei segnali che i Balcani ci hanno inviato in tutti questi anni e che riguardavano il carattere postmoderno di quei avvenimenti, del prendere corpo di stati offshore funzionali alla finanziarizzazione dell'economia, della natura delle "nuove guerre" che non si combattono fra eserciti (che invece fanno affari fra loro) ma che si accaniscono contro la cultura e le città, di una deregolazione (giuridica, sociale, ambientale...) funzionale alla delocalizzazione delle produzioni, della rappresentazione paternalistico/autoritaria attraverso nuove leadership che, in nome dell'antipolitica, prendono il posto delle forme tradizionali della politica. E, infine, di un'Europa che - come ebbe a scrivere Giuliano Amato - si fa o si disfa nei Balcani.

Ne accenno seppur brevemente nella conferenza stampa che si svolge sabato mattina nella sala consiliare del Comune di Rovereto per la presentazione del programma "L'odore della guerra", un ciclo di tre iniziative che s'inaugura oggi con una efficace mostra fotografica di Fabio Bucciarelli sulla recente guerra di Libia (dislocata come una moderna via crucis per le vie del centro storico della città), proseguirà il primo maggio a Trento alle Gallerie di Piedicastello con un confronto sul lavoro e la guerra, per poi concludersi l'8 maggio nella zona archeologica del Sass, sempre a Trento, con una conversazione sulla guerra dentro di noi.

Iniziativa che rappresenta una sorta di ponte fra il percorso sulla "Cittadinanza Euromediterranea" che si  è conclusa da poco e l'avvio di quello sul "limite", nella speranza che l'approfondimento di questi temi apra delle finestre di comprensione sul nostro tempo ma al tempo stesso indichi significati nuovi da dare a parole come pace e diritti umani altrimenti banalizzate. 

Quando arrivo a casa dovrei mettermi a scrivere, ma mi sento come svuotato. Non è solo la stanchezza, è il senso di frustrazione che deriva dalla grande distanza che avverto verso una sinistra che mi appare - nelle idee come nelle forme dell'agire - sempre più irriformabile. Occorre scartare di lato, a partire dalle rappresentazioni della politica che si ostinano nelle secche della dimensione nazionale, senza per questo fare fughe in avanti che potrebbero non essere capite.  E consapevoli che di questo scarto ne avrebbero bisogno tutti i corpi intermedi, non solo i partiti, ma anche le organizzazioni sindacali, l'associazionismo, il movimento cooperativistico. Qui come altrove.

giovedì, 5 aprile 2012Sarajevo, il monumento agli aiuti internazionali

In questi giorni vorrei essere là, dall'altra parte del mare. So bene che ci si ricorda di Sarajevo solo nelle ricorrenze e che in queste ore i giornalisti di tutto il mondo affolleranno i luoghi del dolore alla ricerca di immagini toccanti, di lacrime e di scoop a buon mercato. So che gli stereotipi di vent'anni fa continuano ad albergare negli sguardi distratti di cronisti e commentatori politici, producendo le stesse domande stupide e gli stessi commenti altrettanto idioti.

Eppure vorrei essere là. A Sarajevo, a Mostar, a Travnik, a Prijedor... nelle città e nei luoghi che amo della Bosnia Erzegovina, magari solo per condividere l'immancabile ironia che pochi come loro sanno avere verso i diplomatici, i giornalisti e i cooperanti, specie in occasioni come queste. Ho ancora in mente una sceneggiata di Dario Terzić, amico mostarino, a proposito dell'acume degli internazionali alle prese con gli indigeni di queste parti...  O, semplicemente, per annusare l'aria che tira nel cuore profondo ed inascoltato dell'Europa e che tanto mi è servita in questi vent'anni per leggere il mio tempo con altri occhi e con una diversa profondità.

Se c'è una cosa che mi manca in questi anni di impegno istituzionale (e che giustamente mi rimproverano i miei amici balcanici) sono proprio i miei viaggi di là del mare, tirate d'auto da sfiancare chiunque spesso su strade impossibili, fittissimi programmi d'incontro ad ogni livello, quantità improbabili di kafa e di rakija, ma soprattutto l'incrocio di sguardi sul nostro presente, immagini da raccogliere purché si sappiano mettere a fuoco.

La mia valigia si fa e si disfa in pochi minuti. In buona sostanza è sempre pronta. Così come il passaporto. Parlo con Razi e Sohelia di "Imperium", un libro di Ryszard Kapuściński che raccoglie racconti di viaggio lungo i confini perduti di quella che fu l'Unione Sovietica, dal Baltico all'Oceano Pacifico. Fra questi la via della seta, viaggio che ho nel cuore e che vorrei percorrere con loro fino a raggiungere quell'Afghanistan che le immagini televisive non ci raccontano.

