"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

11/12/2010 -
Il diario di Michele Nardelli
la caduta del fascismo
Sabato 11 dicembre è giornata di mobilitazione nazionale promossa dal PD "con l'Italia che vuole cambiare". Nel pomeriggio saranno centinaia di migliaia le persone che manifesteranno a Piazza San Giovanni.  Non sono a Roma, ho un impegno nel pomeriggio a Borgo Valsugana promosso dalla locale biblioteca, ma devo dire che guardo a queste forme di mobilitazione con un certo scetticismo.

L'ultima alla quale ho partecipato fu quella grandiosa del 23 marzo 2002 della Cgil sull'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, tre milioni di persone che ascoltarono Sergio Cofferati per affermare l'intangibilità dei diritti del lavoro. Forse la più partecipata di tutti i tempi, ma non impedì la sconfitta. Non vorrei che il mio disincanto suonasse come atteggiamento di sufficienza o potesse alimentare frustrazione, ma dovremmo aver imparato a non confondere le piazze piene con il consenso. Nel 2002 il massimo livello di mobilitazione corrispose al momento forse più alto di divisione sindacale e perdemmo.

In ogni caso non ha fermato la compravendita dei deputati e Berlusconi ostenta sicurezza. Anche perché il quadro dell'opposizione è tutt'altro che unito, le contraddizioni che portarono alla caduta del governo Prodi tendono a ripresentarsi sempre uguali e un blocco sociale alternativo al berlusconismo ancora non si riesce ad intravedere.

Il centrodestra è imploso ma noi arriviamo in ritardo, impreparati. Non siamo portatori di un progetto diverso che poi era il grande obiettivo della nascita del PD. Obiettivo ancora lontano.

Ne ho la percezione anche nell'incontro che svolgiamo a Borgo Valsugana, nel pomeriggio, dove parliamo di un censimento lontano cent'anni, in realtà una scusa per affrontare il tema di un'Europa che non c'è, delle paure che attraversano la nostra società, delle culture che faticano ad esprimere il meglio di sé e a dialogare fra loro.

Kanita Foćak, da architetto qual è, racconta la storia di un edificio nato come municipio che avrebbe voluto ingraziarsi una popolazione ostile, il cui progettista confuse il sincretismo bosniaco con la cultura orientale. Ne uscì un edificio "moresco", che non rappresentava nulla ma al quale la gente di Sarajevo si affezionò. Fino a diventare, nel corso del ‘900, la biblioteca nazionale di quella città, luogo della cultura e della storia ma anche luogo d'incontro dei giovani che lì studiavano e si innamoravano.

Racconta di quel giorno, il 28 agosto del 1992, quando il libri cominciarono a bruciare, dell'angoscia delle persone e della sua che vedeva il rogo dalla finestra di casa. Racconta della sensazione di abbandono che pervadeva la gente di Sarajevo e del disperazione dell'assedio.

Qualcuno vorrebbe inquadrare i fatti nel proprio schema mentale, anche i racconti di vita non riescono a far breccia nell'aridità degli schemi ideologici. Ma il racconto di Kanita e l'idea di pace che provo a proporre mi sembra riesca a far breccia.

 

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