"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

16/11/2012 -
Il diario di Michele Nardelli
Quotidiano dei Lavoratori

Nella prestigiosa cornice della "Farrari Incontri", dove le bottiglie del "Trento doc" sembrano oggetti preziosi, Vittorio Borelli presenta il suo primo romanzo "Stefana. Il profumo acre dell'est", un thriller edito dalla piccola casa editrice trentina "Silvy". Vittorio è un vecchio amico dai tempi in cui era il direttore del "Quotidiano dei Lavoratori". Nella metà degli anni '70 condividevamo oltre alla militanza politica anche l'idea, invero piuttosto irragionevole, che l'impegno politico potesse assorbire le nostre vite fin quasi ad identificarvisi.

Erano anni di profondi cambiamenti e di straordinaria passione, fors'anche per questo non ammettevano dubbi e quell'identificazione portava con sé il segno inquietante di una sconfitta che da politica sarebbe diventata personale. Vittorio ne scrisse un libro (Diario di un militante intorno a un suicidio, Feltrinelli, 1979) e se ne andò.

Il Secolo XIX, Panorama, il Sole 24 ore, il Mondo. Poi il salto in Unicredit, come responsabile della comunicazione. Infine la rivista east. In mezzo un bel libro come "Banca padrona". In tutto questo percorso non ho mai pensato a Vittorio come ad un pennivendolo. Leggendo i suoi editoriali sul Mondo scorgevi il tratto di un pensiero vivace nell'interpretare le trasformazioni, certo con lo sguardo del giornalista, diverso dal mio. Ma dove ci accomunava il privilegio di poter fare le cose che ci piacevano fare. Ed è così anche oggi, nella scelta di raccontare il mondo, in questo caso attraverso un romanzo che ci aiuta a comprendere una postmodernità che ha l'odore acre, a distanza di anni, del socialismo reale e di un imbroglio chiamato transizione. Quando avrò letto "Stefana" ne riparleremo. Intanto rimane l'emozione del ritrovarsi e la piacevole sensazione della mitezza. Cosa rara.

Al mattino seguente ci incontriamo con Mario Zambarda, Salvatore Maule e Roberto Pagliarini. Quest'ultimo ha lavorato per diversi anni come enologo in Palestina, alla Cantina Cremisan di Beit Jalla, praticamente rinata anche grazie al suo lavoro. Parliamo del Vino di Cana, di questo progetto che stiamo perseguendo da anni e che ha portato recentemente alla realizzazione di una piccola cantina ad Aboud, non lontano da Ramallah.

C'è soddisfazione per i risultati che si sono raggiunti, la qualità è migliorata decisamente tanto a Cremisan quanto ad Aboud ed ora servirebbero nuovi impianti di coltivazione delle uve autoctone che peraltro sono parte dell'antica tradizione locale, come si evince dalle zone archeologiche nei pressi del villaggio. Ciò nonostante Pagliarini appare deluso da una cooperazione che nemmeno si pone nell'ottica di costruire relazioni stabili fra le comunità e quindi guarda a noi, alla comunità trentina, per non buttare alle ortiche anni di lavoro. Insomma, ci chiede di raccogliere il testimone e di proseguire nell'obiettivo di realizzare quella rete di esperienze nel settore agricolo di cui avevamo parlato a Beit Jalla quando ancora lavorava per il VIS (l'Ong dei Salesiani).

Anche Salvatore Maule, formatore e ricercatore della Fondazione Mach (l'Istituto Agrario di San Michele all'Adige), ci chiede di assicurare continuità al lavoro avviato nella ricerca/sperimentazione di vitigni locali ed anche questo mi fa davvero piacere considerato che in passato il suo sentire tendeva più verso il pessimismo. Uno sguardo severo - sia chiaro - è sempre utile quando si avviano progetti di cooperazione internazionale, tanto è facile sbagliare o prendere abbagli.

Ci incontreremo a breve (sabato 1 dicembre, ore 10.30) alla Cantina Pravis di Lasino per fare il punto sull'insieme del programma di sviluppo rurale su cui abbiamo costruito un anno fa anche il Protocollo d'intesa fra la PAT e l'Autorità Nazionale Palestinese. E archiviata la Legge Finanziaria dovremmo mettere in cantiere una nuova visita in Palestina. Nella speranza che le notizie che arrivano in queste ore da Gaza non siano il preludio di una nuova guerra su larga scala.

Sono fuori di testa e chiusi nel vicolo cieco di un paradigma che non permette loro di trasformare in forma creativa quel conflitto. Lo dico per il Governo israeliano, che fonda la sua politica di espansione sulla sistematica violazione delle risoluzioni internazionali, annunciando nuove colonie nelle aree che gli accordi di Oslo hanno assegnato all'Autorità Nazionale Palestinese. Lo dico per Hamas che ancora pensa (o tollera) l'opzione militare nella gestione del conflitto. Lo dico per gli effetti ritorsivi che l'esercito israeliano mette in campo, quasi altro non attendesse per dispiegare carri armati e decine di migliaia di riservisti lungo i confini con la Striscia di Gaza. Lo dico infine per l'Europa (che non c'è), per l'Italia (subito allineata con la follia israeliana) e per gli Stati Uniti d'America che buttano al vento la speranza di dialogo che i palestinesi riponevano nella rielezione di Barack Obama.

In serata passo da piazza del Duomo a Trento, dove si svolge un sit-in in solidarietà con il popolo palestinese promosso attraverso facebook. Poca gente, sempre le solite facce. Ma non è questo che mi fa decidere di andarmene via dopo pochi minuti. No, non è la solitudine che talvolta accompagna le cause migliori. E' il fastidio per le ritualità, per gli slogan sempre uguali e per l'aggressività che esprimono, per quel modo di pensare che divide il mondo in forma manichea. Non sono equidistante, sia chiaro. So bene quanta ingiustizia vi sia nel vivere ammassati in un fazzoletto di terra come Gaza con una densità di 4.587 persone per chilometro quadrato. So la violenza delle colonie che occupano territori contro ogni straccio di legalità internazionale. Come so della profonda ingiustizia che la Palestina tutta ha subito con la pulizia etnica perpetrata da Israele, puntualmente documentata dallo scrittore israeliano Ilan Pappe (La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore). Equiprossimo, semmai. Ma questo non significa non interrogarsi sul fallimento delle strade sin qui seguite, non può significare il non indagare strade diverse. Negli slogan che ascolto, sento il peso di una cultura che non mi appartiene. Totalmente chiusa nella logica di guerra che continua a prevalere.

In serata mi attende ancora un incontro politico, l'indomani (sabato) una giornata piena di impegni. Avverto una stanchezza che il giorno dopo mi farà modificare tutta la mia agenda.

 

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