"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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martedì, 31 agosto 2010pane

Mattinata dedicata al Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani. La grande parte della nostra comunità non sa nemmeno che fra le sue istituzioni ce n'è una che si chiama così, voluta nell'ormai lontano 1991 da un Consiglio Provinciale che con legge l'ha istituita. Ma le leggi non valgono un fico secco se non diventano cultura diffusa ed agita. Nel 2011 saranno vent'anni, interrogarsi è d'obbligo. Non so dire se si riuscirà a far uscire la pace dalla banalizzazione "buonista" in cui è finita, ma ci proveremo. Almeno ci stiamo provando.

Per far questo, una delle strade è quella di far incontrare la pace nei luoghi più impensati, fuori dai rituali della retorica ma anche del pacifismo. So bene che, in questo intento, incontreremo resistenze, conservatorismi e ci troveremo a provare le incursioni più spericolate. Ma è esattamente quello per cui un anno e qualche mese fa ho proposto la mia candidatura alla presidenza del Forum. Rompere lo schema della riserva, far osare la pace nei territori della normalità, nella consapevolezza - come c'insegna Hillman - che tale normalità è la guerra.

Per questo oggi vediamo di buon ora il direttore dell'Aspan, l'associazione dei panificatori del Trentino. Il pane è simbolo di tante cose, in ogni tradizione, sotto ogni latitudine. Fra i saperi delle terre bagnate dal Mediterraneo, il pane è una storia che accomuna, che racconta, che custodisce. Vorremmo che il 15 e il 16 ottobre prossimi, quando con Predrag Matvejevic presenteremo il suo ultimo libro "Pane nostro", nelle piazze come nelle botteghe questo messaggio entrasse nei cuori e nelle menti di ogni persona. Perché ciascuno di noi è come il pane, frutto dell'incontro di tante storie e vicende.

Incursioni non facili, s'intende. Anche il pane è oggetto di banalizzazione e per questo talvolta diventa immangiabile. Ma mi piace l'idea di non lasciare nulla di intentato... e poi amare e fare bene il proprio lavoro è condizione per migliorare la nostra stessa comunità.

Raccogliamo così la sfida che nel corso degli anni è stata del "Gioco degli specchi", esperienza cresciuta nel tempo proprio a partire dalla necessità di interrogarsi su quel che siamo, di ri-specchiarsi nelle storie e nelle identità degli altri. O della "Mimosa", donne di Gardolo che dell'arte del pane hanno fatto lo strumento per ri-conoscersi.

Ne parliamo in fine mattinata con Maria Rosa Mura che del "Gioco degli specchi" è stata per tanti anni l'anima. In realtà, attraversiamo insieme un po' di tutto il programma di "Cittadinanza euromediterranea", ed è come dare la stura ad una cascata di idee, difficili da contenere in un pur ampio contenitore grande un anno e passa.

Gli appuntamenti (e gli argomenti) della giornata s'intrecciano. Dal software libero su cui studiamo un intervento legislativo al nuovo teatro di Pergine, rispetto al quale le perplessità prevalgono di gran lunga sulle opportunità che una tale realizzazione comporterebbe. Temi che riprenderemo nei prossimi giorni. Ma mi fermo qui, preferendo pensare che il diario di quest'ultimo giorno di agosto sia dedicato proprio al "pane nostro".
lunedì, 30 agosto 2010Montagne del Pamir

Avevo messo in conto questi giorni per un breve viaggio in India, nelle città dove i monaci tibetani vivono il loro esilio. La tragedia che ha sconvolto molti paesi asiatici, il Pakistan, molte regioni indiane e cinesi, ci ha convinti a rinunciare, almeno per il momento, a questa visita. Ma l'attenzione verso l'emergenza che sconvolge queste regioni non può venir meno.

Come ha denunciato nei giorni scorsi Isabella Bossi Fedrigotti dalle colonne del Corriere della Sera, la macchina degli aiuti è in panne. Le organizzazioni umanitarie appaiono impotenti di fronte alla vastità del dramma che coinvolge nel solo Pakistan almeno venti milioni di persone e le agenzie dell'Onu denunciano che quanto finora messo in campo dalla comunità internazionale corrisponde al 25% di quanto sarebbe necessario. Ma quel che lascia più sconcertati è che in questa occasione anche le immagini più toccanti non bucano il televisore, non fanno breccia. Forse perché - è doloroso ammetterlo - anche l'industria del buon cuore richiede le vittime "giuste".

Il vicino Afghanistan è in guerra praticamente da trent'anni (prima l'Urss, poi la guerra civile, poi l'alleanza occidentale contro il terrorismo a guida statunitense) e la cosa lascia i più nell'indifferenza. Salvo poi aumentare continuamente la presenza militare della Nato e dunque anche dell'Italia e senza voler ammettere che da quel meraviglioso e complicato paese tutti sono usciti con le ossa rotte. Del resto, l'aver agitato lo scontro di civiltà per tutto questo tempo, qualche effetto deve per forza averlo prodotto.

In genere sono refrattario all'emergenza, ma di fronte al vuoto e all'indifferenza sento che occorre fare qualcosa. Sono giorni che ci penso, mi faccio inviare da Unimondo l'elenco delle Ong che operano in quelle regioni per capire se vi sono canali diretti fra il Trentino e le regioni colpite, ma ne esce ben poco salvo qualche produttore del commercio equo e solidale in India del quale si sono peraltro perse le tracce.

Ho provato a chiamare l'assessore Beltrami per concordare qualche iniziativa ma il telefono suona a vuoto. Domani ci troviamo con Fabio Pipinato e proveremo a mettere insieme qualcosa di efficace, attivando le risorse della comunità trentina e cercando fra le realtà di intervento umanitario presenti in Pakistan quella che offre maggiori garanzie di serietà.

Le immagini che arrivano dalle agenzie mostrano acqua ovunque, eppure gli sfollati chiedono una sola cosa: acqua, acqua pulita. Perché la vera emergenza deve ancora arrivare e sarà quella legata proprio alle patologie derivanti dall'ingestione di acqua infetta. E a quel punto le telecamere saranno spente, pronte per qualche altra emergenza o per dar cronaca di quel che la gente vuol vedere.

Nel pomeriggio ho convocato la riunione del gruppo di lavoro del Forum sulla cittadinanza euromediterranea. L'estate non è ancora finita e ci troviamo in pochi. Ma il programma comincia ad assumere il profilo che avevo immaginato, soprattutto nel riuscire a corrispondere a temi delicati iniziative in grado di comunicare con la gente comune. Proprio domattina abbiamo appuntamento con l'associazione dei panificatori che vorremmo coinvolgere nella manifestazione sul "pane nostro", quel cibo quotidiano che ci viene dall'incontro lungo le rotte mediterranee. Anche così si costruisce ascolto, riconoscimento, dialogo. E provare a superare distanze, diffidenze, paure.

Abbiamo a che fare con fratture profonde, perché in un certo passaggio della storia "Europa" volse in suo sguardo altrove, ebrei e musulmani vennero messi alla porta, sincretismi ed eresie al rogo, cambiarono le vie delle navigazioni e con esse il nutrirsi delle culture.