Lo scorso anno abbiamo aperto un cantiere rivolto al futuro che abbiamo chiamato "Afghanistan 2014". Sì, 2014, il che già ci dovrebbe dire che non vogliamo inseguire né emergenze, né aiuti umanitari. E nemmeno di chi è la colpa. Semplicemente l'Afghanistan, un paese che forse dopo mezzo secolo di tutto questo, oggi ci chiede di mettere in luce le sue molte istanze vitali, perché è da lì che dovremmo partire se vogliamo uscire dall'incubo. Senza rimuovere nulla, sia chiaro. Tanto meno le responsabilità dei potenti del mondo o dei signori della guerra.

In questi mesi il cantiere ha prodotto incontri, idee e le immagini di un film che ci parla dei riti delle diplomazie, quelle dei governi ma anche quelle della cosiddetta società civile. Sarà una sorta di prologo per un programma di incontri che il Cantiere intende realizzare a Venezia, Roma e Trento nel prossimo autunno dove invitare alcune figure chiave di quest'altro Afghanistan che ha scelto nonostante la guerra un profilo diverso da quello della guerra. Nell'incontro fra l'Europa e la diaspora afghana, si vorrebbero gettare le basi per una nuova stagione di autogoverno dopo troppi anni di occupazione, di terrore e di guerra. Dove parlare di autogoverno dei territori, sviluppo locale, cooperazione fra comunità.

Quel che il Trentino sta facendo attraverso anni di relazioni e che sempre più ci viene richiesto come nostra prerogativa, oltre la logica degli aiuti e della solidarietà. Parole che richiedono quanto meno un restauro, quando non di finire in soffitta. E quando mi viene in mano la brochure della "Festa della solidarietà" con tanto di patrocino istituzionale, a fatica riesco a contenermi. Un concentrato di luoghi comuni, fin nelle immagini usate che vanno esattamente nella direzione opposta rispetto a ciò di cui avremmo bisogno. Mi chiedo quale sia il senso di attività importanti come quelle del Centro per la formazione alla solidarietà internazionale se poi l'approccio continua ad essere quello degli aiuti "ai paesi meno fortunati del sud del mondo". Visioni lontanissime.

Avverto effettivamente distanze profonde. A questo proposito, Stefano mi invia un messaggio curioso: mi fa notare che ha recuperato su politicaresponsabile.it il mio commento a proposito della crisi della Lega, postato accanto a quello di Michele Serra sullo stesso argomento. Lascio a voi ogni commento.

Distanze che uno sguardo sulla "balkanska krćma" (la locanda balcanica) avrebbero forse potuto contenere. Ma si è preferito guardare altrove, tanto che ancora oggi la tragedia degli anni '90 non ha trovato un'adeguata elaborazione. Come mi manca Sarajevo.   

martedì, 3 aprile 2012il mito di Europa

Due argomenti su tutti nel diario di questo inizio di settimana, l'incontro di maggioranza sulla scuola e il seminario promosso da Punto Europa in preparazione del viaggio di studio presso le istituzioni europee di un folto gruppo di giovani trentini e non solo. E due anche i fatti che irrompono sul panorama politico nazionale, l'inchiesta giudiziaria che scuote profondamente la Lega che arriva fino al suo padre padrone e l'accordo che sembra essere stato raggiunto nella notte sulle misure governative sul lavoro e l'articolo 18.

Parto dalla scuola. Nel mattino di lunedì si riuniscono i consiglieri della maggioranza provinciale per affrontare il tema della qualità dell'insegnamento nella scuola trentina e nella fattispecie delle graduatorie per l'ingresso degli insegnanti, preludio per affrontare anche la spinosa questione dei sistemi di valutazione della qualità dell'insegnamento.

La riunione s'impone perché da una settimana i media locali hanno fatto da grancassa attorno all'ipotesi fantasiosa di lasciare ai dirigenti scolastici mano libera nelle assunzioni. Di questo argomento ho parlato in maniera diffusa in un commento che potete trovare nella home page di questo blog, indicandolo come l'ennesimo capitolo ascrivibile al pregiudizio sulla scuola dell'autonomia.

E infatti la riunione serve per mettere a tacere (almeno per il momento) chi rincorre i fantasmi. L'assessora Dalmaso presenta alcune ipotesi di lavoro che corrispondono alla necessità di por mano al tema delle graduatorie e dei sistemi valutativi al fine di migliorare la qualità della scuola trentina. E dell'ipotesi di assunzione discrezionale dei dirigenti non c'è traccia. Che in Trentino ogni volta che si pone il tema dell'autonomia scolastica ci siano componenti sindacali che si mettono a strillare "al lupo, al lupo" e che ci siano componenti politiche anche della nostra maggioranza che gli fanno eco, ci parla insieme di un diffuso conservatorismo corporativo e di una cultura dell'autonomia ancora fragile.

