"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

11/11/2015 -
Il diario di Michele Nardelli
Diego Rivera, Murales

Diario messicano. Quinta puntata.

Ancora a proposito della “sinistra italiana” vista da tanto lontano. Il Messico è terra di tradizioni progressiste. E' il paese della prima rivoluzione democratica del Novecento, da cui nacquero in seguito la grande riforma agraria e la nazionalizzazione dell'industria petrolifera. Per molti anni è stata terra d'asilo per i rivoluzionari di tutto il mondo, specie dall'America Latina ma anche dall'Europa durante il fascismo e dalla Russia durante gli anni dello stalinismo. Nel secolo scorso ha rappresentato un punto fermo nella ricerca antropologica e culturale per l'intero pianeta. Ancora negli anni novanta l'insurrezione indigena in Chiapas ha scritto pagine interessanti nel cercare di superare i paradigmi di una politica che in ogni latitudine ha rinunciato alla fatica di interrogarsi e all'ebbrezza della costruire strade nuove.

Eppure nei pochi giorni di permanenza in Messico mi rendo conto di quanto il dibattito politico sia sia fermato, impantanato nelle secche del secolo scorso, qui come altrove. A Oaxaca assisto a due manifestazioni nello “zocalo” della città, protagonisti gli insegnanti che qui rappresentano una forte corporazione di sinistra. Per i contenuti che emergono nelle parole degli oratori, gli slogan ritmati dai partecipanti, i simboli che vengono agitati e le modalità di svolgimento sembra di assistere ad un film già visto. Un lungometraggio perché una settimana dopo sono ancora lì, nello stesso luogo, a gridare nel microfono che nella lotta sarebbero disposti anche a morire. Eppure tutt'intorno si celebra l'antico culto dove la morte è il proseguimento della vita, non l'estremo sacrifico... e il disinteresse intorno a loro è più che mai eloquente.

Mi chiedo se il tempo si sia fermato anche a Città del Messico nell'assistere ad un corteo delle organizzazioni contadine che sembra spuntato fuori dall'archivio del movimento sindacale, in questo caso un po' più allegro visto che le persone che vi partecipano sono intere famiglie che vengono dal campo, qui a rivendicare giustizia sociale in un paese dove il divario fra ricchezza e povertà è fra i più alti del mondo1.

Manifestazioni in fondo non molto diverse da quelle cui ho assistito anche in Italia, prendendo atto di una distanza sempre maggiore nei contenuti e nei modi di esprimere la necessità di un cambiamento di cui pure avverto radicalmente la necessità. Ma che richiederebbe un profondo scarto culturale che invece non c'è.

Ed è qui che volevo arrivare. Perché la nascita di “Sinistra Italiana” – di cui ho parlato nella puntata precedente di questo mio “diario messicano” – mi ha scosso per davvero. Non perché credo che il PD, sul piano delle categorie del pensiero, sia poi tanto diverso. Come non lo è questa cosa di Pippo Civati ed altri chiamata “Possibile”, emulando quel “Podemos” che in Spagna già segna qualche crepa. Ma perché ci racconta di quanto poco si sia riflettuto tanto sull'eredità della sinistra novecentesca, quanto sul nostro tempo.

Emerge, qui in Messico come in Italia, come la dialettica interna alla sinistra avvenga fra “conservatori”, gli uni di una modernità che ha deciso che questo sia il migliore dei mondi possibile, gli altri di una tradizione politica che è andata tradita e che è necessario rifondare, entrambi chiusi nell'orizzonte delle magnifiche sorti progressive dello sviluppo.

E' mai possibile che non ci si interroghi sulla sconfitta con cui si è chiuso il Novecento, se non in termini di subalternità al pensiero vincente o di tradimento? Il mio pensiero va per un attimo alla Grecia e al dibattito che ha portato alla spaccatura di Syriza, anch'esso tutto interno a questa dialettica stantia.