Racconteremo storie poco conosciute, nella speranza di riannodare qualche filo, di aprire finestre, di riscoprire il piacere della conoscenza.
giovedì, 26 agosto 2010alessandrine-aleksandrinke

Ieri e oggi abbiamo lavorato sul programma "Cittadinanza Euromediterranea", percorso annuale che impegnerà il Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani lungo quattro itinerari relativi alla storia, ai saperi, ai pensieri e alle geografie che hanno segnato e segnano il confronto fra l'Europa e il suo mare. Quando parliamo di identità, dobbiamo essere consapevoli che - nel loro divenire - sono passate lungo queste coordinate, attraverso le navigazioni, i conflitti, gli scambi commerciali, le arti e le scienze. Se oggi non vogliamo venir soffocati dalla paura, allora occorre avere consapevolezza di questi passaggi ed è quel che proveremo a fare dal prossimo mese di settembre fino a tutto l'anno a venire.

In questi giorni abbiamo fatto il punto sul programma, convocato il gruppo di lavoro e il Consiglio del Forum, definito le prime scadenze, aggiornato le proposte che cominciano a delineare la trama dell'iniziativa. La cosa, devo dire, è interessante anche solo nella sua programmazione, perché è un continuo scoprire di vicende e storie prima sconosciute, altrettante suggestioni che ci descrivono il carattere meticcio di quel che siamo.

Penso alla vicenda delle "Aleksandrinke", vale a dire la storia di quelle donne emigranti che dal Goriziano, sloveno e italiano, dal Friuli, dal Carso e dall'Istria, partivano verso Alessandria d'Egitto alla ricerca di quel lavoro che abbondava nella ricca città levantina; fenomeno che, nato all'indomani dell'apertura del Canale di Suez, si concluse solo con il secondo conflitto mondiale. Rovesciamenti della storia, in un percorso a ritroso delle odierne badanti. Oppure al quartiere "Turchia" di Moena. Secondo la leggenda, nel 1683, durante il secondo assedio di Vienna, un soldato appartenente alle armate ottomane, dopo essere catturato e imprigionato, riuscì a sfuggire dalle prigioni imperiali. Dopo un lungo girovagare nelle Dolomiti, giunse finalmente a Moena quasi allo stremo delle forze. La popolazione locale, vedendo il povero soldato esausto, si diede subito da fare e si impegnò per curarlo. Il turco, stupito dalla generosità e dal buon cuore degli abitanti di quel paesino sperduto tra i monti, decise alla fine di fermarsi lì, trascorrendo il resto della sua vita nel rione che al giorno d'oggi viene appunto definito "Turchia". E le tracce di una cultura mediterranea nel cuore delle Dolomiti si trovano ancor oggi sui muri delle case o nel carnevale del centro fassano.

Piccoli "dettagli della storia", che affiancheremo ad altri, più vistosi ma che comunque non arrivano sui libri di storia, come lo "status quo" del Santo Sepolcro, o gli esiti incredibili del censimento del 1910 nella città di Sarajevo o, ancora, quella carta del 1463 che va sotto il nome di "Editto di Blagaj".

L'idea di fondo è proprio questa: far emergere dalle realtà sepolte un senso diverso della propria identità e della propria cittadinanza.

E', per altri versi, quel che facciamo anche il giorno successivo nell'incontro del gruppo di lavoro di "Viaggiare i Balcani" con Slow Food internazionale per costruire una proposta di "Viaggio lungo i sapori e le atmosfere danubiane". Geografie sconosciute e saperi antichi di un'Europa che vorremmo entrasse nei nostri cuori e nel nostro orizzonte di pensiero. Un viaggio del turismo responsabile che prevediamo nel giugno 2011 ma anche un'iniziativa politica, che parla dell'Europa che non c'è, di agricoltura non omologata dagli Ogm, di acqua. Un viaggio di otto giorni sono un'interessantissima vacanza e insieme il modo per dar voce alle esperienze di lavoro e di valorizzazione culturale su cui sono impegnate tanto le "Comunità del cibo" di Slow Food quanto le esperienze di cooperazione di comunità che il trentino ha avviato in questi anni. Stiamo verificandone la fattibilità, ma avendo viaggiato sul Danubio nel 2003 in occasione della manifestazione "Danubio, l'Europa s'incontra", vi assicuro, si tratta un'esperienza davvero straordinaria. Ci dividiamo i compiti e ci riconvochiamo da qui a un mese.

Risposte possibili all'imbarbarimento del tempo.
martedì, 24 agosto 201028 giugno 1914, l\'ettentato di Sarajevo

Incontri e riunioni cominciano a tamburo battente. Al mattino il primo appuntamento è all'assessorato all'Istruzione. Ci vediamo per l'elaborazione della nuova convenzione sul Centro Millevoci, presenti oltre alla PAT e al Forum, i rappresentanti del Consorzio trentino dei Comuni, del Comune di Trento, del Centro di formazione alla solidarietà internazionale e dell'Iprase. Chiariti gli obiettivi di fondo con la Provincia mi  pare che anche la definizione della convenzione risulti più fluida. L'obiettivo è di passare dall'integrazione alla cittadinanza, ponendo quest'ultima quale orizzonte della nuova fase di "Millevoci", in tutte le sue implicazioni sul piano della conoscenza, della formazione, del rapporto con le comunità locali e con tutti gli attori del mondo scolastico. E, a partire da questo, definire un ruolo attivo di tutti i partner firmatari. Entro l'anno dovremmo essere in grado di siglare il nuovo accordo.

A mezzogiorno mi vedo con Luisa Chiodi, direttrice di Osservatorio Balcani e Caucaso. Il prossimo 27 novembre festeggeremo i dieci anni di OBC. In quest'arco di tempo se n'è fatta di strada. Penso per un attimo a quell'incontro con Tonino Perna nel quartiere della Giudecca a Venezia. Erano i primi giorni di giugno del 1999. C'era ancora l'eco dei bombardamenti della Nato su quel che rimaneva della vecchia Jugoslavia e ci riunimmo nei "Cantieri di pace" senza trovare però l'approccio che ritenevamo necessario. Perché ancora una volta si stava riproducendo un approccio emergenziale verso i Balcani. Decidemmo in quel frangente di imboccare un'altra strada e il fatto che oggi OBC sia il più importante centro di informazione e ricerca sulla regione balcanica (ed ora anche caucasica) esistente in Europa, mi dà in un certo modo la misura del senso più nobile dell'agire umano.

OBC rappresenta una delle maggiori eccellenze del nostro territorio, anche se spesso chi non si occupa di quel contesto nemmeno sa della sua esistenza. Non è ovviamente così per le migliaia di persone (oltre centocinquantamila) che ogni giorno hanno a che fare con i materiali del sito web dell'Osservatorio, per i suoi lettori, per chi beneficia dei suoi servizi tanto nel mondo dell'informazione che in quello universitario. Oppure nella diplomazia internazionale. Non vi dico che soddisfazione provai in occasione di un incontro con l'ambasciatore italiano a Sarajevo, sentire da quest'ultimo che il suo primo impegno giornaliero era quello di entrare nel sito di OBC. O ascoltare dalla voce di un giornalista come Ennio Remondino (in occasione di una sua recente visita a Trento) il fatto di essersi sentito accompagnare in questi anni tanto così complessi da una fonte inesauribile di informazioni qual è stata Osservatorio.

Ma è in grado la politica di valutare e di far tesoro degli sguardi e delle interdipendenze che queste eccellenze sanno realizzare? Quando invece ci si affanna a rincorrere le emergenze, nell'incapacità di elaborare i conflitti e di imparare dalle vicende della storia... Perché mai dovremmo occuparci di Balcani quando non sappiamo nemmeno vedere che il Novecento è iniziato e si è concluso a Sarajevo... Perché mai avere attenzione a questa regione quando non siamo in grado di cogliere che l'Europa si fa o si disfa nei Balcani... Come potremmo valutare a pieno l'interesse di quel che accade in questa parte di Europa se non sappiamo cogliere che lo scontro di civiltà che si vuole fra oriente e occidente passa proprio lungo questa faglia nel cuore del vecchio continente... Come non vedere che la post modernità ha avuto qui, nelle guerre balcaniche degli anni '90, il suo luogo di battesimo...