Cultura dell'autonomia che rappresenta l'altra faccia di un progetto politico che deve necessariamente guardare all'Europa. Non a caso l'orizzonte di chi è diffidente verso l'autonomia si attarda su una dimensione nazionale ormai fuori dal tempo, che corrisponde solo all'autoreferenzialità del sistema politico e ad un pensiero ancorato al Novecento. Di questo parlo alla platea di giovani che affollano il Caffè Bookique, al parco delle Predare.

E qui una piccola parentesi. Anche questo spazio verde nel cuore del quartiere di San Martino è l'esito di una lotta popolare di cui la città non ha coscienza. Frutto di una mobilitazione e di una occupazione che ne impedì la cementificazione, esattamente come il parco San Marco, il parco Santa Chiara, il parco di Maso Ginocchio, l'area verde dell'ex camping di Cristo Re, oppure l'ex albergo Astoria (ora Ostello della gioventù), l'ex Albergo San Marco... quando cioè queste forme di lotta riuscivano a trovare una mediazione politica. Ne parlo con Federico Zappini e mi dice che non sarebbe male che questo pezzo di storia cittadina potesse essere raccontata. Il tema dell'elaborazione della storia recente (quella di cui la nostra generazione è stata protagonista) continua ad emergere. Chiusa la parentesi.

Ritorniamo all'Europa. Che una cinquantina di giovani siano coinvolti in un percorso di formazione che oggi prevede una mia relazione sulle identità plurali di un'Europa intrecciata al suo mare, accanto a quella di Giuseppe Zorzi sul pensiero europeo di Alcide Degasperi, mi pare di per sé un segno di speranza. I ragazzi non si perdono un frammento di quel che viene detto nell'arco di due ore e mezza di conversazione, incuriositi da una storia dell'Europa e del Mediterraneo che a scuola nessuno gli ha raccontato e che prova a guardare oltre le fratture fra oriente e occidente, ma anche dal valorizzare una straordinaria esperienza di vita dedicata alla politica, in questo caso al valore dell'intuizione nella politica che la figura e il pensiero di Degasperi ci consegnano.

Con Beppe Zorzi c'è oggi una comunanza politica, eppure le nostre storie hanno radici molto diverse fra loro. Sorridiamo di questo ma insieme ci rendiamo conto di quanto - nella mancata elaborazione collettiva - le narrazioni del Novecento siano ancora divise, tanto nell'analisi delle sue tragedie come delle sue pagine più nobili. E di come proprio questa mancanza oggi pesi sul progetto politico europeo. I ragazzi presenti accolgono le nostre relazioni con un forte applauso e nelle loro domande emerge la fatica di una generazione di appropriarsi di un passato prossimo di cui nessuno ha mai parlato loro.

Le cronache della politica parlano d'altro, invece. Parlano della questione morale che devasta la politica nazionale ed in queste ore in primis la Lega, in un intreccio fra nepotismo del capo, affari e politica che il Carroccio prova ad esorcizzare parlando di complotto ma che non lascia margini di dubbio tanto che qualcuno come Maroni prova ad uscirne scaricando gli esponenti più compromessi a cominciare proprio dal capo sino a ieri intoccabile. Miserie sulle quali non si costruisce nulla.

Le cronache parlano anche dell'accordo fra i partiti che sostengono Monti attorno alle questioni del lavoro e dell'articolo 18 della Statuto dei lavoratori. Che l'articolo 18 abbia soprattutto un valore politico è chiaro come il sole. Ma la sua difesa non può eludere una questione più di fondo, ovvero di un mercato del lavoro che non riconosce più alcun confine nazionale. Che andrebbe affrontato quindi a partire proprio da uno sguardo europeo che purtroppo oggi non c'è, nella politica come nel sindacato. Perché del contesto sociale e politico che ha prodotto la Legge 300 (nella primavera del 1970) oggi non c'è traccia. Perché siamo tutti ormai "idraulici polacchi" e dunque non esiste che si affronti il tema del lavoro senza una visione che prenda atto del fatto che per lo stesso lavoro in Europa oggi c'è chi prende 200 euro e chi 3000. Perché l'Europa e i territori sono la cifra vera, non mi stanco di dirlo, di ogni problema.

I giovani che ho incontrato oggi di questa cifra ne sono consapevoli.