In questi anni ho guardato con attenzione a quanto emergeva di interessante nel mondo della sinistra chiamiamola globale, anche se sotto questo nome potevi trovare proprio di tutto, il che avrebbe consigliato e consiglierebbe almeno un po' di prudenza. Ed è quella che ho cercato di avere in passaggi anche entusiasmanti come la vittoria di Lula in Brasile o di José “Pepe” Mujica in Uruguay, così come nel travaglio politico europeo laddove la crisi della socialdemocrazia faceva emergere esperienze come i Grünen prima o Syriza e Podemos successivamente, scorgendo qua e là le traccia di una ricerca politica che era anche la mia (o, meglio, la nostra visto che si trattava di una ricerca almeno per un lungo tratto collettiva). Per poi dovermi rassegnare all'emergere di vecchie culture e degli stessi vizi di sempre. O ad una distanza sempre più profonda.

Ne parliamo una sera a cena con Mary Kay Vaughan, antropologa e professoressa emerita dell'Università del Maryland, amica di Carlos Schaffer e di Alberto Tridente. Proprio con Alberto, mi racconta Mary Kay, aveva forti discussioni sul Brasile di Lula e le sue grandi contraddizioni che Alberto ascriveva alle condizioni che l'ex operaio metallurgico aveva ereditato o al fatto che la maggioranza del Parlamento brasiliano non era omogenea al suo presidente o, ancora, con la considerazione che quando i poveri vanno al potere si portano appresso la fame di avere. Come se la solidarietà dovesse significare assecondare anziché interrogarsi per tempo, chiudere gli occhi anziché esercitare il diritto di critica...

Apro qui una piccola parentesi. Pensate che quando ho detto che la causa palestinese aveva bisogno di idee nuove e non di tifosi mi hanno accusato di essere filo israeliano. La cultura che spesso ci portiamo appresso è profondamente manichea, divide il mondo in bene e male, buoni e cattivi, dove i buoni, naturalmente, saremmo noi, un noi settario perché manichei lo si è come forma mentale. Chiusa parentesi.

Essere “dalla parte dei diritti”2 non ci esime dall'interrogarci sugli esiti, anche quando questo mette in discussione ciò in cui abbiamo creduto e crediamo. Ma di questo interrogarci esigente non c'è traccia almeno nella scelta di un nome come “Sinistra Italiana” che di quel progetto dovrebbe esprimere l'anima. Allora provo ad ascoltare le parole di Stefano Fassina nella presentazione del nuovo partito, ma di un cambio di paradigma proprio non si pone nemmeno l'esigenza. Era del resto quel che avevo provato nell'incontrarlo in via del Tritone a Roma nel dicembre di quattro anni fa, quando ancora era responsabile economico del PD (e Matteo Renzi il sindaco di Firenze). Un incontro privato che aveva lo scopo di sondare nel pensiero di uno degli esponenti più in vista della sinistra cosa ci fosse sul piano della ricerca politica innovativa. Ne uscii profondamente deluso.

Nella sua bella casa di Oaxaca, Mary Kay segue con un certo stupore i miei ragionamenti sulla necessità di fermare un modello di sviluppo fondato sulla crescita illimitata, che è già ben oltre la sostenibilità e che ci sta portando alla guerra, quella stessa guerra di cui parla, in buona sostanza inascoltato, Papa Francesco. E di strade inedite di liberazione che la politica, ancorata ai vecchi paradigmi ed incapace di interpretare un tempo nuovo, non avverte nemmeno il bisogno di cercare. Non trovando di meglio da fare che ancorarsi alla rivoluzione francese.

Un cambio di paradigma richiede una metamorfosi profonda, ci vorrà tempo e spazi di confronto. La cosa bella è di essere qui a parlarne fra persone che vivono, pensano ed operano in mondi diversi, a decine di migliaia di chilometri l'una dall'altra. Dialoghi che potranno proseguire usando al meglio ciò che le nuove tecnologie ci permettono di fare.

 

1Il coefficiente di Gini, che misura il grado di divario fra povertà e ricchezza in ciascun paese, colloca il Messico al 109° posto su 124 paesi monitorati (per capirci l'Italia è al 52° e gli USA al 75°). Per saperne di più https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_per_uguaglianza_di_reddito

2Alberto Tridente, Dalla parte dei diritti. Rosenberg & Sellier, 2011

 

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