Di questo e d'altro parlo con Luisa, delle iniziative del decennale, del film sull'Armenia e sulla figura di Osip Mandel'stam, poeta ed animo inquieto di un novecento europeo di cui non c'è traccia nella memoria collettiva, che si è proposto a Moni Ovadia... e di tante altre cose ancora.

Ritorno in ufficio, al gruppo consiliare, dove mi metto ad analizzare la proposta della giunta sull'acqua e a scrivere il pezzo che nei prossimi giorni uscirà sul Corriere del Trentino. Una proposta che ritengo al di sotto della necessità perché la sfida sull'acqua non è diversa dalla partita energetica o di quella sulla scuola, temi sui quali l'autonomia ci ha permesso di avere un profilo in cui la nostra diversità è emersa anche se talvolta senza essere compresa fino in fondo. Leggendo il testo ho l'impressione che in realtà non se ne abbia piena consapevolezza, con la conseguenza di delegare ai tecnici di trovare una soluzione in grado di muoversi nelle pieghe della nuova legislazione nazionale, dimenticando che un milione e mezzo di cittadini hanno giustamente chiesto di abrogarla. Ai primi di settembre, si riunirà la maggioranza consiliare per discuterne. Sarà l'occasione per cercare un profilo diverso. Ma intanto credo sia giusto parlarne apertamente.
lunedì, 23 agosto 2010don qujote

Le vacanze sono sostanzialmente finite. Rimetto mano all'agenda degli appuntamenti e provo a dare un ordine di priorità alle cose da fare. Due di queste hanno una loro urgenza.

La prima è di scrivere un commento relativo al reportage che il Corriere della Sera ha dedicato al Trentino e alla sua autonomia fatta di rimozione dei simboli risorgimentali e di privilegi. Verificherò nelle ore successive l'assonanza delle mie considerazioni (che trovate in prima pagina di questo sito) con la risposta di Lorenzo Dellai e di Giuseppe Ferrandi che del Museo Storico del Trentino (tirato pesantemente in ballo nell'articolo) è il direttore. E, come immaginavo, condiviso trasversalmente dal partito dei rancorosi.

La seconda urgenza riguarda il mio rapporto semestrale agli amici. L'ho scritto e poi scritto di nuovo, in considerazione alle cose accadute durante l'estate. Questa volta sarà qualcosa di diverso rispetto ai due precedenti, piuttosto che un elenco ragionato di attività svolte ho intenzione di proporre qualche considerazione politica e un'annotazione sul mio modo di interpretare il ruolo affidatomi dagli elettori. Ma richiede ancora qualche ritocco.

In realtà oggi lavoro sulla prima e davvero poco sulla seconda, che comunque preferisco inviare all'inizio di settembre, quando tutti sono meno distratti dal clima vacanziero.

Scorro le cose annotate e mi viene il magone. I disegni di legge sui quali sto lavorando (sulla zootecnia, relativamente al rapporto fra numero di capi allevati e terreno a disposizione delle aziende; sull'educazione permanente; sull'acqua pubblica; sulla cooperazione internazionale); il piano di lavoro sul futuro sostenibile della Valsugana; le proposte da mettere in cantiere per la Finanziaria 2011; l'attività del Forum ed in particolare l'avvio del programma sulla "cittadinanza euromediterranea"; le cose più strettamente politiche che investono il centrosinistra, il PD e le prossime scadenze elettorali e il rapporto fra tutto questo e l'iniziativa "Politica è responsabilità" quale luogo di fluidificazione di idee e pensieri; il tema del futuro della regione. Aggiungete un po' di dettagli e il quadro si compone.

In questi giorni i quotidiani locali affrontano il tema della privatizzazione dell'acqua a partire dalla scelta della Giunta provinciale di muoversi in prima persona, proponendo un proprio Disegno di Legge che prevede la facoltà dei Comuni di optare fra gestione in proprio del servizio idrico e quanto invece previsto dal provvedimento sulla privatizzazione assunto il 20 novembre scorso dal Parlamento italiano. Forse una condivisione del testo nella maggioranza non sarebbe stata male, personalmente considero questa proposta una base di lavoro e credo che ci sarà lo spazio per metterci mano e migliorarla, in Commissione e in aula. Ne scriverò nei prossimi giorni. Certo è che l'idea di avvalersi delle prerogative dell'autonomia per mantenere pubblica la gestione dell'acqua e mettersi al riparo dalle logiche privatistiche va percorsa fino in fondo.

Senza dimenticare che, rispetto al provvedimento nazionale, la via maestra sarà il referendum abrogativo per il quale sono state depositate un milione e mezzo di firme.

 

venerdì, 20 agosto 2010Campolongo

Mi scrive Gianni Rigotti, amico noneso di tante battaglie che da molti anni vive a Secchiano Marecchia, in provincia di Pesaro: mi chiede che cosa ho pensato di fronte alle frane che hanno colpito l'altipiano di Piné. Un tema che in effetti mi ha colpito e quindi ho deciso di affrontare nel blog di oggi, nel suo aspetto più vistoso, quello relativo alla fragilità del nostro territorio, ma non solo.

In effetti vedere le immagini di Campolongo dopo l'alluvione della notte di Ferragosto è impressionante e pensare che un innocuo corso d'acqua come il torrente Molinara possa diventare una marea di fango ci dovrebbe far riflettere su tante cose: su come sta cambiando il clima e sull'intensità delle precipitazioni, sulla delicatezza dell'ambiente montano e sugli effetti dell'eccessiva antropizzazione, sulla superficialità con cui si individuano le aree di espansione urbanistica e sulle seconde case, e così via.

In questi giorni di frequentazione della Valle dei Mocheni, ho visto anche lì gli effetti di quelle intense giornate di pioggia che hanno spazzato via in poche ore il laghetto di Canezza, ritornato com'era un tempo, ovvero un tratto del torrente Fersina, e le numerose frane che hanno investito la valle che pure è una delle meno antropizzate del Trentino.

Immagino che a tutto questo si riferisse Gianni. E alla necessità di riflettere sulla nostra incapacità di riprendere ad ascoltare la natura.

Ma c'è un'altra cosa che mi ha fatto pensare e di cui volevo parlare: la reazione delle persone colpite dall'alluvione. La Provincia deve pagare i danni. Ci sono i soldi per gli orsi? E allora devono esserci anche per le case danneggiate o compromesse nell'alluvione.

Ora, chiedere aiuto alla comunità trentina e alle sue istituzioni credo sia naturale e comprensibile. L'intervento della Protezione civile è stato puntuale ed efficiente, tanto da avvenire in tempo reale, mettendo in salvo tutti gli abitanti della zona ed evitando conseguenze ancora più gravi. Inoltre la legislazione provinciale già prevede interventi finanziari nei casi di calamità naturali, diversificati a seconda se i danni riguardano la prima casa, le attività economiche o la seconda casa. Ed è quello che i funzionari della PAT accorsi sul posto hanno da subito garantito alle persone evacuate.

Apriti cielo. E' dovuto intervenire in prima persona il presidente Dellai promettendo di attivare misure straordinarie. E ancora non basta, perché la richiesta è quella della copertura del 100% dei danni.

