"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Parlare di immigrazione può essere scontato, quasi banale. Farlo senza cadere nella logica dell'aiuto e di un buonismo spesso umiliante lo è ancora meno. Non voglio dire che l'accoglienza non sia importante. Ma l'accoglienza è buona se si ha la consapevolezza di aver a che fare con persone che sono una risorsa, non un problema. Perché l'immigrato è anche l'intelligenza che esprime, il sapere e la cultura che porta con sé, il suo sguardo diverso dal nostro, la sua sensibilità. Andandosene dal suo luogo d'origine è stato il suo paese ad impoverirsi. Quando ne parliamo, gli occhi di Sohelia si rempiono di lacrime.
Come non capire che le terre d'asilo si sono arricchite di questi sguardi diversi? Penso al Messico, la prima rivoluzione del Novecento, che ha ospitato nella sua principale Università (la Unam, la più grande del mondo) intellettuali esuli dalle dittature di ogni parte del mondo. O alla Svezia, terra di fertile pensiero fin quando si è nutrita degli scambi culturali che venivano dagli asilanti. O di come lo sono state storicamente le città con le loro agorà, nel fare del cosmopolitismo una straordinaria opportunità di crescita.
Nell'incontro che si svolge a Palazzo Trentini nel pomeriggio di venerdì proviamo a ragionare di noi, della nostra autonomia nel rapporto con l'altro che ci interroga, che ci chiede non la carità ma la dignità, che non è solo il lavoro (di cui peraltro abbiamo bisogno) ma anche l'attenzione, il rispetto, la relazione. Nella consapevolezza che stiamo parlando, come ci ricorda Piergiorgio Cattani, della nostra identità del futuro. E che nel rapporto con l'immigrato (o il richiedente asilo) - come afferma Stefano Fait - "ci stiamo occupando di noi".
Non parliamo solo della nostra autonomia, ma delle autonomie come altra idea di ri-pensare all'Europa o comunque ad una dimensione sovranazionale. Il territorio, paradigma del glocale. Purtroppo il concetto di autonomia (come quello di federalismo) ancora rappresenta un'idea di frontiera, un crinale tagliente perché spesso inteso come chiusura. Nelle istanze indipendentiste è così.
Abitare questo crinale tagliente, questa è la sfida. Per questo riprendo l'articolo di Steven Forti che ci ha raccontato dell'11 settembre di Barcellona, quel milione e mezzo di persone che hanno partecipato alla festa della Catalogna rivendicando l'indipendenza dalla Spagna. Barcellona è città tradizionalmente democratica, il 20% della popolazione catalana in piazza non può essere bollata semplicemente come un'istanza egoista. Come non comprendere, infatti, che il paradigma dello stato-nazione rappresenta un ferro vecchio? Che i nostri paesi sono già plurinazionali e che le identità sono sempre in divenire? Che la cifra dei problemi è sempre più sovranazionale e territoriale? Che la dimensione statale è sempre più inservibile e fuori scala, troppo grande per le istanze territoriali, troppo piccola per le dinamiche globali?
Domande queste che sembrano non scalfire le visioni ideologiche. Attardandosi sull'accoglienza, evidenziando il conservatorismo di cui sono portatrici. Non nego che anche sull'accoglienza ci sia ancora molto da fare. Ma sarebbe sbagliato non darci un nuovo orizzonte. Lo hanno compreso gli amici tibetani, che guardano al Trentino come sperimentazione avanzata di autogoverno. Gli immigrati marocchini in questa terra che dopo essere rientrati nel loro paese d'origine ci chiedono di raccontare l'autonomia che hanno conosciuto ed apprezzato alla loro gente. Gli intellettuali afghani preoccupati di quello che potrebbe accadere nel 2014 al loro paese, quando le forze di occupazione se ne andranno lasciando dietro di sé macerie (e divisioni) di ogni tipo.
Nessun modello da esportare, sia chiaro. Ma un racconto da proporre, come parte di una relazione dove gli attori si mettono in gioco, come occasione per riflettere sulla nostra stessa esperienza, guardandoci con lo strabismo necessario per dare profondità all'osservazione. Questo è il significato di quell'"identità del futuro" di cui parla Cattani, questo è il significato di quel "nel" che abbiamo messo prima della parola "limite", proprio per descrivere la necessità di abitare la contraddizione, evitando di dividere il mondo in buoni o cattivi. Consapevoli cioè di esserne parte.
Devo riconoscere che c'è una fortissima assonanza fra le mie parole nell'incontro "Le autonomie europee alla sfida dell'emigrazione. Quali diritti e doveri per i nuovi cittadini glocali?" e l'introduzione di Lorenzo Dellai nel convegno di sabato mattina promosso dall'Unione per il Trentino al Centro Marnighe di Cognola (Trento) dal titolo "Crisi economica, neoconservatorismo e ruolo dei territori". La sperimentazione politica di vent'anni qualcosa ha pur sedimentato...
All'incontro delle Marnighe c'è anche Aldo Bonomi, vecchio amico con il quale abbiamo attraversato gli anni dello spaesamento cercando nuove categorie per descrivere la postmodernità. Localismo? Mi viene da sorridere. Penso a quando, nel 2000, presentai il suo "Manifesto per lo sviluppo locale" a Città del Messico, la più grande megalopoli del mondo, riscontrando uno straordinario interesse.
Il fatto è che il paradigma territoriale è ancora eresia. Nella politica (ma anche nella società civile) che non sa nemmeno immaginarsi oltre la dimensione nazionale ma nemmeno come soggettività territoriale, capace cioè di autopensiero. Un profilo che c'era nella carta etica del PD. Ma Francesco Prezzi mi ricorda, giustamente, che molti di quelli che quella "carta" l'avevano scritta nel PD non ci sono più. Hanno gettato la spugna di fronte al riemergere delle vecchie appartenenze.
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