"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

07/11/2015 -
Il diario di Michele Nardelli
L\'oceano pacifico

La forza della natura e quella delle nuove generazioni e ... un altro racconto

Diario messicano. Terza puntata

Lasciamo Oaxaca in direzione dell'oceano pacifico. Le distanze non sembrano problematiche ma percorrere quei trecento chilometri ed in particolare la cordigliera della Sierra del Sur è un'impresa che richiede più di sette ore di viaggio e la discesa verso il pacifico sembra non finire mai.

Colpisce la forza della natura. Lo scenario è quello della foresta tropicale, impenetrabile ai nostri occhi, non a chi la abita e che vi trova di che sopravvivere. Qui cominci forse a capire il motivo dell'esodo verso le periferie urbane.

Sarà l'effetto della pioggia intensa che accompagna il nostro viaggio, saranno i segni degli smottamenti e delle frane seguiti ai nubifragi dei giorni scorsi e che ti dicono di un ecosistema reso più fragile dai cambiamenti climatici... ma tutto quel che vediamo ci parla della durezza del vivere.

Entriamo in una locanda che lungo la via si propone come “Comida Flor”, poco più che una baracca di legno e onduline di eternit con al centro un focolare carico di pentole a testimoniare che pure qualcosa bolle. Non ci aspettiamo niente di che e quel che ci offrono nei piatti rigorosamente di plastica ci conferma di una vita grama, di una povertà che non è solo di mezzi materiali.

Da un angolo della baracca un televisore trasmette in diretta la cronaca di una partita del campionato italiano di calcio, nomi noti che qui assumono un significato particolare, non dissimile da una telenovela che diventa sogno impossibile e desiderio di andarsene alla prima occasione.

Continua a piovere ed è ormai notte inoltrata quando sentiamo in lontananza la voce dell'oceano. Non siamo lontani dalla nostra meta, ma l'uragano che si è scatenato nella zona solo dieci giorni fa ha lasciato segni profondi nelle strade di terra battuta, rendendole pressoché inagibili. Ci tocca tornare indietro e provare un'altra strada un po' meno dissestata che riusciamo a superare a fatica.

“Salchi” è un villaggio ecologico realizzato da un gruppo di canadesi in una splendida insenatura sull'oceano pacifico, casette realizzate con buon gusto che vengono affittate a cifre ragionevoli ma seguendo regole precise per evitare un'impronta negativa sull'ecosistema locale. Ci sarebbe di che discutere, per la verità, ma se rapportate alle baie che nei giorni successivi incontreremo, segnate dalle multinazionali del turismo o dalla banalizzazione dei luoghi, questo villaggio è un piccolo paradiso. Il rumore del mare ci accompagnerà nel sonno che, messe da parte le difese, ci prende all'improvviso

Quando ci svegliamo di buon mattino, eccolo finalmente il grande oceano. E, di nuovo, colpisce la forza della natura. Le sue onde mettono a nudo la tua insignificanza. L'idea dell'uomo signore del mondo, malgrado il delirio che chiamiamo progresso, appare in tutta la sua arroganza e stupidità. Perfino la tua carnagione nel sole dei tropici ti fa sentire inadeguato, consigliando di accostarti con prudenza ad un luogo verso il quale noi europei abbiamo un debito non ancora elaborato, men che meno saldato. Anzi. I flussi della globalizzazione, il pensiero unico, le leggi del mercato, i suoi simboli, l'incapacità di fare i conti con la propria storia fanno il resto, esponendo queste comunità a forti processi di omologazione culturale e materiale. In fondo non molto diversi, in ogni parte del mondo.

Te ne accorgi nei mega centri turistici con le insegne della modernità, che hanno fatto piazza pulita dei precedenti insediamenti di pescatori e di contadini, ma anche nei villaggi lungo la costa a ridurre la natura a mercato ci hanno pensato le comunità locali con il proliferare del cemento e del cattivo gusto. Lo puoi vedere nei grandi magazzini, dove l'industrializzazione del cibo mette in un angolo (non solo in senso metaforico) il prodotto fresco e tutto il resto è plastica. Lo puoi osservare nel modo in cui alcuni giovani pescatori portano a riva il pesce, lo squartano, lo gettano sulla pesa e poi nel cassone di un pik-up senza alcuna traccia di quel rispetto che gli uomini di mare hanno sempre avuto verso le sue creature.

La cosa che prende alla gola è che tutto questo è avvenuto negli ultimi trenta o quarant'anni, in buona sostanza il tempo della mia generazione, uno spazio temporale insignificante sul piano della storia del pianeta, ma abbastanza per averne pregiudicato antichi equilibri e con essi l'amore per la bellezza e la sostenibilità. Richiederebbe un ritornare sui propri passi che non è dato e che appare alquanto improbabile. Perché significherebbe anteporre la cultura al denaro e la capacità di sottrarsi al dominio delle cose sull'uomo.

La natura e la cultura possono resistere, ma richiedono di un cambiamento, prima che sia troppo tardi. Dobbiamo credere nelle nuove generazioni che nonostante tutto ancora hanno voglia di studiare, di capire e di dire la loro. Come quelle comunità che in questo grande paese ancora esprimono la volontà di autogoverno. Come quei giovani che, a dispetto delle condizioni di grande difficoltà delle loro famiglie, hanno l'orgoglio di iscriversi all'Università e di provarci. Come quei 43 ragazzi che nel vicino stato di Guerrero sono stati assassinati per aver denunciato la corruzione e il crimine organizzato e come quella mano che a Oaxaca ha scritto su un muro queste parole “No solo nos faltan 43. Nos faltan huevos”1.

Insieme occorre un altro racconto, capace di far tesoro di quel che il Novecento – nel bene e nel male – ha prodotto. Elaborandone le vicende, i deliri, le speranze. E forse in questo la mia generazione potrebbe ancora essere utile.

 

1“Non solo ci mancano 43. Ci mancano i coglioni”

 

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