Tutto questo avviene in un paese dove (a L'Aquila e in Abruzzo) la gente vive da un anno e passa nelle baracche. In altre regioni le frane sono all'ordine del giorno e il dissesto idrogeologico ha investito interi centri abitati e nessuno ha ricevuto alcun indennizzo se non qualche alloggio di fortuna. Le immagini che in questi stessi giorni ci arrivano dal Pakistan descrivono un paese immenso sott'acqua e la gente chiede un po' di acqua pulita per non morire di colera. Gli incendi in Russia hanno investito un'area geografica grande dieci volte l'Italia, spazzando via case, raccolti, vite.

Posso dirlo? Non sono d'accordo. Anche qui, capiamoci. Se c'è la possibilità di intervenire per alleviare la sofferenza delle persone e coprire i danni o una parte cospicua degli stessi, s'intervenga, sapendo che questi sono denari di tutti e di ciascuno.

Ma è il tono che risulta insopportabile. Come se tutto fosse dovuto. Si tirano in ballo gli orsi, ma - diciamoci la verità - avrebbero potuto essere gli zingari o gli immigrati. E' che con gli orsi non si corre nemmeno il rischio di passare per razzisti.

Mi sembra emergere una crepa preoccupante anche nella nostra comunità: il venir meno dell'etica della responsabilità. Quel "farsi carico" che ha fatto diverso il Trentino nella sua storia. E questo, caro Gianni, mi preoccupa più ancora degli effetti di un clima impazzito.

 

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martedì, 17 agosto 2010bancarella

Ancora qualche giorno di tranquillità prima della ripresa. Il diario allora si concentra su una lettura: James Hillman, Un terribile amore per la guerra (Adelphi). E' un saggio su un tema che fa tremare i polsi, la normalità della guerra. Scrive Hillman: «Non esiste una soluzione pratica alla guerra perché la guerra non è un problema risolvibile con la mente pratica, la quale è più attrezzata per la sua conduzione che per la sua elusione o conclusione. La guerra appartiene alla nostra anima come verità archetipica del cosmo. E' un'opera umana e un orrore inumano, e un amore che nessun altro amore è riuscito a vincere. Possiamo aprire gli occhi su questa terribile verità e, prendendone coscienza, dedicare tutta la nostra appassionata intensità a minare la messa in atto della guerra, forti del coraggio che la cultura possiede, anche nei secoli bui, di continuare a cantare mentre resiste alla guerra».

Quando ho assunto l'impegno della presidenza del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani ho posto esattamente questo stesso tema, far uscire la pace dalla retorica di un mondo pensato in armonia e privo di conflitti (la pace dell'ingenuità, dell'ignoranza travestita da innocenza la definisce Hillman), fare i conti con gli aspetti indicibili della guerra, che non hanno a che vedere non solo con gli interessi materiali che motivano o si annidano nelle guerre, ma con la natura umana. Parlavo della guerra come condizione di totale libertà (liberato dalla sua solitudine, dalla sua particolarità, e dai suoi interessi, capace di dare tutto, perfino al sua vita scrive Estanislao Zuleta), un cerchio magico nel quale l'uomo perde ogni forma di inibizione e s'immagina onnipotente, capace delle peggiori cose e al tempo stesso di potersi approvare senza remore e senza dubbi di fronte al perverso nemico. Quando ne esci, finiscono ben presto gli inni patriottici ed inizia la condizione del reduce di guerra: la violenza in famiglia, i suicidi, i silenzi, la disperazione.

L'impegno per la pace diventa una forma consapevole di riduzione del danno. Riconoscere il conflitto, prenderlo per mano, farsi attraversare. E' il tema decisivo dell'elaborazione del conflitto.

Ne parlo con Michela, Marzia e Pierluigi che mi raggiungono a Cadine. Hanno dato vita ad un laboratorio teatrale che si chiama Multiversoteatro e sono venuti a trovarmi per raccogliere le mie impressioni su Mirijana, rappresentazione di cui ho parlato in queste pagine, che affronta il tema dello stupro nella guerra.

Non so nulla di teatro. Provo a dire della bravura di Michela a reggere un ruolo tanto doloroso, dello spazio scelto che ti costringe ad essere nel palcoscenico (dentro il conflitto), della volgarità esibita e rivendicata del branco come del soldato, del pugno nello stomaco che ne viene e della necessità di una forma di accompagnamento per lo spettatore che del «meccanismo più intimo della guerra e il più efficace, dato che è quello che genera la felicità della guerra» non ha mai nemmeno sentito parlare.

La riduzione del danno consiste nel parlarne. Per questo il loro lavoro è straordinariamente importante. Quel che io posso descrivere sono i luoghi, la normalità dei carnefici, la durezza incontrata e quella vista negli occhi degli imputati nel Tribunale de L'Aja. Ne esce qualche idea... ed è quello che forse volevamo, come quella di rappresentare Mirijana nei luoghi che hanno a che vedere con la quotidianità della violenza.

Una conversazione intensa eppure serena. Effetto forse della polenta e del buon vino. Anche così ci si può riposare.
giovedì, 12 agosto 2010Blagaj

Avevo programmato un salto a Trieste, per incontrare Paolo Rumiz e vedere insieme le date per la manifestazione di apertura del percorso "Cittadinanza Euromediterranea" a cui stiamo lavorando come Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani. Ma mi propone di spostare il tutto a dopo ferragosto e allora ne approfitto per sentire al telefono un po' di persone che vorremmo coinvolgere nell'iniziativa.

Sento Ennio Remondino, giornalista Rai e amico di tanti incontri balcanici. Gli racconto un po' cosa vorremmo fare, gli chiedo una specifica collaborazione per l'incontro delle città simbolo del Mediterraneo che stiamo programmando per il 2011. Sarà comunque presente come testimonial alla festa per il decennale di Osservatorio Balcani Caucaso in programma per il 27 novembre prossimo. E rimaniamo d'accordo di vederci nei primi giorni di settembre per le città mediterranee.

Chiamo Predrag Matvejevic. E' nei pressi di Dubrovnik per qualche giorno di vacanza dopo le amare vicissitudini e la condanna inflittagli dal tribunale di Zagabria per aver definito "signori della guerra" e "talebani" i nazionalisti croati. Ma la sua voce è forte e chiara, lo avverto più determinato che mai, quasi a sfidare il paese in cui vive, la Croazia, a dare esecuzione alla sentenza emessa contro di lui. In Italia è uscito in questi giorni il suo nuovo libro, "Pane nostro" (Garzanti), un libro al quale Predrag ha lavorato per anni e che finalmente vede la luce. Lo vogliamo presentare a Trento ad ottobre nella cornice del Forum e di una manifestazione sul pane del Mediterraneo. Per far comprendere a tutti che le nostre quotidianità sono il frutto dell'incontro. E così ci accordiamo. 

Parlo con Roberta Biagiarelli, attrice ed amica che vorremmo coinvolgere per le atmosfere europee che sa creare. E poi con Melita Richter, lei che è come il Danubio, una donna dietro le nazioni. Che racconterà dei modi di vivere delle persone, molto spesso trasversali ai luoghi e alle appartenenze etniche o religiose. Ci vediamo con il gruppo di lavoro di "Viaggiare i Balcani", che con Slow Food organizzerà nel giugno dell'anno che viene un viaggio sul Danubio attraverso i sapori delle comunità del cibo (e già si stanno raccogliendo le prenotazioni). Nel frattempo Erica Mondini (che del Forum è vicepresidente) incontra Adel Jabbar, uomo del Mediterraneo e del vicino Oriente, e anche dal confronto con lui escono nuove suggestioni per il nostro percorso.

Far entrare l'Europa nell'immaginario collettivo non è altro dal mio impegno politico. Oggi l'Europa (e le connessioni territoriali) è il progetto politico al quale guardare; la dimensione sovranazionale e quelle regionali sono le polarità possibili di un diverso sguardo (glocale, appunto) sul nostro tempo. E di cui la politica, nel suo torpore e nel suo attardarsi sulle dinamiche nazionali, non sa dare testimonianza.

Mi metto a scrivere l'introduzione per il sito web "Politica è responsabilità" dei due manifesti presentati a fine luglio a Mogliano Veneto e in Trentino. Diversi eppure in dialogo, nel cercare di rappresentare un'altra narrazione nel nostro tempo. Se non vogliamo che l'esito della crisi che sta facendo deflagrare il centrodestra sia a tutto vantaggio della Lega, occorre che la politica sia capace di immaginare scenari nuovi. Che nei partiti e nella società civile si mettano in circolazione idee e progetti. Che nei territori si dia rappresentazione alle qualità... Che le appartenenze non ingessino i pensieri.

Sarei in vacanza ed un salto nei boschi della mia valle incantata non può mancare. E finalmente qualche bella sorpresa.

 

mercoledì, 11 agosto 2010cristo

E' uscito in questi giorni il libro di Stefano Fait e Mauro Fattor "Contro i miti etnici" (Raetia editore). Avviene con una tempestività sorprendente, tanto che la copertina è dedicata ad un cartello della toponomastica sudtirolese. A fronte di un tema, quello etnico, che attraversa il Sud Tirolo in tutta la sua storia novecentesca e in questi primi anni del nuovo secolo. Che non ha mai smesso, dunque, di essere attuale.

Quando gli autori mi hanno chiesto di scrivere la prefazione al loro lavoro ci ho pensato e ripensato, in primo luogo perché non sempre le tesi espresse dagli autori corrispondevano al mio sentire e, in secondo luogo, perché non sapevo se avrei avuto qualcosa di intelligente da dire.

Non nascondo che ho considerato questa richiesta come un gesto di stima. Ma anche una sfida verso la politica, qual è del resto il significato profondo di questo lavoro. Perché è come se gli autori avessero voluto prendere per il bavero la politica, provando a farla uscire dal proprio torpore. Così ho pensato che in fondo qualcosa da dire c'era, qualcosa che toccava corde che mi sono care, quelle del conflitto e della sua elaborazione in una regione dove il tempo sembra non passi e il denaro dell'autonomia coprire come la cenere un fuoco che qualcuno gioca a tener vivo. E per provare a fare qui quel che da tempo vado proponendo laddove i conflitti hanno assunto i segni della religione o dello scontro di civiltà. Perché in fondo il bandolo della questione sudtirolese è tutto qui: il disporsi a riconoscere il dolore degli altri.

Detto così sembra semplice, ma è quel che non si è fatto. Anche chiedere scusa potrebbe bastare. Scusa per aver colonizzato una terra che con l'Italia non c'entrava nulla, e scusa per le angherie che ne sono seguite, tanto quelle di chi ha continuato a considerare dei poveri cristi che venivano dalle aree più povere dell'Italia come dei nemici come quelle di chi ha cercato d'imporre con la forza (e non solo) l'italianizzazione del Sud Tirolo.

In assenza dell'elaborazione del conflitto, ognuno continua invece a vivere dentro il proprio incubo identitario. E la politica - alla ricerca del consenso piuttosto che di soluzioni che spostino in avanti le contraddizioni - non trova di meglio che cavalcare il rancore.

Il libro di Fait e Fattor che oggi è stato presentato a Bolzano (e sui quotidiani del Trentino) prova a rompere questo schema. Per questo è un sasso nel clima stagnante, dove si coltivano i miti piuttosto che metterli in discussione. Fra passato storico e presente politico, gli autori scelgono una terza strada, quella del "presente storico". Un approccio che potrebbe aiutare una comunità intera ad uscire dal cortocircuito in cui si è infilata, abbassando il conflitto e predisponendo le persone e le comunità a guardarsi riconoscendosi.

In fondo è il principio della nonviolenza.

 

lunedì, 9 agosto 2010Lago di Garda

Dopo qualche giorno di dedicato al riposo, agli amici, alla lettura e alle passeggiate nei boschi e ai funghi riprende il "diario di bordo". Non che questa settimana sia di vero e proprio lavoro, ma avendo scelto di starmene tranquillo in Trentino si approfitta del clima un po' rilassato per incontrare persone che non si vedono da un po', scambiarsi idee su quel che accade in questo paese sempre più alla deriva, leggere qualche documento rimasto fra i plichi delle cose da vedere, scrivere.

In particolare sto lavorando al mio terzo rapporto semestrale (la lettera agli amici) che a Ferragosto invierò alle persone che hanno sostenuto la mia candidatura alle elezioni provinciali del novembre 2008 (se qualcuno dei lettori vuole riceverlo, non ha che da segnalarmi il suo indirizzo di posta elettronica). Una sorta di bilancio che prova a dare senso al mio impegno istituzionale, cosa spero apprezzata anche perché se si dovesse valutare il mio lavoro dall'esposizione mediatica qualcuno potrebbe chiedermi che cosa ci sto a fare in Consiglio.

Non ho un positivo rapporto con i quotidiani locali, specie con una cronaca politica sempre alla ricerca della parola che fa sensazione o del pettegolezzo. Ed anche per questo mi sono dato strumenti diretti come questo sito, lo spazio aperto di "Politica è responsabilità" (http://www.politicaresponsabile.it/), l'attività del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani (e il suo sito http://www.forumpace.it/), oltre ovviamente al contatto diretto sul territorio. Che intendo peraltro intensificare nei prossimi mesi, non affidandolo unicamente all'organizzazione dei circoli del PD, talvolta ancora ingessati in piccole dinamiche di appartenenza che si fatica a superare, salvo poi sentirsi dire quel "dove eravate" che testimonia il sottile insinuarsi dell'antipolitica.

Ne parlavo proprio ieri in un angolo di natura davvero molto bello sopra Arco, in località Laghel, ospite di Francesca e Ruggero e insieme con altri amici della zona. Con l'ulivo e la vite, il cipresso e il leccio, è un pezzo di Mediterraneo che si affaccia in Trentino. Parole in libertà per riflettere su ciò che esprime la politica, per provare a costruire percorsi di cultura e di pensiero critico in un contesto di governo amico, che pure fa la differenza.

Per far crescere una cultura del territorio in un contesto, come quello del Basso Sarca, dove in questi anni l'azione dell'uomo ha avuto un impatto davvero pesante. Parliamo di mobilità, dei progetti di collegamento stradale fra il Lago di Loppio e la "Busa" e del fatto che ancora manca nella pianificazione territoriale un approccio che sappia riconsiderare la mobilità non come sinonimo di strade, gallerie, viadotti ma come possibilità di invertire la rotta della crescita continua di strade e automobili. Che vuol dire Metroland, il progetto di collegamento ferroviario delle valli trentine, ma prima ancora riforma istituzionale, ovvero decentramento delle funzioni strategiche sul territorio, passaggio di competenze, introduzione del telelavoro in particolare nella pubblica amministrazione, sostegno alle filiere corte.

Parliamo anche delle Comunità di Valle, che tutto questo dovrebbero aiutare e un'altra cosa ancora: contribuire alla formazione di una classe dirigente capace di uscire dall'ottica del "non nel mio giardino". In autunno si voterà per la loro parziale elezione diretta, un piccolo banco di prova per la coalizione provinciale ed anche per il PD del Trentino. Ma occorrono visioni e idee progettuali, quando invece sui territori tendono a prevalere - anche nel nostro campo politico - la rincorsa dei problemi e i personalismi.

Eppure, c'è sete di buona politica. Ogni volta che mi capita di proporre argomenti, che si parli di sostenibilità o di cultura del limite, di cooperazione o di valorizzazione dei territori, di Europa o di Mediterraneo, di conflitti non elaborati o di processi riconciliativi, trovo una voglia di sapere che la politica fatica a riconoscere. Anzi, quasi stupisce che la politica sia capace di narrazione, come raccontavo nel mio ultimo diario sull'incontro alla Mendola, passaggio in stato di abbandono, metafora di un confine che non c'è ma che in realtà è molto più spesso di quel che si possa immaginare.

Quale piacere, dunque, ricevere in serata dalle mani di uno degli autori la copia fresca di stampa del libro "Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso" di Stefano Fait e Mauro Fattor, che verrà presentato a Bolzano nei prossimi giorni. Come l'ho definito nella mia prefazione, un libro "sofferto e coraggioso". E di particolare attualità, se penso alla disputa in corso in Sud Tirolo sulla toponomastica dei sentieri di montagna. Questione simbolica, marginale si potrebbe dire. Il fatto è che il nostro tempo è segnato da spoglie esibite, miracoli che santificano i criminali, ampolle e miti salvifici. Ne riparleremo nei prossimi giorni.

  

mercoledì, 4 agosto 2010Golf Hotel 1952

Saranno vent'anni che non vado al Passo della Mendola. Un luogo di antico splendore, simbolo di un turismo che non c'è più. I grandi alberghi sono per lo più chiusi o diventati multiproprietà. Un po' di turismo ancora c'è, l'alta Val di Non è bella, ma è proprio la Mendola a darti la sensazione di un luogo fuori dal tempo.

Il vecchio Golf Hotel dove si tiene il seminario "Heimat - Europa" è una grande struttura (l'immagine in prima pagina è di una cartolina del 1952), terrazze e verande in legno, grandi corridoi e spazi per feste, un ascensore in ferro battuto fermo da anni, le scale per i piani superiori transennate. Insomma mi ricorda l'hotel Overlook, quello del film "Shining". E' di proprietà dell'Università Cattolica di Milano, ma ristrutturarlo immagino costi più ancora di ricostruirlo.

Così com'è può solo servire per farci qualche incontro non ufficiale e infatti il seminario si svolge in una grande sala a ridosso della veranda che dà verso la valle. Nell'aula un pubblico di giovani ventenni che vengono da due città tedesche e alcune città italiane, in un progetto europeo del Movimento per l'Unità (Focolarini).

Stanno lavorando da giorni, simulando la costruzione di un partito europeo. Non male come idea. Io sono lì su invito di Ilaria Pedrini, che coordina il progetto, come esponente politico locale e per le mie competenze sull'Europa e la sua parte di mezzo, i Balcani. A fine serata qualcuno dei partecipanti mi dirà che non immaginavano che un "politico" (quanto detesto questo termine...) potesse parlare loro di storia, di culture che si sono intrecciate, di nuove geografie.

Nella mia lezione, parto da una considerazione che poi è una semplice domanda: a che cosa pensiamo quando parliamo di Europa? A quella che c'è nell'immaginario collettivo, ovvero all'Europa occidentale, quella a 15 stati di qualche anno fa? A quella a 27 dell'Unione Europea? Ma quanti pensano ai paesi baltici quando si parla di Europa? Oppure a quella del Consiglio d'Europa che di Stati ne conta ben 47? Senza dimenticare l'esistenza di paesi indipendenti di fatto, o magari riconosciuti da altri paesi, che non sono parte nemmeno del Consiglio d'Europa (penso al Kosovo o alla Transnistria). Pensiamo all'Europa degli Stati o a quella delle Regioni alla quale si ispiravano i padri fondatori dell'europeismo, non a caso federalista? O, ancora, quanti cittadini europei conoscono l'origine di questa parola, la figura mitologica di Europa, figlia di Agenore, re di Tiro, che per la sua bellezza fece perdere la testa a Zeus che la rapì? Metafora straordinaria di un'Europa che nasce "fuori di sé"...

La traduzione dall'italiano al tedesco non è sempre facile, ma vedo ugualmente molta attenzione. Il mio racconto spazia lungo il corso della storia, degli intrecci che sono avvenuti nel Mediterraneo, del rapporto fra oriente e occidente, di come si sono tramandati i saperi, le conoscenze, la filosofia. Delle connessioni della storia, del califfato di al Andalus, del fatidico 1492 e della cacciata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna, delle radici plurali della cultura europea e del suo islam endogeno, delle speranze riposte nelle "magnifiche sorti e progressive" (questo tradurlo in tedesco era piuttosto complicato) e del loro infrangersi nell'"arbeit mach frei" di campi di sterminio, dei visionari come Rimbaud che pure misero in guardia dal "secolo degli assassini", del Novecento che nasce e muore a Sarajevo.

Le domande sono moltissime e decidiamo di proseguire con chi vuole nel dopocena. Così abbiamo modo di entrare anche nel merito di che cosa vorrebbe dire fare un partito europeo. Un esercizio che riguarda in primo luogo l'approccio ai problemi, che ci riporta alla necessità di una visione e di un pensiero europeo. Che non ci sono, almeno sul piano della politica italiana.

Spaziamo in ogni direzione fino a quasi le 11 di sera. Ragazzi curiosi, aperti... E' bello predisporsi a passare la mano.

 

martedì, 3 agosto 2010remington

E' ancora notte quando aggiorno il sito da Peja/Pec. Per una generazione come la mia, che ha iniziato a guardare alle cose del mondo e all'impegno politico con strumenti davvero rudimentali, dove l'unico modo di collegarsi era il telefono fisso e le forme di comunicazione passavano dalla trasmissione a voce con i giornali (nei primi anni '70 non esistevano nemmeno i fax) e la stampa avveniva con ciclostili a mano e volantini praticamente illeggibili, risulta davvero incredibile quel che si possa fare con una chiavetta ed un pc.

Trasmetto la cronaca di queste ore. Siamo in Kosovo da neanche un paio di giorni e già è tempo di tirare le somme di una visita lampo, molto utile non solo per le cose che il programma prevedeva, ma per l'opportunità di riconnettere immagini, sensazioni e pensieri. Ne parlo con Alberto Pacher che è qui per la prima volta ma quanto basta per comprendere che quel che si gioca in questi luoghi sono partite che segnano la storia europea, nel passato quanto nel presente.

E poi dell'altro. Gli è bastato poco per capire l'efficacia formativa che la cooperazione di comunità può mettere in campo, come le relazioni costituiscano l'abc di una cittadinanza europea e globale che fatica a crescere altrove o che passa solo attraverso la fredda virtualità del web. Per i giovani che sono qui da una settimana e che ora stanno per intraprendere il viaggio di ritorno e la fatica di 18 ore di pullman, questa rappresenta una pregnante occasione formativa. Per quelli più adulti, la possibilità di mettere fuori il naso dal proprio buco e nutrirsi di immagini. Ed uscire dall'asfittico provincialismo che le cronache locali ti confezionano addosso.

Ne abbiamo una netta sensazione quando nel tardo pomeriggio, dopo qualche ora di attesa ed un volo su un vecchio MD 80 che mostra i segni del tempo, diamo un'occhiata ai giornali locali. Notizie che ti appaiono - dopo solo poche ore di sguardo sul mondo - nella loro dimensione reale di insignificanza.

Una colpisce più delle altre. Per mesi si è discusso sulla necessità di un rinnovamento della classe dirigente trentina ed ora su L'Adige passa un articolo dal sapore scandalistico relativo al costo della "Scuola di formazione alla solidarietà internazionale" di Trento. Un milione di euro, si dice con stupore, un trenta per cento dei quali in personale. Quel che dovrebbe essere un nostro fiore all'occhiello, la formazione di chi si connette responsabilmente con il mondo, diventa motivo di scandalo, quasi si trattasse di una "magnadora". E poi, per che cosa dovrebbe utilizzare le proprie risorse una scuola se non per il personale? Ma siamo impazziti?

La Scuola di formazione alla solidarietà internazionale, che ha messo in rete le attività che prima erano in capo a soggetti diversi come l'UNIP, la Federazione trentina delle Cooperative, l'Università, l'Ocse e la PAT, offre una gamma formativa che richiama utenti da ogni parte del paese e che ha contribuito non poco alla stessa qualità della cooperazione trentina nel mondo. Che insegna, ad esempio, che la logica degli aiuti crea dipendenza e andrebbe superata. Ma certo l'idea del "fare cose" ("fatti, non parole" si dice con veemenza, quasi che la conoscenza, cioè la parola, lo studio della realtà non fossero decisive per l'efficacia dell'agire), implicita nella critica delle spese per il personale (o per la formazione), va per la maggiore e non s'interroga sulle cause profonde degli squilibri, figuriamoci le anime belle in cerca di paradiso.

Così il veleno entra nelle vene, s'insinua nella coscienza collettiva, uccidendo le cose migliori e la nostra stessa diversità. Si chiama "informazione gridata", per nulla estranea al diffondersi dell'antipolitica, della demagogia e dell'imbarbarimento. E la politica si adegua. Perché già immagino le interrogazioni della Lega e la reazione imbarazzata di chi, anziché reagire con forza ed indignazione, non trova di meglio che difendersi minimizzando, quando non cavalcando la demagogia pur di raccattare qualche facile consenso.

Il giorno successivo sono alla Mendola. In una serata di formazione per quaranta ragazzi, provenienti dalla Germania e da diverse regioni italiane, sul tema dell'"Heimat" e dell'Europa. I ragazzi che vengono dalla Sicialia guardano con ammirazione alla nostra terra, alla sua diversità. Lo stesso fanno gli amici che nel mondo studiano con grande interesse la nostra autonomia. E che dovremmo imparare a nutrire con pazienza, rigore, fantasia e senso di responsabilità. Ma il veleno non aiuta e non stimola davvero.

 

lunedì, 2 agosto 2010Val Rugova

Al primo appuntamento prendiamo consapevolezza di come la Municipalità di Peja/Pec consideri oggi la relazione avviata con il Trentino: l'amministrazione locale al gran completo, Sindaco, assessori e collaboratori sono lì ad aspettarci. Dieci anni di cooperazione fanno la differenza rispetto ad una cooperazione internazionale che arriva e se ne va, che mobilita grandi risorse ma che si spesso si riducono ad interventi confusi e insostenibili. Ed oggi rappresentano una straordinaria opportunità di crescita e di scambio che vale ben oltre il pur consistente intervento anche finanziario che il Trentino ha messo in campo in questo arco di tempo.

Lo misuriamo anche sullo stesso lavoro della comunità trentina. Le figure chiave sulle quali conta l'attività del "Trentino con il Kossovo" sono le persone che si sono formate in questo percorso, una potenzialità di grande valore per la comunità di Peja/Pec. Tanto che a loro viene ora affidata la direzione della relazione in Kosovo. Si conclude infatti la presenza di una figura di responsabile esterna al territorio (negli ultimi due anni affidata ad Alessandra Angius, giovane donna sarda a rappresentare il Trentino in questa terra balcanica), passaggio per nulla scontato e semplice che segna una svolta nella relazione fra i territori.

E' di questa assunzione di responsabilità che parliamo anche di fronte al quartiere della minoranza rom ed egiziana, ai margini della città. Le immagini sono di una desolazione straziante, bimbi che giocano in mezzo alla sporcizia, rifiuti che bruciano a cielo aperto, baracche di legno e lamiera, cortili affollati da un'umanità perduta. Il ragazzo che ci accompagna viene da qui, è uno di loro. Ci descrive i problemi di questa gente, il loro degrado materiale e culturale che si traduce in apatia e divisione al loro interno nei rivoli degli interessi individuali, nell'incapacità di esprimere dei rappresentanti, il disinteresse della municipalità. Anche qui, come altrove, occuparsi di zingari non porta consenso e dunque per queste persone non c'è storia. Nella delegazione viene spontaneo di dire "facciamo qualcosa" e, del resto, con un piccolo intervento da parte della nostra ricca Provincia, si potrebbe portare l'acqua che non c'è, realizzare qualcosa per i bambini ed altro ancora.

Si avvia così un confronto fra noi. Serve di più realizzare qualcosa che soddisfi il nostro senso di vergogna  di fronte ad una situazione di così grave indigenza o non invece far sì che dal cuore di quella comunità emergano altre figure come quella di chi ci sta accompagnando,  che siano capaci di far sentire la loro voce nella comunità di Peja/Pec? Ovviamente le due cose non sono alternative, ma la prima senza la seconda non porta da nessuna parte, allieva per un attimo i problemi e poi tutto ritorna come prima. Qualcuno ricorda l'intervento fatto in questa città da Intersos sulla raccolta differenziata. Vennero allestiti i punti di raccolta per la plastica, il ferro, la carta, l'umido, ma senza i mezzi a monte e soprattutto in assenza di un cambio di cultura, tutto tornò come prima nell'arco di pochi mesi ed ora di raccolta differenziata non c'è nemmeno l'ombra, le discariche si ingigantiscono e non resta che bruciarli, talvolta ancor prima di raccoglierli.

Investire in classe dirigente, questo dovrebbe fare la cooperazione internazionale. Sostenere progetti in grado di accrescere la cultura delle persone laddove le nuove guerre tendono a demolire proprio le capacità di una comunità, i saperi che custodisce, l'intellettualità. 

Ci trasferiamo al Centro per una vita indipendente, che in questi anni ha potuto lavorare grazie al sostegno della Comunità di Capodarco e del Gruppo Volano '78 per far emergere dall'oblio le persone con handicap psichico. Anche in questo caso una battaglia prima di tutto culturale con le famiglie che "nascondevano" queste persone e poi con le istituzioni, affinché l'integrazione divenga un'opportunità. Ma per questo c'è ancora tanta strada da fare, servono mezzi, insegnanti di sostegno, classi con un numero non esagerato di ragazzi invece che quaranta come ora avviene.

Torniamo in centro per uno dei passaggi importanti di questo decennale, l'avvio di una Agenzia della Democrazia Locale a Peja/Pec, una porta sull'Europa delle regioni e delle comunità locali. Ci sono con noi i rappresentanti del Congresso dei poteri locali e regionali d'Europa, quelli di ALDA (l'associazione delle ADL), ovviamente le autorità locali e dei territori europei coinvolti. E' la tredicesima che si realizza nell'area balcanica e caucasica. Dove si sono legate alla cooperazione di comunità, le ADL hanno rappresentato un fattore importante di apertura e di relazione con un Europa seppure claudicante. Che dovrebbe darsi proprio il compito di accompagnare la cooperazione di comunità con processi di rafforzamento istituzionale e politico, sul piano della partecipazione, dei diritti, dell'attenzione verso i soggetti più vulnerabili.

Ne parlo con il Sindaco di Peja/Pec, per capire quali potrebbero essere le prime azioni da mettere in campo. Gli chiedo se esistono in Kosovo scuole di formazione politica e quali sono i meccanismi di selezione dei rappresentanti e di passaggio delle competenze. Tema, come potete immaginare, piuttosto delicato ma qui come altrove di particolare attualità. Lavoreremo anche in questa direzione.

Ci spostiamo a Gorazdevac, enclave serba nel territorio municipale di Peja/Pec. Vi abitano un migliaio di persone, ancora isolate in questo buco del mondo. Isolamento che in questi anni, grazie al lavoro del Tavolo, si è andato un po' attenuando. Ma ancora oggi gli abitanti di qui non frequentano la città se non per andare in qualche ipermercato, diventati "zone franche" in nome del denaro. Qui si continua a misurare la separazione, la tensione e il rancore. Una veloce visita ai progetti, una calda accoglienza in una fattoria che partecipa al progetto sull'agricoltura con l'immancabile rakija (la grappa locale). Ci invitano a tavola con loro in questo giorno che per loro è di festa. E' infatti la "slava", la festa del santo della famiglia, forse la più importante di ogni altra festa religiosa, e in questa occasione si invitano amici e parenti a stare insieme. Purtroppo non ci possiamo fermare e il saluto non è solo cordiale: Alessandra che ci accompagna e che oggi conclude il suo mandato non riesce a trattenere le lacrime per l'abbraccio affettuoso delle persone che le portano in dono le lavorazioni artigianali fatte a mano come gratitudine per il suo lavoro in questi due anni.

Il tempo di tornare in città e subito prende il via la festa vera e propria, che coincide con l'inaugurazione del campo da basket e di una mostra fotografica sulle due città (Peja/Pec e Trento) realizzata nel centro culturale Zoom.  Fa caldo, ma il piazzale della festa è gremito di persone, di giovani soprattutto. Agli interventi ufficiali seguono quelli più informali dei ragazzi trentini e del posto che hanno lavorato per giorni all'organizzazione della festa, una piccola performance della squadra femminile di basket, la musica.

Il vicepresidente della PAT Alberto Pacher tocca con mano quel che significa una cooperazione fondata sulle relazioni e nel suo saluto ai presenti dice che i ragazzi venuti in pullman da Trento con la cooperativa Arianna rappresentano la nostra meglio gioventù, a testimoniare come queste relazioni siano importanti per la crescita reciproca. Un investimento, il nostro. Sulla capacità di stare al mondo.

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domenica, 1 agosto 2010pesciolino

Manco dal Kosovo da almeno tre anni. Ho continuato a seguirne le vicende a distanza, in particolare attraverso il sito dell'Osservatorio e le attività di cooperazione fra il Trentino e la Municipalità di Peja/Pec, ma mi mancano le immagini dirette, gli sguardi delle persone, l'annusare l'aria. Il colpo d'occhio ti dà l'idea di un grande fervore, autostrade in costruzione, immancabile il fiorire dei centri commerciali. Anche la vita nelle città ha assunto una dimensione di normalità, anche se questa ha il marchio dell'omologazione, dei loghi e del consumismo. E poi in questi anni il Kosovo è diventato uno Stato indipendente, per quanto non ancora riconosciuto dal diritto internazionale nonostante il parere della Corte di giustizia de L'Aja.

Ritornare in Kosovo, seppure per pochissimi giorni, dunque mi incuriosisce. Per aggiungere alle informazioni quel che i tuoi occhi e la tua conoscenza di questa regione riescono a farti mettere a fuoco.

Mentre scrivo sono a Pec/Peja da poche ore, le immagini cominciano ad arrivare a destinazione. Alcune, per la verità, già prima della partenza, all'aeroporto di Verona. Una lunga fila sosta davanti al chek in. Sono immigrati kosovari, una folla di giovani con le loro giovanissime famiglie, che rientrano nel loro paese per le vacanze. Il Kosovo è il paese più giovane d'Europa e qui ne abbiamo uno spaccato.

Una giovane donna siede sull'aereo accanto a me, vuole guardare dal finestrino e le cedo volentieri il posto. Qualche parola e scopro che lavora come operaia in una ditta di coloranti per capelli, nei pressi di Brescia. Viene da Glina e durante la guerra è stata profuga in Albania. Nelle sue parole si avverte l'orgoglio della libertà conquistata e la consapevolezza del molto che c'è ancora da fare. Quando atterriamo a Pristina le dico che la prima volta che sono arrivato qui nel dopoguerra c'erano ancora i soldati russi, che - beffa del destino - arrivarono in Kosovo prima degli americani ed occuparono subito l'aeroporto. Ovviamente, nella narrazione collettiva degli albanesi del Kosovo di questo non si racconta.

Nemmeno il tempo di arrivare a Peja/Pec e già ci aspettano al Patriarcato, per una visita di cortesia in uno dei luoghi di maggior valore storico e culturale della regione. Perché questo non è un monastero qualsiasi, è il Patriarcato ortodosso di Pec, culla dell'identità nazionale e religiosa serba. Che qui si sovrappongono ed è un guaio che - lungo la storia - ha accompagnato quel popolo. Nel visitarlo hai la percezione del crocevia nel quale sei immerso e che nemmeno immagineresti prima di metterci piede.

Nemmeno le migliaia di giovani che affollano l'area pedonale sembrano averne consapevolezza, presi come sono nell'aderire - inconsapevolmente o no, non fa poi tanta differenza - alle forme più volgari della globalizzazione. Mi viene in mente il filmato sulla "Generazione ‘89" di OBC e l'intervista ad un ragazzo rumeno che pur non avendo una lira in tasca se ne usciva dicendo "Io sono un capitalista".

Incontriamo il Sindaco di Peja/Pec Ali Berisha. Parliamo delle nuove sfide di questa città, delle aspettative per le giornate di festeggiamento dei dieci anni della cooperazione fra le nostre comunità ... Mi chiedono quel che penso su ciò che accade nella regione e dei rapporti con l'Unione Europea.  Rispondo che non è facile sapere quel che bolle in pentola a Bruxelles, ma che qualunque cosa sia non sembra aprire sprazzi significativi nel torpore politico dell'Unione.

Rivedo dopo qualche anno Alessandro Rotta, amico e viaggiatore balcanico, da un paio d'anni lavora a Pristina per Eulex, la struttura europea che dovrebbe progressivamente portare al superamento di Unmik (la missione delle Nazioni Unite per il Kosovo). Con Alessandro c'è stima e ascolto, la nostra conversazione spazia dal Veneto al Kosovo, ai nostri impegni politico e professionali, a quel che si dovrebbe fare per far uscire la sua regione da un imbarbarimento che la segna nell'animo. Due passi e un caffè espresso (perché quello tradizionale è praticamente scomparso... dovremmo metterlo in protezione!), un saluto alle molte decine di volontari che sono qui per le manifestazioni del giorno dopo... e poi crollo nel sonno del giusto. Così  da dover rimandare la pubblicazione di questo diario dal Kosovo, da dove è partito il delirio degli anni '90.